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Proteste e lotte sociali: alla destra non basta il codice Rocco

C’era una volta il codice Rocco. Anzi, dopo 80 anni dalla liberazione, c’è ancora. E prevede punizioni esemplari per la resistenza e la violenza contro le forze dell’ordine, in particolare nel corso di manifestazioni. Ma alla destra di governo non basta. E così si susseguono progetti di aggravamento delle pene all’insegna dell’emergenza e in chiave di stigmatizzazione sociale, come se la Costituzione non esistesse.

di Claudio Novaro da Volere la Luna

C’era una volta il codice Rocco. Un codice che, pur recuperando alcuni principi della tradizione penalistica liberale, si muoveva (e si muove, visto che continua a essere, con le ovvie variazioni dovute al tempo trascorso, uno dei pilastri del nostro ordinamento giuridico) in una prospettiva marcatamente autoritaria, in cui la potestà punitiva, secondo quanto si legge nei Lavori preparatori al codice, consisteva nel «diritto di conservazione e di difesa proprio dello Stato, nascente con lo Stato medesimo e avente lo scopo di assicurare e garantire le condizioni fondamentali e indispensabili della vita in comune».

In coerenza con la concezione etica dello Stato e con la matrice ideologica del regime in tema di rapporti tra autorità amministrativa e cittadini, il codice prevedeva (e prevede), agli articoli 336 e 337, una protezione rafforzata delle condotte di coloro i quali (come gli operatori delle forze dell’ordine) svolgono, secondo il successivo articolo 357, una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa. La ratio di tale trattamento particolare viene ravvisata nelle esigenze di tutela del funzionamento e del prestigio della pubblica amministrazione, che non deve subire intralci né condizionamenti nel momento di attuazione delle proprie decisioni attraverso l’attività dei pubblici funzionari. Si tratta, come è stato efficacemente segnalato da una parte della dottrina penalistica, di una prospettiva in contrasto con uno dei canoni fondamentali dello Stato di diritto, quello di uguaglianza, secondo cui la condizione personale degli appartenenti alla pubblica amministrazione dovrebbe essere parificata a quella dei normali cittadini, con la conseguenza che le condotte di violenza, minaccia o resistenza commesse nei loro confronti dovrebbero integrare reati quali quelli che riguardano la generalità dei consociati. Vale la pena di ricordare che, invece, proprio a tali norme è da sempre assegnato il compito di sanzionare le lotte sociali, anche quelle a bassa intensità. Ed è proprio con lo sguardo rivolto al conflitto sociale che il codice prevedeva poi, all’art. 339, due specifiche aggravanti: la prima se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte, la seconda – che rimanda al caso tipico degli scontri nelle manifestazioni di piazza e che porta la pena da 3 a 15 anni di reclusione – se la violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di dieci persone, pur senza uso di armi. Ho usato, non a caso, l’imperfetto perché nel corso degli anni, tale impianto normativo è stato più volte ritoccato, con interventi che fanno quasi rimpiangere il testo originario.

In breve, non solo abbiamo un codice che risale al ventennio fascista, ma il legislatore repubblicano è riuscito a peggiorarlo ulteriormente, nonostante uno dei primi interventi riformatori dell’Italia liberata dal nazifascismo (attuato con il decreto legislativo luogotenenziale n. 288/1944), che lambisce le due fattispecie in esame, prevedesse, tra le altre cose, l’introduzione della scriminante della reazione legittima del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale, cioè il diritto del cittadino a contrapporsi a un atto illegittimo del pubblico ufficiale e a non vedersi, così, condannato per il reato di resistenza. Una disciplina negletta, questa, anche se costituisce uno degli snodi normativi fondamentali in tema di rapporti tra istituzioni e società civile, il cui utilizzo è stato, nel corso dei processi degli ultimi 30 anni, molto parco e sporadico.

