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Proteste climatiche e repressione: le condanne a Just Stop Oil e il futuro dell’attivismo

Proteste climatiche e repressione: le condanne a Just Stop Oil e il futuro dell’attivismo

di Angelo Romano da Valigia Blu

Associazione a delinquere finalizzata al disturbo della quiete pubblica. Cinque attivisti di Just Stop Oil, tra cui uno dei suoi co-fondatori, il 58enne Roger Hallam, il 18 luglio sono stati condannati a pene detentive senza precedenti per aver pianificato il blocco dell’autostrada M25 nel novembre 2022: per la condanna è stata sufficiente una call su Zoom che, secondo la sentenza, ha dimostrato “l’intricata pianificazione e la sofisticatezza dell’azione di disturbo” e ha costituito una “prova inconfutabile” dell’esistenza di un’associazione a delinquere.

Hallam ha ricevuto una condanna a cinque anni, mentre gli altri quattro – Daniel Shaw, Louise Lancaster, Lucia Whittaker De Abreu e Cressida Gethin  – sono stati condannati a quattro anni a testa. Le condanne sono le più lunghe mai assegnate nel Regno Unito per proteste non violente, superando quelle inflitte ad altri attivisti di Just Stop Oil, Morgan Trowland (tre anni) e Marcus Decker (due anni e sette mesi), per aver scalato il Dartford Crossing.

Per quattro giorni consecutivi, dal 7 all’11 novembre, gli attivisti di Just Stop Oil avevano bloccato il traffico lungo la M25, un’autostrada molto trafficata che circonda la maggior parte dell’area di Londra. Secondo gli avvocati dell’accusa, queste proteste hanno causato oltre 50mila ore di ritardo, con ripercussioni su più di 7mila veicoli, e hanno provocato danni e disagi a chi è rimasto fermo sull’autostrada: c’è stato chi ha perso voli, chi appuntamenti medici, chi non ha potuto sostenere esami o rispettare ogni altro tipo di impegno importante. C’è stato anche un piccolo incidente che ha coinvolto un camion e un agente di polizia che, sbalzato dalla sua moto, ha riportato una commozione cerebrale e alcune contusioni. L’accusa ha stimato il costo economico complessivo del blocco in “almeno 750mila sterline [quasi 900mila euro], con la Polizia Metropolitana che ha sostenuto un costo di oltre 1,1 milioni di sterline [1,3 milioni di euro circa]”.

Tuttavia, i cinque attivisti non sono stati condannati per aver preso parte alla protesta ma per la sua pianificazione. Il 2 novembre 2022, cinque giorni prima dell’inizio del blocco autostradale, tutti e cinque i membri di Just Stop Oil hanno partecipato a una chiamata su Zoom in cui hanno discusso di come si sarebbero svolte le proteste e di cosa si sarebbe fatto. I contenuti di questa riunione sono stati divulgati da un giornalista del Sun che era riuscito a partecipare alla chiamata fingendosi interessato alle proteste. Subito dopo aver partecipato alla riunione online, il giornalista del Sun aveva avvisato la polizia del piano girando loro tutto il materiale raccolto, come spiega lo stesso giornalista in un articolo pubblicato sul tabloid britannico lo scorso 19 luglio, all’indomani della sentenza:

“Non appena mi sono scollegato dopo l’incontro, è stato chiaro che le prove che avevo ottenuto erano schiaccianti. La mattina dopo ho inviato le mie registrazioni alla Polizia Metropolitana e alla National Highways, poiché la protesta sarebbe iniziata il lunedì successivo. La polizia arrestò la maggior parte dei leader all’alba”.

Durante il processo il giornalista ha poi precisato che pur essendo un giornalista, aveva preferito sacrificare la notizia alla sicurezza pubblica: “Sono un giornalista, quindi ovviamente mi interessano le storie, ma tengo immensamente alla sicurezza pubblica e ho consegnato i video [nda, alla polizia] il prima possibile”.

L’accusa ha usato queste evidenze contro gli attivisti come prova che ci si trovava di fronte a una cospirazione. C’è stata una “vasta organizzazione e pianificazione” delle proteste e ogni imputato ha avuto un “ruolo significativo” nella cospirazione, ha detto l’avvocata dell’accusa, Jocelyn Ledward in tribunale. Durante la riunione, Hallam aveva dichiarato che intendevano provocare “la più grande azione di disturbo nella storia moderna del Regno Unito”, nel tentativo di costringere il governo ad accogliere la richiesta principale di Just Stop Oil, ovvero la fine delle nuove esplorazioni di petrolio e gas nel Mare del Nord.

