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Prigionieri politici e violazioni dei diritti umani in Cile

Centinaia di giovani arrestati durante le proteste della rivolta cilena dello scorso anno sono ancora in detenzione preventiva in attesa di un processo che ancora non arriva. A volte, quando finalmente il processo avviene, il sistema giudiziario li rilascia per mancanza di prove o per la sua illegittimità.

E’ quello che è successo a Daniel Morales, accusato di aver dato fuoco a una stazione della metropolitana il 18 ottobre e che ha passato 11 mesi nel carcere di Santiago prima di essere assolto, poiché l’unica prova contro di lui era un video manipolato dalla stessa PDI (Polizia Investigativa).

Il principale querelante nei casi legati allo rivolte sociali è lo Stato stesso, e i testimoni, agenti dei Carabineros, un’istituzione continuamente sotto accusa per casi di violenza e tortura che ha causato quasi 40 morti e più di 400 feriti, prevalentemente per lesioni oculari, nell’ultimo anno.

Secondo l’ultimo rapporto della Procura della Repubblica, sono stati accusati solo 63 funzionari statali, rispetto alle 5084 persone accusate di reati connessi alle proteste, di cui 648 di questi sono rimasti a tutt’oggi in carcere. In alcuni casi, la Procura ha richiesto condanne a 15, 20 o 30 anni di carcere.

I parenti dei detenuti hanno denunciato manipolazioni delle prove da parte della polizia, ritardi forzati nei procedimenti e la volontà manifesta da parte dello Stato di criminalizzare gli imputati e le loro famiglie.

Poco più di un anno fa, nell’ottobre del 2019, l’intero Paese era in fiamme. La società era scesa in piazza, prima contro l’aumento del prezzo della metropolitana e poi contro disuguaglianze del modello neoliberale prodotte da 30 anni di riforme.

L’esecutivo di Sebastián Piñera aveva inviato le forze armate per controllare le manifestazioni, uccidendo 20 persone nella prima settimana, per azione o omissione di agenti dello Stato. Il livello di mobilitazione e di risposta è stato totale e il Cile è rimasto paralizzato.

Solo dopo quasi un mese di manifestazioni, saccheggi e scontri quotidiani con la polizia e i militari, Piñera ha finalmente accettato, il 15 novembre, di proporre una soluzione politica al conflitto. Ha presentato un “Accordo per la pace sociale e la nuova Costituzione” al quale diversi partiti dell’opposizione hanno aggiunto le loro firme, riconoscendo così che l’esplosione sociale non era una questione di ordine pubblico, come il Governo aveva sostenuto fino ad allora, ma l’espressione di un profondo malessere sociale e politico.

Ciò ha portato alla vittoria del “Sì” al recente plebiscito costituzionale, a dimostrazione del fatto che il sostegno a questo ciclo di mobilitazioni per un nuovo patto sociale è stato ancora più ampio del previsto.

Da allora il movimento sociale ha ri-orientato il baricentro della sua lotta e ora preme per il rilascio di tutti i detenuti (compresi molti minori) lasciati alla repressione della polizia. I graffiti sui muri o le marce verso il Palazzo Presidenziale La Moneda che si ripetono ogni venerdì richiedono un’amnistia incondizionata per i prigionieri.

È stato persino costituito un Collettivo internazionale per la sponsorizzazione dei prigionieri politici, tra cui ex prigionieri politici della dittatura, che ha inviato una lettera all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e all’ex presidente cileno Michelle Bachelet, chiedendo il rilascio di tutti.

Tuttavia, la risposta del governo non consente alcun dialogo: “In Cile non ci sono prigionieri politici, abbiamo delle persone in prigione perché i tribunali e le procure hanno fatto il loro lavoro“, ha dichiarato il portavoce del governo Jaime Bellolio all’inizio di dicembre.

Il governo invoca la legge sulla sicurezza dello stato per rinchiudere i manifestanti

La legge sulla sicurezza interna dello Stato, già denunciata in passato per il suo utilizzo come forma di persecuzione politica dei movimenti contrari al governo, è proprio quella di cui l’esecutivo di Piñera ha approfittato per denunciare i manifestanti.

Questa legge, che viene applicata anche contro le comunità dei popoli mapuche, stabilisce come reati, tra gli altri, atti di sovversione o rivolta, o incontri con lo scopo di “rovesciare il governo costituito o di turbare l’ordine costituzionale“. Invocarla è una prerogativa che appartiene solo al Governo.

Come ci dice Pedro Mauricio Delgado, avvocato della Commissione cilena per i diritti umani a Valparaiso: “la stragrande maggioranza di queste persone, anche se condannate in un processo, non avranno una sentenza effettiva. Non avranno una perdita di libertà. Il governo cileno, attraverso la Legge di sicurezza interna dello Stato, punisce a priori durante la procedura, finché dura l’inchiesta“.