È soprattutto negli ultimi 20 anni, a fronte di uno scontro sociale sicuramente meno esteso di quello degli anni “caldi” del secolo scorso, che si sono avuti alcuni interventi legislativi che hanno inasprito il quadro normativo, tutti introdotti nell’ordinamento con decreti legge, emanati da Governi (e approvati da maggioranze parlamentari) di diverso orientamento politico. Due distinti riforme hanno interpolato il testo dell’art. 339 codice penale. Con la prima, la seconda delle due aggravanti (che porta la pena sino a 15 anni di reclusione) è stata estesa a tutti quei fatti commessi mediante «il lancio o l’utilizzo di corpi contundenti o altri oggetti atti ad offendere, compresi gli artifici pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone» (DL 8/2007 del Governo Prodi 2); successivamente, con la seconda, la prima aggravante è stata ampliata sino a ricomprendere tutti i fatti commessi «nel corso di manifestazioni in luogo pubblico o aperto al pubblico» (DL 53/2019 emanato dal Governo giallo-verde Conte 1). Con lo stesso DL 53/2019, convertito con modifiche nella legge 77/2019, è stato, poi, previsto il divieto di applicare la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni, previsione poi rimodulata, con il DL 130/2020 (Governo Conte 2), convertito nella legge 173/2020, nel senso di sostituire al pubblico ufficiale gli agenti e gli ufficiali di Polizia. La logica, insomma, è stata quella di appesantire la risposta sanzionatoria, escludendo vie di fuga ispirate a una concezione gradualistica del reato e ai principi di sussidiarietà e di proporzionalità del diritto penale, che utilizzano la pena carceraria come ultima ratio. Si tratta in tutta evidenza di aggiustamenti normativi fortemente segnati dalla doppia tendenza a legiferare, da un lato, sulla base delle esigenze del momento, spesso fortemente amplificate dal circuito dei mass media, dall’altro, a individuare nella protesta sociale non una risorsa ma un pericolo per l’ordine costituito, meritevole di interventi normativi di emergenza. In tale ottica il conflitto collettivo diventa un pericolo per la sicurezza pubblica, un atto di ostilità verso la comunità e i suoi valori che va sanzionato con rigore, sia che si privilegi, con la destra più retriva e gli alfieri del neoliberismo, la necessità di azzerare qualsiasi effervescenza sociale orientata alla giustizia sociale, sia che prevalga una idea assai avvilente di difesa a oltranza della legalità. Del resto, non da oggi, vi è stata in ambito politico quasi unanimità di consensi in ordine agli interventi repressivi nei confronti di chi agisce la protesta, con qualche postumo ripensamento solo di fronte a recenti episodi eclatanti che riguardano giovani studenti picchiati dalla polizia.

2. Sin qui il contesto normativo, che rischia di subire un ulteriore aggravamento con il disegno di legge sulla sicurezza attualmente all’esame della Commissione Affari costituzionali e Giustizia della Camera.

L’art. 14 del testo in discussione prevede, anzitutto, un ulteriore aumento di pena se le condotte previste dagli articoli 336 e 337 codice penale siano state poste in essere nei confronti di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza. Come si scrive nella relazione tecnica che accompagna il disegno di legge, «nell’ottica di attribuire particolare rilievo all’aggravante di nuovo conio, la stessa viene configurata quale aggravante privilegiata, non soggetta al meccanismo di bilanciamento delle circostanze del reato previsto dall’articolo 69 del codice penale». La scelta è quella di irrigidire il meccanismo di irrogazione della pena, ritenendo probabilmente non del tutto affidabili alcune decisioni della magistratura ordinaria, che ha spesso largheggiato, tenuto conto degli spropositati minimi e massimi edittali previsti da una delle aggravanti indicate all’art. 339, nel riconoscimento delle attenuanti generiche, per adeguare la sanzione alla reale entità dei fatti commessi. All’art. 15, poi, viene operata un’equiparazione tra le sanzioni irrogabili in caso lesioni lievi gravi o gravissime ai danni di ufficiali o agenti di polizia nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio a quelle previste per gli esercenti una professione sanitaria, con la conseguenza che le cornici edittali attualmente previste dagli articoli 582, 583 passano da 2 a 5 anni di reclusione in caso di lesioni lievi e da 4 a 10 anni e da 8 a 16 anni, nel caso di lesioni gravi o gravissime. La differenza sostanziale riguarda però proprio la costruzione normativa della fattispecie. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, dalla rubrica della disposizione in tema di lesioni a medici e infermieri (su cui viene modulata l’attuale riforma), dalla sua collocazione sistematica, dall’autonomo disvalore nella qualifica soggettiva della vittima emergerebbe la chiara volontà del legislatore di creare una nuova e autonoma ipotesi di reato. Tradotto in concreto ciò significa che se oggi è possibile essere condannati per le lesioni a un poliziotto, con la concessione delle attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti, a una pena che parte da 4 mesi di reclusione, se dovesse essere approvato il disegno di legge, le pene non potrebbero scendere sotto la soglia rispettivamente di un anno e 4 mesi, 2 anni e 8 mesi e 6 anni e 8 mesi per le lesioni lievi, gravi e gravissime. Chiude il quadro, con un’indubbia coerenza di fondo di matrice securitaria, la norma, prevista all’art. 20 del disegno di legge, che consentirebbe agli agenti di pubblica sicurezza l’impiego di arma diversa da quella d’ordinanza quando operano in borghese o non sono in servizio.

