Processo Cucchi: Stefano voleva denunciare le botte subite
- febbraio 29, 2012
- in carcere, violenze e soprusi, vittime della fini-giovanardi
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Prosegue il processo sulla morte in carcere del giovane romano: dall’ospedale Stefano voleva scrivere un telegramma al suo avvocato
Non voleva morire, voleva parlare. Voleva denunciare. L’ennesima seduta del processo Cucchi, che ha visto nell’aula bunker di Rebibbia alcuni dei medici imputati, restituisce i segnali che Stefano Cucchi provava a lanciare dal reparto penitenziario dell’ospedale Pertini di Roma.
Sebbene la linea dei sanitari, accusati di abbandono di paziente, sia quella di non enfatizzare le condizioni cliniche del ragazzo, l’udienza ha confermato che il 31enne geometra romano – finito dietro le sbarre per il possesso di pochi grammi di hashish – era giunto «fratturato» al Pertini, proveniente dal pronto soccorso del Fatebenefratelli. Aveva il viso gonfio e si stava disidratando. E rifiutava le terapie, anche quelle meno invasive perché voleva parlare col suo legale o con l’operatore del Ceis, la comunità con cui aveva già avuto a che fare. Una dei medici interrogati ha ricordato di aver chiesto ad un agente di consentire a Stefano di scrivere un telegramma al suo avvocato. Poi lo vide scrivere ma quei moduli non sarebbero mai partiti. Nessuno di quelli che hanno accettato di rispondere ne sa qualcosa.
Gli agenti penitenziari imputati non si sono sottoposti all’interrogatorio. Ma Stefano, ed è un segnale ancora più importante, chiese il 21 ottobre alla dottoressa di annotare «per piacere» nella cartella clinica le ragioni del suo rifiuto delle terapie. E il 19 ottobre del 2010 disse ad un altro medico che «solo col suo avvocato» avrebbe parlato di quanto davvero accaduto. La sera prima di morire scrive lui stesso una lettera al Ceis che però partirà alcuni giorni dopo la sua morte. E, ancora più strano, sarà resa nota dalla struttura solo tre mesi dopo. Chi la spedì?
L’ultima sera la dottoressa parlerà di tutto ciò col suo primario e insieme avrebbero deciso di far presente le richieste del ragazzo all’autorità giudiziaria. L’indomani lo stesso primario avrebbe controfirmato la missiva per rinforzare la richiesta. Ma all’alba Stefano Cucchi era già morto dopo sei giorni nelle mani dello Stato: prima in una guardina dei carabinieri, poi nel sottosuolo del tribunale di Roma prima e dopo l’udienza di convalida, poi a Regina Coeli dove, a differenza della giudice che non s’accorse eppure che dalle carte Cucchi risultava più vecchio di sette anni, rumeno e senza fissa dimora, il medico di guardia non volle neppure accettare un detenuto col viso gonfio e visibilmente sofferente. Così apparve anche a suo padre, nell’aula della convalida. Ma il legale d’ufficio (sebbene Stefano ne avesse indicato uno di fiducia) e nessun altro ricorda segni particolari. Salvo uno dei carabinieri che lo vide zoppicare in fondo alla misteriosa notte in camera di sicurezza in cui fu chiamato il 118.
Da Regina Coeli fu dirottato al pronto soccorso ma lì avrebbe firmato per andare in prigione dove trascorse una notte infernale che lo riportò nello stesso ospedale da cui, con procedura quantomeno anomala, Cucchi fu spedito al Pertini. Lontano dagli occhi della società civile. I medici ripetono che «non c’erano criticità», che le sue condizioni non erano così gravi da imporre un trasferimento, insistono col dire che era troppo magro e debole salvo ammettere che Stefano aveva i muscoli superiori sviluppati per via della palestra dove riuscì ad allenarsi fino a pochissime ore prima di essere arrestato. Ma tutti non possono non ricordare che Stefano era fratturato.
Tornano alla mente le conclusioni dei periti di parte civile, un mese prima, nella stessa aula: Cucchi fu picchiato. Quella frattura alla terza vertebra lombare sarebbe stata all’origine di un susseguirsi di eventi che, il 22 ottobre 2009, lo avrebbero ucciso. Il decesso sarebbe poi avvenuto per un edema polmonare che non ci sarebbe stato se fosse stato adeguatamente curato. Per sei ore i medici dei Cucchi hanno tentato di dimostrare alla Corte che se Stefano non fosse stato percosso, non sarebbe morto. «C’è una correlazione tra le ossa rotte, le fratture plurime e le emorragie interne, i versamenti riscontrati (segno che le fratture erano recenti) provocarono una la stimolazione del nervo vago che ha rallentato il battito. E se il cuore pompa lento e poco…», sintetizza Alessandra Pisa che, con Fabio Anselmo è tra gli avvocati di parte civile. Tuttavia, secondo i periti del pm quella frattura sarebbe antecedente all’arresto di Cucchi che però, non solo era appena uscito dalla palestra ma il suo corpo presentava escoriazioni agli arti superiori – segno di colluttazione e ripetitività traumatica – e sulle mani, indice di difesa. Nulla di compatibile con una caduta, a sentire i periti dei Cucchi, tanto che Fabio Anselmo vorrebbe che il capo di imputazione degli agenti penitenziari sia omicidio preterintenzionale e non lesioni dolose lievi.
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