La requisitoria del Pm al processo per la morte del giovane geometra. Stefano Cucchi fu vittima «di un pestaggio violento e repentino, roba da teppisti da stadio. I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, autori di un’aggressione così vile, non è che sono stati sfortunati in quella circostanza. Se la sono presa con una persona che sotto peso, di appena 40 kg, che consideravano un drogato». Lo ha detto, durante la requisitoria in corte d’assise, il pm Giovanni Musarò.
Sulla morte di Stefano Cucchi è stato messo in atto «uno scientifico depistaggio cominciato la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 alla stazione Appia dei carabinieri, quando il ragazzo venne arrestato». È iniziata così la requisitoria del pm Giovanni Musarò nel corso del processo bis in Corte d’Assise contro cinque militari dell’Arma, accusati del pestaggio del geometra romano, morto a 31 anni il 22 ottobre del 2009 all’ospedale Pertini, sei giorni dopo essere stato arrestato.
Un processo «delicato», ha spiegato, nato dopo un primo processo che il magistrato ha definito «kafkiano» e che vedeva gli attuali imputati sul banco dei testimoni. Un processo in cui si è parlato di «cateteri applicati per comodità» e fratture lombari «non viste apposta da famosi “professoroni”» . Per la morte di Cucchi sono a processo i carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro, Francesco Tedesco, Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti a capo della stazione Appia, e Vincenzo Nicolardi.
Quello su Cucchi fu un «pestaggio violento e repentino», cominciato con uno schiaffo in pieno viso, seguito da un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano e poi una spinta che provocò una rovinosa caduta a terra, determinante per la morte, perché causò la frattura delle vertebre L3 e S4, alla quale seguì un calcio in faccia. Un pestaggio «degno di teppisti da stadio contro una persona fragile e sottopeso» ha sottolineato Musarò. Dopo la caduta, «Tedesco interviene, blocca i colleghi, evita che a Cucchi arrivi un altro calcio, aiuta il ragazzo a tirarsi su e avverte subito il maresciallo Roberto Mandolini per raccontargli quello che era successo».
Il depistaggio trova il suo punto di inizio già nel verbale d’arresto, nel quale Mandolini inserì per Cucchi la dicitura – falsa – “senza fissa dimora”, nonostante le perquisizioni domiciliari nella casa in cui il giovane viveva con la madre. «Per questo il giudice applica la misura in carcere – ha sottolineato il pm – E se a Cucchi fossero stati dati i domiciliari, questo processo non lo avremmo mai fatto. Questo giochetto del “senza fissa dimora” è costato la vita a Cucchi». Fu quel verbale d’arresto «il primo atto scientifico di depistaggio». Cucchi perse sei chili in sei giorni, un calo repentino di peso «riconducibile al trauma dovuto al violento pestaggio, non certo a una caduta come si disse all’epoca. Non mangiava perché aveva dolore, stava male».
Una sofferenza testimoniata da Luigi Lainà, il detenuto che incontrò Cucchi il giorno dopo il suo arresto e diventato teste chiave per la riapertura del processo. «Era gonfio come una zampogna. Pure a me hanno massacrato ma mai a quei livelli ha raccontato – A quei livelli o lo fa un folle, o più folli o una persona senza scrupoli, si erano divertiti a picchiarlo». Ed era stato proprio Cucchi a dirgli che a picchiarlo brutalmente erano stati gli stessi due carabinieri in borghese che lo avevano arrestato, una sorta di «testamento» lasciato dal giovane a Lainà.
Simona Musco
da il dubbio