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Punire i poveri e criminalizzare il dissenso

Non viviamo in uno stato di polizia, ma siamo immersi in uno stato diseguale e repressivo che si dilata a dismisura. Ne sono espressione – in parallelo con la soppressione del reddito di cittadinanza, la stretta sui migranti e la mancata adozione di un salario minimo per legge – due proposte di legge in corso di approvazione sulle occupazioni abusive di alloggi altrui e sull’imbrattamento di beni culturali.

di Livio Pepino

Dice: «Esagerate! Fate come per il caldo. Gridate sempre “al lupo, al lupo!”. Ma l’Italia non è uno Stato di polizia!». Vero. L’Italia non è la Turchia e neppure la Polonia o l’Ungheria. Ma il succedersi di provvedimenti amministrativi e legislativi abnormi da parte di un Governo marcatamente fascista e di un guardasigilli che, con sprezzo della realtà e del buon gusto, continua a definirsi liberale  rischia di avvicinarci alla situazione di quei Paesi (oggetto, del resto, di non nascosta ammirazione da parte della nostra maggioranza politica). Altri, su queste pagine, ne hanno scritto, da ultimo con riferimento alla cosiddetta “verticalizzazione” del potere (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/06/29/il-premierato-ovvero-il-fascino-del-capo/) e ai tentativi del Governo di limitare l’indipendenza della magistratura (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/07/14/la-vicenda-giudiziaria-del-sottosegretario-delmastro/). C’è, peraltro, un ulteriore passaggio di questo percorso, pur meno studiato e denunciato: l’intensificarsi del processo di trasformazione dello “Stato sociale” in “Stato penale”, doppiamente pericoloso perché già praticato a piene mani da precedenti maggioranze e governi di diverso colore (https://volerelaluna.it/commenti/2023/04/18/il-dissenso-non-piace-allestablishment/).

L’ultima manifestazione di questa tendenza la si ritrova in alcuni progetti di legge in discussione in Parlamento parallelamente alla riduzione delle tutele dei soggetti più deboli (con la soppressione del reddito di cittadinanza, la stretta sui migranti e la mancata adozione di un salario minimo per legge). Mi riferisco alle proposte di legge n. 566/C (Bisa ed altri) e n. 935/C (Foti ed altri), aventi ad oggetto la repressione delle occupazioni abusive di alloggi altrui, in corso di esame, congiuntamente ad altre (anche di diversa parte politica) in Commissione Giustizia alla Camera e al disegno di legge n. n. 693/S di iniziativa del ministro della Cultura Sangiuliano (contenente “Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici e modifiche agli articoli 635 e 639 del codice penale”), approvato dal Senato il 12 luglio scorso.

Le prime proposte hanno prodotto, in Commissione, un testo unificato che introduce nel nostro sistema il reato di «occupazione o detenzione illegittima di alloggio altrui» con pena da 2 a 7 anni di reclusione e arresto in flagranza per gli occupanti. Se il testo dovesse essere approvato, la nuova norma si applicherebbe anche, per limitarsi a qualche esempio, ai destinatari di uno sfratto che tardano a lasciare l’alloggio abitato per anni (e in cui il proprietario non ha alcuna necessità o intenzione di stabilirsi) ovvero agli occupanti per necessità di immobili pubblici o privati anche in disuso (non certo pochi in un Paese in cui gli sfratti in esecuzione sono circa 100mila e le case popolari occupate senza titolo circa 50mila). Di più, sono previsti il distacco delle utenze degli occupanti (cioè acqua, luce, gas, riscaldamento) entro 14 giorni dalla denuncia e la reclusione da 6 mesi a 5 anni per chi resiste, anche passivamente, allo sgombero, così sottoponendo a sanzioni pesantissime, insieme agli occupanti, anche gli attivisti dei diritti umani impegnati in difesa del diritto alla casa. Il disegno di legge predisposto dal ministro Sangiuliano, a sua volta, prevede nuove ipotesi di reato estese a ogni forma di aggressione (anche minima) non solo a beni culturali ma anche a loro appendici. Così, se la nuova norma diventerà legge, anche il semplice imbrattamento di «teche, custodie e altre strutture adibite all’esposizione, protezione e conservazione di beni culturali» integrerebbe un reato punibile con la reclusione da 1 a 6 mesi o con la multa da 300 a 1.000 euro.