Inoltre, l’avvocato osserva che “il codice di procedura penale stabilisce una serie di misure alternative al procedimento quando le pene sono inferiori e la persona non ha precedenti o condanne“. Ma quasi il 40% delle persone che sono state arrestate e accusate in base a questa legge sono finite in custodia cautelare, il che è chiaramente un’assurdità rispetto al resto delle persone accusate nel paese. Il paradosso è che ci sono persone che sono state trattenute più a lungo della loro attuale condanna.

Lo scorso aprile, i ministri della Corte d’Appello di Santiago hanno sospeso dal servizio il giudice Daniel Urrutia, dopo che aveva ordinato gli arresti domiciliari per 13 membri della “prima linea” dei manifestanti per motivi umanitari nel contesto della pandemia. I

l Governo ha poi invocato la legge sulla sicurezza interna dello Stato per riportare immediatamente gli imputati in carcere e annullare la decisione giudiziaria. Allo stesso tempo, in casi come quello delle minacce subite dal procuratore Ximena Chong – dopo l’arresto di un poliziotto per aver gettato un ragazzo di 16 anni nel fiume Mapocho, anche se era stata trovata una mitragliatrice Uzi nella residenza di uno dei coimputati – lo Stato non ha ritenuto opportuno applicare lo stesso provvedimento.

Detenzione preventiva: una punizione per i manifestanti e le loro famiglie

I membri dell’Organizzazione delle famiglie e degli amici dei prigionieri politici (OFAPP), insieme alle organizzazioni studentesche, hanno protestato incatenandosi alle sbarre dell’ex Congresso nazionale di Santiago dello scorso novembre. E tra il 27 novembre e il 18 dicembre, in collaborazione con altri gruppi di familiari di prigionieri politici, hanno effettuato un digiuno a rotazione a Casa Arrau, sede dell’Accademia Universitaria dell’Umanesimo Cristiano a Santiago del Cile, come forma di pressione per ottenere la libertà delle loro famiglie.

Lì hanno ricevuto il sostegno dei ciclisti che manifestano regolarmente davanti a La Moneda, di personaggi culturali come Roberto Marquez, leader del gruppo Illapu, o anche di figure iconiche della protesta sociale, come Gustavo Gatica, il giovane che è diventato cieco nelle proteste a causa dei proiettili di gomma sparati da Carabineros.

Lily, madre di uno dei primi detenuti delle proteste, sottolinea che la detenzione politica non è solo un problema per i detenuti, ma qualcosa che trascende tutte le famiglie: “Una collega ha una bambina che non vede suo padre da mesi. Si tratta di una generazione danneggiata, danneggiata da uno stato fascista, che è la stessa cosa che si viveva ai tempi della dittatura con Pinochet. L’approccio è lo stesso: repressione, stupro, violazione dei diritti umani. Quando ci troviamo di fronte a tutto questo, chi si occuperà della riparazione e della giustizia? Non vogliono riconoscere che qui c’è stata una violazione sistematica dei diritti umani. E giustificano la repressione, facendo rinchiudere i nostri parenti, criminalizzando la protesta. (…) Qui non è stato riconosciuto il diritto alla presunzione di innocenza. Finché non ci sono prove, non possono tenere i giovani prigionieri, senza qualcosa che mostri veramente la colpevolezza delle accuse“.

La misura della detenzione preventiva non viene applicata nel paese per altri tipi di reati, come quelli accusati di stupro o tentato omicidio di donne, che ottengono gli arresti domiciliari, il che si traduce in un pregiudizio politico agli occhi delle famiglie.

Muriel, che appartiene alla stessa organizzazione familiare, sostiene che il governo ha abusato della detenzione preventiva. “Ora i ragazzi hanno paura di uscire a manifestare, perché sanno che ci sarà l’arresto per chi scende in piazza, il che rende questa una lotta politica. Il governo li sta criminalizzando per aver manifestato“.

Molti dei giovani della rivolta, che non avevano precedenti esperienze con il sistema giudiziario, sono ora intrappolati nel sovraffollato sistema carcerario. Oltre all’effetto psicologico del confinamento, dall’inizio della pandemia le visite sono state sospese. “Si è scoperto che hanno aperto i negozi, e non hanno mai aperto le prigioni, non hanno mai avviato un protocollo affinché le famiglie potessero entrare“, spiega Lily, insistendo su “il danno psicologico che tutti i detenuti possono avere nelle condizioni in cui si trovano“.

Appena un mese fa, un detenuto di 20 anni ha tentato il suicidio in una struttura carceraria dell’Alto Hospicio. Muriel aggiunge che “ci sono ragazzi a cui vengono chiesti più anni di quanti ne abbiano vissuti. Un esempio è Benjamin Espinoza Gatica, che ha 19 anni, a cui sono stati richiesti dall’accusa 29 anni di carcere“.

I testimoni del caso di incendio cui fa riferimento sono 35 Carabineros, il cui principale esponente è un ex membro dell’Operazione Hurricane, un famoso caso di azione della polizia contro le organizzazioni Mapuche e ora presente nelle squadre “intra-marchiche”, che si infiltrano nelle proteste.

