A vent’anni dai fatti del G8 di Genova, Enrico Zucca, pubblico ministero del processo per le torture degli agenti alla Diaz analizza come le giornate del G8 genovese mostrano i primi passi lungo una precipitosa china percorsa in questi due ultimi decenni, durante i quali si è praticata la tortura non più nel segreto, ma cercandone dopo secoli una giustificazione legale, si è accentuata la militarizzazione delle forze di polizia non solo nelle dotazioni tecnologiche, ma forgiandole a contrastare nemici nella gestione delle turbolenze interne, parallelamente adottando anche gli strumenti ordinari del diritto penale nell’ottica di contrasto a fenomeni eversivi e terroristici senza spazio per la gestione del diverso emergere di conflitti sociali e di protesta.
di Enrico Zucca
Quando l’allievo è pronto appare il maestro. Forzando un po’ l’aforisma zen, si può dire che, maturate le condizioni, si è pronti a cogliere l’opportunità. Così spieghiamo lo scempio dei diritti al G8 genovese di vent’anni fa, confrontandoci con la realtà che l’uso sproporzionato della forza anche letale, gli arresti illegali di massa, la falsificazione delle prove, le tecniche di trattamento inumano e degradante dei detenuti, le torture, erano già nelle capacità e nello strumentario utilizzabile delle forze dell’ordine democratiche.
“Mi sembra di capire che quella notte lo Stato di diritto a Genova fosse sospeso”: notava sbigottito a Londra il giudice che nel 2002 presiedeva all’assunzione delle testimonianze di alcune vittime della Diaz, ascoltando il racconto di Mark Covell, ridotto in fin di vita a manganellate e calci mentre si trovava di fronte alla scuola, circondato da alcuni poliziotti, rimasti ignoti, nonostante le riprese filmate della raccapricciante azione.
Anticipando ciò che avrebbero confermato le alte magistrature nazionali e la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, Amnesty evidenziava la gravità delle violazioni occorse, non solo per la loro diffusione, ma perché dal Dopoguerra non erano mai emerse in tal misura in un contesto di democrazia occidentale. Non erano neppure invocabili quelle situazioni di eccezionale stress che purtroppo si sarebbero verificate in sede internazionale dopo l’11 settembre e che avrebbero indotto a teorizzare a un certo punto quelle deviazioni dei corpi di polizia e sicurezza, financo la tortura, come il new normal.
Cadono dunque basilari certezze, la prima delle quali è che, appunto dalla fine della Seconda guerra mondiale, le democrazie occidentali si sono affermate in modo progressivo ed espansivo, tanto da proporsi come modello al mondo intero, sul presupposto di una superiorità valoriale, addirittura esportabile, con evidente paradosso, per mano militare. Con Genova 2001 appare nitida all’orizzonte un’altra spiacevole vista, quella per cui i diritti garantiti dalla democrazia e scritti nelle carte fondamentali non lo sono tuttavia per sempre e ad ogni costo, come il modello presuppone. Poi il terrore si è fatto reale, la democrazia si è mostrata nella sua naturale fragilità, pronta a reagire sullo stesso piano che s’intendeva contrastare. Scrive Adam Gopnik che il dibattito sulla crisi della democrazia parte da una fallace premessa, cioè che il declino verso forme autoritarie è ciò che deve spiegarsi quando invece la realtà è che succede sempre. Dunque “lo Stato di diritto e la protezione dei diritti non sono fondamenta fisse, scosse dagli eventi, ma pratiche e abitudini, costantemente minacciate, frequentemente rinnovabili”.
I giorni del G8 genovese mostrano i primi passi lungo una precipitosa china percorsa in questi due ultimi decenni, durante i quali si è praticata la tortura non più nel segreto, ma cercandone dopo secoli una giustificazione legale, si è accentuata la militarizzazione delle forze di polizia non solo nelle dotazioni tecnologiche, ma forgiandole a contrastare nemici nella gestione delle turbolenze interne, parallelamente adottando anche gli strumenti ordinari del diritto penale nell’ottica di contrasto a fenomeni eversivi e terroristici senza spazio per la gestione del diverso emergere di conflitti sociali e di protesta. Quando nel 2004 appaiono le raccapriccianti immagini dei luoghi di detenzione di Abu Ghraib, punta dell’iceberg del dispiegarsi del programma delle tattiche potenziate d’interrogatorio della Cia, il filo conduttore con il trattamento dei detenuti nella caserma di Bolzaneto è evidente. Le tecniche dei carcerieri sono uguali, anche se Genova non è uno scenario bellico, ma già le forze di polizia, evidentemente così addestrate, sono pronte a dimenticare codici e leggi, nella peggiore tradizione delle dittature che non possono tollerare la protesta civile, incluse le sue possibili devianze.
La situazione è dunque chiara nel suo aspetto di sistema, ma la prevedibile reazione delle istituzioni politiche e governative è stata quella di confinare l’accaduto nell’ambito individuale, non a caso cedendo alla sola magistratura il compito di far luce su singoli eventi e di individuare responsabilità personali, nel contempo “impunemente” rifiutando di collaborare o di autonomamente accertare e sanzionare gli abusi nell’ambito dei corpi. Ben presto, infatti, non essendo governabile l’esercizio dell’azione penale, l’accertamento della magistratura faticoso anche per la vischiosità del conflitto d’interessi con la forza di polizia, diventa esso stesso devianza ed è stigmatizzato come diretto alla criminalizzazione di quest’ultima.
Luoghi comuni in ogni tempo, ma funzionali alla tenuta del muro di omertà, specie quando il fuoco dell’indagine raggiunge livelli più alti, ancora richiamando l’aspetto strutturale in cui si sono manifestate le condotte criminose dei funzionari cui si è garantita carriera e solidarietà anche postuma, fino al ritorno, pur da condannati, in posizione di prestigio nei ranghi del corpo di polizia, dopo la parentesi di modeste pene, falcidiate da prescrizioni e benefici.