Ancor più eclatanti e preoccupanti sul piano della legalità costituzionale sono quelle proposte di modifica del testo del disegno di legge veicolato con gli emendamenti al testo presentato dal Governo. Si segnalano al riguardo quelli proposti dai deputati della Lega Igor Iezzi e Laura Ravetto. Oltre alla previsione di copertura delle spese per la tutela legale (difesa ed eventuale consulenza tecnica) nei procedimenti a carico di ufficiali o agenti di polizia, per fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio, e alla rimodulazione della fattispecie di cui all’art. 53 del codice penale, in tema di uso legittimo delle armi e dei mezzi di coazione fisica del pubblico ufficiale, con altri emendamenti si affronta la questione della responsabilità penale per «fatti commessi in servizio» da appartenenti alle forze dell’ordine, con l’introduzione di un apposito art. 335 bis nel codice di rito. I punti salienti della proposta sono costituiti dal trasferimento delle indagini per tali reati dalle Procure ordinarie all’Avvocatura dello Stato, che informa poi del loro esito il Procuratore generale presso la Corte d’appello, il quale può provvedere «all’immediata chiusura del procedimento» se ritiene che esista una causa di proscioglimento oppure può esercitare l’azione penale. Non è chiaro se con «immediata chiusura del procedimento» i proponenti intendano la richiesta di archiviazione o, addirittura, come sembrerebbe dal testo, una pietra tombale sul procedimento sottratta a qualsiasi verifica giurisdizionale. In ogni caso saremmo di fronte all’introduzione di un vero e proprio diritto speciale per i poliziotti e gli appartenenti alle forze dell’ordine. Il progetto, per quanto momentaneamente accantonato in attesa di tempi migliori, appare bislacco e stravagante, segnato da un profondo analfabetismo giuridico e istituzionale, a partire dall’evidente contrasto con i principi e gli istituti del codice di procedura, oltre che con svariati articoli della Costituzione. In realtà, sotto traccia si indovina una sua funzione eminentemente simbolica – che riguarda anche altre parti del disegno di legge (come ad esempio quello in tema di spese legali) – marcatrice di valori identitari, che guarda ai sindacati di Polizia (che sui propri siti lo hanno salutato con entusiasmo) e che si propone, anche in chiave di competizione con le altre diverse forze politiche di destra, di ergersi a più significativo rappresentante della loro tutela. Inutile dire che, se ci si confronta con le decisioni giudiziarie degli ultimi 60 anni in tema di conflitto sociale e di responsabilità di appartenenti alle forze dell’ordine per abusi commessi nel corso delle operazioni di ordine pubblico, il quadro appare già ora sconfortante. Dai morti sulle piazze negli anni Settanta del secolo scorso ai pestaggi indiscriminati di ieri e di oggi, quasi nessun operatore delle forze dell’ordine è stato condannato, sulla base di un atteggiamento culturale, prima ancora che giuridico, che ha informato le scelte della magistratura inquirente e giudicante, senza bisogno di utilizzare incostituzionali e folcloristiche scorciatoie come quelle di cui sopra.

Anche sgombrando il campo da tali proposte emendative, il quadro resta preoccupante per la capacità della destra al governo, visti i numeri di cui dispone in Parlamento, di tradurre in legge le proprie proposte politiche. Le caratteristiche populistiche che segnano alla radice il disegno di legge e gli emendamenti richiamati appaiono di tutta evidenza. Prima tra tutte l’idea che si debba legiferare non in chiave generale e astratta, ma sulla base di contingenze attuali, guardando alle necessità di neutralizzazione di specifiche insorgenze sociali. Basta pensare a come, tra le pieghe degli emendamenti, si sia proposto originariamente un aumento della pena da un terzo a due terzi «se la violenza o minaccia è commessa al fine di impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un’infrastruttura strategica», congegnato su misura per colpire quei movimenti radicati nei territori che si battono contro la costruzione delle grandi opere. L’emendamento, ribattezzato dalla stampa No Ponte, proprio per la sua presunta efficacia dissuasiva rispetto ad eventuali proteste contro la costruzione del Ponte Messina-Reggio Calabria, è stato leggermente ridimensionato in sede di approvazione in Commissione, con la previsione di un aumento di un terzo della pena. Sintomatiche però al riguardo sono le dichiarazioni del Governo, per bocca del sottosegretario all’Interno, il leghista Nicola Molteni: «Più che No Ponte è No Tav – ha detto –. Non si sanziona il dissenso ma la violenza o la minaccia: si può dissentire ma nel rispetto delle regole», dimenticando che per sanzionare la violenza bastano e avanzano le norme già in vigore. In secondo luogo, la riforma appare fortemente segnata da uno spirito retributivo/vendicativo, in linea con l’idea dell’utilizzo della pena detentiva quale strumento di rassicurazione collettiva e di stigmatizzazione sociale. E mentre da un lato ci si professa garantisti, guarda caso sul versante dei reati e degli istituti processuali che riguardano i reati dei colletti bianchi, dall’altro si propone la solita regola dell’inasprimento sanzionatorio e dell’intervento penale come congegno principe per la regolazione e la risoluzione dei conflitti sociali.

Se, come è stato detto, le politiche repressive e di contrasto alla criminalità sono un formidabile strumento di autorappresentazione politica e di divulgazione identitaria, il messaggio che si intende veicolare appare semplice e lineare. Si tratta di apprestare una sempre più intensa tutela delle forze dell’ordine, quali custodi della tranquillità e della sicurezza collettiva contro i nemici delle istituzioni. Poco importa se gli stessi siano militanti ambientalisti, appartenenti ai circuiti antagonisti o ai movimenti di difesa del territorio.

Fatta la legge, il compito di applicarla spetterà poi a quella larga parte della magistratura che guarda da sempre con strabismo interpretativo agli episodi di violenza di piazza, a seconda che i suoi autori siano manifestanti o appartenenti alle forze dell’ordine.

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