Le organizzazioni familiari denunciano anche i ritardi forzati nelle fasi procedurali dei casi legati alle proteste. I fascicoli investigativi con le prove dell’accusa non arrivano in tempo agli avvocati, il che ostacola la loro difesa. A volte la gendarmeria non porta gli imputati in tribunale nelle date appropriate.

Il governo è quello che si lamenta dei nostri giovani“, dice Lily. “Se dicono che non ci sono prigionieri politici, allora lasciate libera la magistratura, perché i politici fanno pressione sui procuratori e sui giudici. Chi sono i testimoni giurati? La polizia. Gli stessi che reprimono la gente. Se sotto la dittatura erano i militari a reprimere il popolo, ora sono i pacos1. Siamo in uno stato di diritto che non esiste”.

Le ultime mosse del governo lanciano un chiaro messaggio: in questi giorni sono state approvate sanzioni più severe nei confronti di chi protesta contro la polizia. È stato presentato un disegno di legge che protegge ulteriormente i Carabineros dalla giustizia, e uno dei partiti della coalizione di governo ha persino proposto di armare la polizia con le mitragliatrici.

È un’aberrazione a tutti i livelli“, dice Lily. “Non c’è niente da salvare qui. Non c’è niente che possiamo dire: ‘questo è giusto’, no, qui è tutto sbagliato. Tutto. Come possiamo essere nelle mani di persone che stanno uccidendo la nostra gente, che puntano il dito contro i nostri figli, le nostre famiglie, i nostri giovani?”.

Un progetto di indulto bloccato fin dall’inizio

Questo ciclo di pressioni da parte di varie sfere della società civile ha portato alla recente presentazione di un disegno di legge per l’indulto generalizzato da parte dei senatori dei partiti dell’opposizione, tra cui il PPD, il Partito socialista, la coalizione del Frente Amplio e persino la Democrazia cristiana. Praticamente tutta l’opposizione è disposta, come minimo, ad aprire un dialogo su questo tema.

Il senatore Juan Ignacio Latorre, del Partito della Rivoluzione Democratica, ha commentato durante la presentazione del progetto che “(i detenuti della rivolta sociale) sono prigionieri politici perché sono stati politicamente puniti, con l’abuso della misura precauzionale della detenzione preventiva, non con il giusto processo (…). Sono stati detenuti in un contesto di mobilitazioni sociali e di gravi violazioni dei diritti umani, e ora invece ci troviamo in un momento di un processo costituente, di ricostruzione dei legami sociali. Questi giovani non possono rimanere nell’esclusione sociale e nella criminalizzazione, dobbiamo fare uno sforzo per includerli“.

Ma prima ancora che iniziasse il dibattito sul progetto, i membri dell’Esecutivo si sono espressi inequivocabilmente nel rifiuto in tutti i sensi, definendo il progetto “incostituzionale”.

La mattina di lunedì 14, il presidente Sebastián Piñera si è spinto oltre, avvertendo che, anche se il progetto di legge dovesse avere successo nella Camera legislativa, avrebbe usato il veto presidenziale concessogli dalla costituzione del 1980 per impedirne l’approvazione.

La presidente del Senato, Adriana Muñoz, membro del Partito Socialista e una degli architetti del progetto, ha condannato questa reazione e ha accusato il governo di “soffocare il dibattito parlamentare“.

Paradossalmente, ciò avviene appena cinque mesi dopo che il governo ha graziato due prigionieri del carcere di Punta Peuco condannati per crimini contro l’umanità e, a fine novembre, 60 ex agenti del DINA (la polizia segreta della dittatura di Pinochet) legati all’Operazione Colombo, un caso di manipolazione comunicativa che ha riguardato 119 casi di prigionieri giustiziati e scomparsi.

Il Paese è proprio giunto alla vigilia di una assemblea per la stesura di una nuova Costituzione, i cui delegati saranno votati in aprile, con una valutazione del presidente, da parte dei cittadini, al minimo storico del 7%, e mentre continuano le violazioni dei diritti umani nelle strade (l’uso di sostanze chimiche cancerogene e combustibili nell’acqua delle squadre antisommossa è già una costante).

Di fronte a questa situazione, i membri dell’OFAPP sostengono che “il processo costituente non dovrebbe avere luogo, poiché non può esserci un processo costituente con i prigionieri politici, (…) ci sono ancora violazioni dei diritti umani“.

Per questo motivo, l’intenzione dei parenti è quella di mantenere la pressione in tutte le sue forme fino al rilascio effettivo di tutti i giovani cileni che sono scesi in strada dall’ottobre 2019 per produrre un cambiamento sociale nel Paese.

Finché non avremo raggiunto la libertà dei nostri prigionieri, tutti noi, senza condizioni, non ci fermeremo“.

Scrittore, traduttore e giornalista indipendente argentino

da Contropiano

1 Forma dispregiativa per indicare i poliziotti