Ignorate le regole della Corte di Strasburgo che impongono il ragionevole, cioè la sospensione e la rimozione dei colpevoli. A prendere le distanze dal discredito generato dalle condanne, si è preteso bastasse la sola affermazione che si era “voltata pagina” e che, ovviamente, il corpo di polizia è indiscutibilmente sano, affermazione ripetuta come a battere i pugni sul tavolo per dar forza a un argomento indimostrato. La cronaca testimonia di altri gravi fatti, anche dopo il G8, in cui si ripropone lo schema dell’uso sproporzionato della forza degli agenti, cui segue la copertura con falsità, a dimostrare che il problema non sono soltanto le responsabilità individuali, ma le regole d’ingaggio, la concezione del far polizia e del rapporto dell’istituzione con i cittadini. Recenti episodi ancora genovesi testimoniano la coercizione violenta e indiscriminata, parametrata e giustificata soltanto sulla base della ritenuta necessità operativa, la quale include immancabilmente manganellate e calci inferti da gruppi di agenti su singoli accerchiati e già ridotti all’impotenza, in funzione quindi ritorsiva e punitiva. Debole la reazione della magistratura, dopo la fiamma del G8, da seppellire nell’atto di fede, nella pagina voltata.
Il G8 porta tuttavia anche in eredità il diverso peso sull’altro piatto della bilancia della giustizia. Qui le idee appaiono più chiare. I pochi manifestanti violenti di allora, portati a giudizio (è il noto processo dei 25, il numero dice già tutto) sono attinti da contestazioni tanto generiche quanto terribili. Prima imputati di associazione per delinquere, un’accusa che ha consentito arresti di massa, addirittura in flagranza per mano della polizia -è il caso delle vittime della Diaz- poi abbandonata dagli inquirenti, a conferma dell’uso strumentale, in favore dell’accusa di devastazione e saccheggio, un reato residuato del codice Rocco, ma rivitalizzato per contrastare fenomeni come il vandalismo dei tifosi, gli hooligans. Così i danneggiamenti dei casseurs o del black bloc in azione a Genova sono stati sanzionati con le pene previste da quel reato (pena minima otto anni e massima quindici) che, ancora una volta, non hanno paragoni nel contesto delle democrazie occidentali (dove per gli stessi fatti se ne rischiano due).
Ancor di recente il legislatore ha scelto per tutta risposta di inasprire le pene, aumentando le sanzioni (da dodici anni a venti) quando i fatti di devastazione sono commessi in occasione di manifestazioni pubbliche, come appunto nel caso del G8 di Genova. La cosa non regge neppure il paragone con le pene che riserva ai trasgressori la Russia di Putin. Per intendersi, il codice russo all’art. 212 punisce le rivolte di massa, con violenze, incendi, danneggiamenti, uso di armi da fuoco o ordigni esplosivi, con resistenze a pubblici ufficiali con una pena da tre a otto anni. Il vandalismo, i danneggiamenti aggravati, anche in forma organizzata con pene di gran lunga inferiori, non sempre detentive.
Continua così la strumentalità nella repressione, i gravi reati ipotizzati dagli inquirenti consentono, infatti, l’utilizzo delle forme più invasive d’indagini, con le tecnologie più sofisticate, il conflitto è monitorato al suo nascere e ancor prima. Il movimento No Tav diventa terrorismo, i reati commessi dagli oppositori senza redenzione, perché non c’è abiura. I camalli del porto di Genova sono immancabilmente indagati come associati a delinquere se programmano azioni di protesta e il blocco delle navi che caricano armi nei porti. È evidente che la democrazia cambia lo strumentario perché ha paura del conflitto, di cui invece dovrebbe aver bisogno: il paradosso della democrazia è che il modo migliore per difenderla e quello di attaccarla, con le critiche, la protesta e il dissenso, come efficacemente ci ricorda la storica americana Jill Lepore.
Qualcosa di segno opposto s’è fatto, ci tiene a dire comprensibilmente qualcuno. Dopo le condanne per i fatti della scuola Diaz e di Bolzaneto qualificati -in entrambi i casi- con lo stigma della tortura dalla Corte europea dei diritti umani si accelera il percorso per l’approvazione di una legge che la codifichi, impresa sempre fallita in parlamento in violazione dell’obbligo derivante dalla convenzione Onu che la imponeva dal 1984. Il testo definitivo della legge promulgata finalmente nel luglio 2017, rimaneggiato più volte per il rifiuto di introdurre la nozione accreditata dalla convenzione Onu, quindi con l’intento di limitarne l’applicazione, risente dell’enorme compromesso imposto apertamente dai vertici delle stesse forze di polizia, che paventano la paralisi della loro azione. Non si tratta di valutare la situazione nella prospettiva del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: il cedimento sull’applicazione puntuale degli obblighi convenzionali, che prevedono un divieto assoluto, pesa infatti non solo sulla disponibilità di norme appropriate, non a caso quelle approvate difficilmente applicabili proprio ai fatti genovesi, ma sulla costruzione della cultura che le deve sorreggere, corrotta da molte ambiguità e dunque dalla relativizzazione del divieto. È accaduto, può accadere. Non si volta pagina su Genova senza questa consapevolezza.
Enrico Zucca è sostituto procuratore generale di Genova. È stato pubblico ministero del processo per le torture alla scuola Diaz durante il G8 del 2001
L’ articolo è un estratto dal libro “2001-2021. Genova per chi non c’era. L’eredità del G8: il seme sotto la neve” curato da Angelo Miotto e pubblicato su altreconomia n. 239