Superfluo dire che gran parte delle condotte descritte rientrano già nel catalogo dei reati: l’occupazione generica di edifici è prevista dall’art. 633 del codice penale (con pena della reclusione da 1 a 3 anni e della multa da 103 euro a 1.032 euro) mentre «la distruzione, la dispersione, il deterioramento, il deturpamento, l’imbrattamento e l’uso illecito di beni culturali o paesaggistici» sono previsti dall’art. 518 duodecies dello stesso codice (introdotto appena un anno fa) con pene che vanno, nei casi più gravi, da 2 a 5 anni di reclusione e da 2.500 a 15.000 euro di multa (e, nei casi meno gravi, da 6 mesi a 3 anni e da 1.500 a 10.000 euro). Il senso delle nuove norme non è, dunque, quello di riempire un vuoto normativo ma quello di aumentare, talora a dismisura (come nel caso dell’occupazione di alloggi), le pene attualmente previste e di estendere l’ambito della rilevanza penale di condotte connesse con il conflitto sociale. Più ancora si tratta di norme che tendono a fotografare e a punire alcune nuove modalità di risposta al disagio sociale e al disastro climatico incombente poste in essere da movimenti per la casa, Ultima generazione ed Extinction rebellion. Come osserva Amnesty International: «Queste norme hanno un chiaro effetto criminalizzante verso l’attivismo e verso coloro che compiono atti di disobbedienza civile come strumento di protesta individuale o in contesti collettivi» e quando l’attivismo e la disobbedienza civile vengono criminalizzati, non solo si mettono a tacere i singoli, ma si delegittimano anche gruppi specifici di manifestanti e le cause per cui questi si attivano.

La manovra è chiara: da un lato punire, in modo sempre più esteso e pesante, i poveri; dall’altro criminalizzare il conflitto sociale e ambientale, il dissenso e i difensori dei diritti umani. Nulla di nuovo, si potrebbe dire, e a ragione. Da sempre quel che non si vuole o non si sa governare con politiche di inclusione lo si governa con l’esclusione e la repressione. E i precedenti sono, come si dice, bipartisan. Basti ricordare, negli Stati Uniti, le politiche contro i poveri delle amministrazioni Clinton e Trump (https://volerelaluna.it/mondo/2018/09/27/stati-uniti-guai-ai-poveri-eppur-qualcosa-si-muove/), in Europa le scelte dei Governi Thatcher e Blair (al quale ultimo si deve la icastica affermazione secondo cui «è importante affermare che non tollereremo più le infrazioni minori. Sì, è giusto essere intolleranti verso i senzatetto nelle strade»: The Guardian, 10 aprile 1997) e, nel nostro Paese, l’interminabile serie di provvedimenti di sindaci e governi contro poveri, marginali e migranti, a tutela del “decoro urbano” e via seguitando in modo a dir poco parossistico.

Ma, come accade in altri settori, oggi si sta operando un ulteriore salto di qualità attraverso la saldatura tra questi orientamenti, l’attacco ai diritti civili e l’irrigidimento autoritario del sistema politico, secondo il modello praticato, in Europa, da Polonia e Ungheria (si veda, per esempio, https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2018/10/23/ungheria-guai-ai-senza-tetto/). E ciò consente di tornare sull’affermazione da cui si è partiti. È vero, non viviamo in uno stato di polizia, ma siamo immersi in uno stato diseguale e repressivo che si dilata a dismisura. Il rischio – anzi qualcosa più di un rischio – è aspettare a reagire quando sarà troppo tardi.

da Volere La Luna

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