Gli attivisti sono stati condannati per aver cospirato di voler causare intenzionalmente disordini pubblici. Pur riconoscendo che esiste un consenso scientifico e sociale sul fatto che la crisi climatica causata dall’uomo sia in atto e che si debba agire per evitarlo e che “almeno alcune delle preoccupazioni che vi motivano sono, almeno in parte, condivise da molti”, nel pronunciare la sentenza, il giudice Christopher Hehir ha dichiarato che tutte le persone condannate hanno “da tempo oltrepassato la linea che separa la campagna di sensibilizzazione dal fanatismo”.

“Il vostro fanatismo vi rende del tutto incuranti dei diritti dei vostri concittadini. Vi siete assunti la responsabilità di decidere che i vostri concittadini debbano subire disagi e danni, e di quanti disagi e danni debbano subire, semplicemente per poter esibire le vostre opinioni”, ha affermato il giudice.

“Voglio ricordare ancora una volta alla Corte che le ragioni che mi hanno spinto ad agire non erano convinzioni o opinioni. I sistemi di supporto alla vita della Terra si stanno distruggendo a causa delle attività umane, che ci si creda o meno. Non si tratta di convinzioni od opinioni. Mi rammarico profondamente che questa azione sia stata necessaria… Sostengo che sia stata necessaria e che le mie azioni siano l’opzione più efficace a mia disposizione”, ha dichiarato durante l’udienza Cressida Gethin.

Ma il giudice ha stabilito che la giuria non avrebbe dovuto prendere in considerazione le prove sulla crisi climatica, che gli imputati volevano indicare come motivazione principale delle loro azioni e che, secondo loro, costituivano una attenuante ragionevole.

La sentenza ha riproposto la questione dell’efficacia e dell’utilità alla causa climatica di queste azioni di protesta e ha fatto riflettere una volta di più sulla criminalizzazione del dissenso, quando si tratta di attivismo climatico.

“È un giorno buio per le proteste ambientali pacifiche” nel Regno Unito, ha dichiarato il relatore speciale delle Nazioni Unite per i difensori dell’ambiente, Michel Forst. “Sentenze come questa costituiscono un precedente molto pericoloso, non solo per le proteste ambientaliste, ma per qualsiasi forma di protesta pacifica che possa, in un momento o nell’altro, non allinearsi con gli interessi del governo del momento”.

Il consigliere per i diritti umani di Amnesty International UK, Tom Southerden, ha definito la sentenza “draconiana”: “Pene detentive così lunghe e di questo tipo per persone che cercano di ottenere giustizia climatica dovrebbero far aumentare l’allerta sulla repressione in corso contro le proteste pacifiche in questo paese, che viola tutti i nostri diritti umani”.

D’altronde, spiegano Graeme Hayes (lettore di Sociologia Politica alla Aston University) e Steven Cammiss (professore associato alla scuola di legge dell’Università di Birmingham) su The Conversation, non c’è molto da stupirsi: queste sentenze sono il risultato logico della svolta autoritaria della Gran Bretagna nei confronti delle proteste negli ultimi cinque anni.

In passato, le proteste in Inghilterra e Galles venivano trattate dai tribunali secondo il cosiddetto “patto di Hoffmann”, in base al quale i manifestanti ammettevano le loro responsabilità in tribunale, ma il loro senso civico – insieme alla causa democratica per la quale protestavano – era ricompensato con sentenze clementi.

Il “patto di Hoffmann” è stato di fatto superato con il processo ai 15 di Stansted, accusati e riconosciuti colpevoli di reati legati al terrorismo per aver fermato un volo che avrebbe rimpatriato un gruppo di migranti nel 2017. I quindici sono stati condannati a lavori socialmente utili, multe e, in alcuni casi, a brevi pene detentive. Nel 2021, la Corte d’Appello ha respinto le accuse ma, allo stesso tempo, ha irrigidito l’approccio generale dei tribunali nei confronti delle proteste, limitando il ricorso alle attenuanti legittime (ovvero le motivazioni della protesta).

Nel frattempo, l’ultimo governo ha introdotto nuove leggi più restrittive, in particolare il Police, Crime, Sentencing and Courts Act (2022) e il Public Order Act (2023), mentre i giudici hanno ridotto il tempo a disposizione degli imputati in tribunale per spiegare le loro ragioni e i termini su cui le giurie possono valutare. Infatti, sebbene le giurie abbiano ancora il potere di dichiarare gli imputati non colpevoli, prendendo una decisione morale piuttosto che legale, questo è molto più difficile e raro.

Nel processo contro gli attivisti di Just Stop Oil abbiamo visto applicarsi gli effetti di tutti questi cambiamenti. “Non consentendo agli imputati di rendere conto delle loro azioni in modo adeguato, i tribunali creano una separazione artificiale tra legge e politica e sminuiscono il potere democratico delle giurie”, osservano Hayes e Cammiss, che aggiungono: “Condannando a pene detentive i manifestanti non violenti, i tribunali impongono risposte autoritarie a problemi sociali urgenti”.

