All’aumento dei poveri si accompagna non solo il disinteresse della politica ma il sentimento diffuso che la povertà sia una colpa. Con la conseguenza di una progressiva restrizione degli spazi di lotta, di espressione, di dissenso, di immaginazione. L’impressione è quella di avviarci verso uno stato orwelliano, in cui non si curano i mali ma si reprime chi li contesta e si emargina chi li subisce.
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Ci sono almeno due aspetti inquietanti nella nostra realtà al di là del tema strettamente ambientale che da sempre mi occupa. Ma il tema dell’ambiente e quello del rapporto tra gli uomini stessi, come sottolinea Amitav Gosh nel suo fondamentale La maledizione della noce moscata è strettamente connesso. Dunque, dicevo di due aspetti inquietanti: uno riguarda la povertà, l’altro la repressione.
La povertà. Al di là della considerazione oggettiva dell’aumento dei poveri, che oggi sono anche quelli che un lavoro ce l’hanno mentre un tempo erano solo i barboni, quello che inquieta è che è sempre più diffuso non solo il disinteresse sostanziale della politica, ma anzi il sentimento diffuso che essere poveri sia una colpa. «Sei povero perché non hai saputo cogliere le occasioni che la società ti offre». Un comune sentire radicato negli statunitensi di oggi (non chiamiamoli “americani”, che sono gli abitanti di un intero continente, gli statunitensi non sono così importanti…) e che ha portato persino a criminalizzare la povertà. Non siamo a questi livelli (anche se stupidamente continuiamo a ritenere gli USA un faro di democrazia), ma la sensazione che si vedano i poveri come diversi è sempre più forte. Ne sono del resto testimonianza il reato di accattonaggio introdotto dal Governo del “sinistro” Gentiloni, oltre che le ordinanze contro i poveri di alcuni comuni e gli sgomberi in favore del decoro avvenuti anche a Torino con i Cinquestelle. E non è in controtendenza un reddito di cittadinanza che si limita a dare i soldi ma non si cura di cercare di risolvere alla base il fenomeno della forbice sempre più marcata tra chi ha e chi non ha. Troppo scomodo mettere in discussione la nostra malata società.
Figlia di una simile visione reazionaria della società è la deriva sempre più violenta che caratterizza l’atteggiamento dello Stato nei confronti di quelli che oramai vengono definiti gli “antagonisti”, che non sono necessariamente gli anarchici («Gli anarchici li han sempre bastonati e il libertario è sempre controllato dal clero, dallo Stato»), ma tutti coloro che hanno il coraggio di protestare, di mettersi di traverso, il che accade per la difesa del territorio, per l’occupazione di spazi pubblici, per la difesa dei propri diritti o della propria dignità. Esemplare a questo proposito l’analisi dell’avvocato Claudio Novaro di Torino che difende appunto gli antagonisti (la città subalpina è un “covo” di antagonisti, mi ci metto anch’io) e sottolinea come invece la violenza dello Stato non venga mai perseguita dalla magistratura: non è un caso che da noi le forze dell’ordine non abbiano un codice identificativo.
La triste realtà è che stiamo assistendo in questi anni a una progressiva restrizione degli spazi di lotta, di espressione, di dissenso, di immaginazione, in barba agli articoli 17 e 21 della Costituzione. L’impressione sempre più netta di incamminarci verso uno Stato orwelliano, in cui non si curano i mali ma si reprime chi li contesta e si emargina chi li subisce, non è poi così campata per aria.
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