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Prassi e arbìtri della Questura di Roma

Il corto circuito dell’accoglienza a Roma ha il suo triste luogo simbolo: la questura

di Chiara Chertrens da A buon Diritto

“Accogliere”, dal latino accolligere: composto dal prefisso ad e da colligere che, a propria volta, è prodotto dall’unione di co– (insieme) e lègere (raccogliere). Raccogliere insieme, dunque. Non nel senso di circoscrivere e radunare rispetto a un altro insieme, però; piuttosto, come creazione di un legame tra chi viene raccolto e chi, invece, lo riceve. Il presupposto è, allora, un’apertura che non può essere intesa come un macchinoso “fare posto” ma, invece, come braccia pronte a tenere insieme: braccia che confortano, braccia che proteggono, braccia che sostengono.

Sennonché, quelle che Roma offre a chi è stato raccolto sono braccia avvizzite, mangiate dalla fatica e dalle complessità di un sistema che annienta sia chi accoglie che chi vorrebbe essere accolto. Basti pensare già solo all’ubicazione di uno dei primi e principali poli per l’accoglienza, l’Ufficio Immigrazione della Questura: Via Teofilo Patini, incastonata nella zona industriale della periferia est, lontano dagli sfarzi del centro e dagli occhi dei turisti e raggiungibile soltanto con mezzo privato o arrendendosi a una traversata transoceanica a bordo di autobus e treno.

Un locus horridus per la strategica invisibilizzazione di arbìtri e fallacie, sì da lasciare campo libero alla narrazione mediatica per cui problematico è il numero di coloro che chiedono di essere accolti e non l’inadeguatezza su più livelli del sistema di accoglienza attualmente in vigore. “Siete troppi, non lo vedete?

Tutto il mondo sta venendo in Italia”, ribadiscono, infatti, i poliziotti all’ingresso dell’Ufficio, rovesciando il loro avvilimento sulla parte sbagliata della barricata – e, cioè, su coloro che subiscono anch’essi l’inefficienza degli strumenti messi a disposizione delle amministrazioni. E proprio qui si rivela il paradosso: si sperperano parole come ‘clandestino’ e ‘clandestinità’, ormai pressoché sinonimi di straniero, ma al contempo si nasconde quell’umanità stremata che viene costretta a combattere, letteralmente, per regolarizzare la propria posizione sul territorio; anzi, la si rimprovera per questo, perché faccia sua la responsabilità del collasso del sistema.

Combattere, si diceva. Un termine al quale in questa sede si ricorre non per fare esagerazioni, bensì perché, approdando in Via Teofilo Patini intorno alle sette del mattino, ci si ritrova dinanzi a una vera e propria guerra di logoramento in cui è difficile distinguere chi vincerà. Il marciapiede è un cimitero di cartoni e coperte abbandonati da chi ha trascorso lì la nottata e poi, poco più avanti, si dipana una fiumana di persone stipate in una fila che occupa l’intera lunghezza della strada, tutte in piedi, tutte con i loro documenti già tra le mani, tutte col capo sporto in avanti per non perdere il momento in cui verranno aperti i cancelli. Non ci sono tettoie per ripararsi dalla pioggia o dal sole a picco né una panchina affinché un anziano o una donna incinta possano riposare; c’è solo una coda di transenne metalliche che, invano, vorrebbe contenere quella marea inquieta.

Quando, finalmente, i poliziotti all’ingresso sfilano i catenacci, la frotta si stringe come una fisarmonica: i più forti scavalcano i meno forti, alcuni sgattaiolano oltre gli sbarramenti, mentre altri strepitano insulti nella propria lingua. È una scena che si consuma in una manciata di minuti, giusto il tempo di far oltrepassare la cancellata a un manipolo di persone che si affretta all’interno. “Per oggi abbiamo finito, potete andare”.

La testimonianza dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma è di Chiara Chertrens, in un contributo per il progetto LOOK UP, svolto in collaborazione con Arcs Culture Solidali.

Qui per leggere tutto l’approfondimento.

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