In un articolo sul Guardian, l’ambientalista Chris Packham e l’industriale dell’energia verde Dave Vince (spesso critico dei metodi di Just Stop Oil) hanno scritto: “Questi attivisti possono essere fastidiosi. Potrebbero farvi venire il mal d’orecchi. Potremmo desiderare che abbassino i toni. Ma in una società democratica, il loro posto non è in prigione. Dobbiamo ascoltarli, non rinchiuderli”.

Tuttavia, nonostante le tante pressioni, il primo ministro laburista Keir Starmer si è rifiutato di intervenire, avvalorando di fatto quella separazione tra legge e politica di cui parlano Hayes e Cammiss. “Il primo ministro è molto chiaro sul fatto che quando si tratta di questi casi, le sentenze e le condanne spettano a giudici indipendenti”, ha dichiarato la sua portavoce.

C’è un’immagine di questo processo che fotografa questa scissione tra legge e politica, politica e società, istituzioni e senso del tempo che stiamo vivendo ed è il momento in cui il giudice, durante l’udienza, riconosce il consenso scientifico e sociali sul cambiamento climatico di origine antropica e, contemporaneamente, sottrae la crisi climatica dalle questioni su cui il tribunale avrebbe dovuto sentenziare, derubricando le richieste degli attivisti (su cui il giudice stesso aveva ammesso che c’è un consenso scientifico) a “opinioni”, classificando le azioni di protesta non violenta come “fanatismo” e impedendo alla giuria di potersi esprimere sulle ragioni delle proteste. In sintesi, il cambiamento climatico causato dall’uomo è reale, ma va espunto dal merito del processo per giudicare le proteste non violente di chi manifesta per la causa climatica. Tolte le ragioni per cui gli attivisti protestano, restano solo le questioni di ordine pubblico. Con pene detentive più severe rispetto a reati più gravi e sproporzionate agli atti contestati.

Il caso britannico non è isolato e riguarda tutta Europa, come scrivevamo in questo articolo. “I paesi europei devono porre fine alla repressione e alla criminalizzazione delle proteste pacifiche per il clima”, aveva dichiarato alcuni mesi fa il relatore speciale delle Nazioni Unite per i difensori dell’ambiente, Forst.

La disobbedienza civile – scrive Federico Zuolo, autore del libro “Disobbedire. Se, come, quando” (Laterza, 2024) – è “un’azione comunicativa che cerca di attirare l’attenzione della politica e della maggioranza su un problema altrimenti non visto e sottovalutato” e va intesa “come una forma estrema di comunicazione democratica quando gli altri canali legali si sono dimostrati inutili”.

Lo abbiamo visto con il caso di Ultima Generazione (ne parlava qui Marisandra Lizzi): l’atto di disobbedienza viene agito come ultima risorsa, dopo che strade più tradizionali e legali sono state percorse senza successo. Dopo anni in cui il movimento di protesta contro l’inerzia verso il cambiamento climatico sembrava aver raggiunto milioni di persone, culminando con la partecipazione di massa ai Fridays for Future, il lockdown per la pandemia ha fatto tornare tutto indietro. Eppure la questione climatica è un’urgenza fondamentale. E di fronte all’inerzia della politica e alla cecità verso il futuro – sostengono gli attivisti – l’unico modo rimasto per farsi sentire è stato, nell’ultimo anno e mezzo, la disobbedienza civile con azioni eclatanti e simboliche.

Ed è proprio per questo motivo che la sentenza contro gli attivisti di Just Stop Oil può avere un effetto dirompente sulle proteste non violente degli attivisti climatici: nel momento in cui il giudice ha separato le ragioni per cui gli attivisti manifestano (la causa climatica) dalle azioni di protesta, facendone una questione di ordine pubblico, ha di fatto depotenziato l’atto di disobbedienza civile, svuotato della sua carica comunicativa. In più, la sentenza costituisce un deterrente per chi vorrà manifestare in futuro.

E allora resta da chiedersi, come si può e si devono portare avanti battaglie politiche nelle democrazie contemporanee, in un momento di grande crisi della rappresentanza e in presenza di uno iato sempre più profondo tra politica e società civile, con le istituzioni e i governi che, da un lato, devono rispondere ai toni sempre più perentori e stringenti delle ricerche scientifiche e, dall’altro, mediano con gli interessi corporativi dell’industria oil & gas che – come scrive Ferdinando Cotugno su Domani – “ha deciso di cancellare completamente la responsabilità del futuro dalle sue considerazioni strategiche”? “Che alternative stiamo lasciando a quello che rimane del movimento per il clima che solo cinque anni fa veniva salutato come la più grande novità politica di questo secolo, i ragazzini che venivano a salvarci da noi stessi”?

 

 

Diritto, non crimine

 

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