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Quando il carcere uccide

Lesioni e mancanza di dignità nei penitenziari italiani. Un’indagine di Data Journalism analizza il rapporto tra sovraffollamento e suicidi.

Dal 2010 al 2019 il numero “ufficiale” di suicidi nelle carceri italiane è 499, ma a questa cifra vanno aggiunti i 52 casi “non riconosciuti” dallo Stato.

Cinquantadue detenuti che probabilmente hanno deciso di togliersi la vita ma che il ministero della Giustizia non considera suicidi. Oltre a questi, una serie di decessi classificati come “da accertare”, sui quali anche dopo anni non si è fatta ancora chiarezza. Nomi e cognomi sono inseriti in un report dalla rivista Ristretti Orizzonti, accanto a data e modalità di morte.

Il giornale è stato fondato nel 1997 da Ornella Favero nella casa di reclusione di Padova, dove da quell’anno i detenuti contribuiscono alla sua realizzazione con la scrittura e l’impaginazione degli articoli. All’attività di redazione si affianca quella educativa, con testimonianze dei detenuti nelle scuole e visite degli studenti nelle carceri.

La redazione spiega che il ministero considera a volte come tentato suicidio l’atto di un detenuto che non riesce subito a togliersi la vita, ma muore poco dopo in ospedale. I morti per asfissia da gas che lo Stato classifica spesso come “overdose”, ad esempio, per Ristretti Orizzonti sono invece dei veri e propri suicidi, o comunque sono atti che esprimono un disagio estremo.

Grazie a una fitta rete di contatti all’interno delle carceri italiane formata da familiari delle persone detenute, volontari, operatori e garanti, il report cerca di ricostruire quanto accaduto, portando alla luce in alcuni casi verità scomode.

Dal 2000Ristretti Orizzonti tiene infatti il conto di tutte le morti dei detenuti, focalizzando l’attenzione sui suicidi. A prescindere dal luogo e dalle modalità, a chi si occupa del conteggio interessa capire se la decisione di togliersi la vita sia in qualche modo riconducibile alle condizioni della detenzione. «Il report è nato con l’idea di comunicare con la società – spiega Favero, che è anche la direttrice del giornale – Uno dei temi più delicati e drammatici rispetto alla realtà del carcere è quello dei suicidi e dei tentati suicidi». Favero ragiona sulla disparità tra quelli registrati da loro e quelli pubblicati dal Ministero. «L’istituzione tende sempre ad autotutelarsi – racconta la giornalista – conta più questo che la realtà. Perché la trasparenza fa così paura?».

Indicare il nome e il cognome del detenuto suicida, oltre alla data e alla modalità della morte, serve per dare una dignità a chi ha scelto di compiere il gesto estremo. I detenuti suicidi smettono di essere soltanto numeri e diventano essere umani con una propria storia di vita, che merita di essere raccontata fino alla fine. «Per lo Stato la privacy giustifica qualsiasi silenzio – conclude Favero – mentre noi pensiamo che le persone suicide o che hanno tentato il suicidio abbiano comunque il diritto di essere chiamate per nome».

Lo spazio che dovrebbe essere garantito a ogni detenuto nelle celle collettive è di 4 metri quadri, quarantamila centimetri quadrati, meno di quanto la legge indica per i suini. «I recinti per i verri devono essere sistemati e costruiti in modo da permettere all’animale di girarsi e di avere il contatto uditivo, olfattivo e visivo con gli altri suini. Il verro adulto deve disporre di una superficie libera al suolo di almeno 6 mq», così infatti è scritto in una legge del 2004 sul benessere degli animali. Se i detenuti fossero suini, quindi, avrebbero a disposizione più spazio. Ma anche per arrivare alla misura di 4 mq c’è voluta una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

L’ 8 gennaio 2013 la causa di sette persone contro la Repubblica italiana, che lamentavano le condizioni negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza, ha generato una “sentenza pilota”. Prima di allora, l’ordinamento italiano parlava di «ampiezza sufficiente», senza specificare uno spazio minimo. Con la sentenza Torreggiani del 2013, che prende il nome da uno dei ricorrenti, l’Italia è chiamata ad adottare il parametro dei 4 metri quadrati.

Fermo- Mino Torreggiani, detenuto nel carcere di Busto Arsizio per 1.635 giorni, dal 13 novembre 2006 al 7 maggio 2011, ha vissuto sulla sua pelle l’impatto di un sovraffollamento al 249 per cento: la struttura aveva nel 2010 una capienza regolamentare di 167 persone, ma ci vivevano 415 detenuti.

Proprio il sovraffollamento è una delle risposte dei dati alla domanda «Perché in carcere ci si toglie la vita?». Il ministero della Giustizia rende pubblici per ogni anno i numeri della capienza regolamentare di tutti gli istituti penitenziari e quelli della popolazione detenuta. Quanti dovrebbero essere e quanti in realtà sono. Da questi due numeri, con una semplice divisione, si ottiene la percentuale di sovraffollamento.

Accostando il dato nazionale ai suicidi registrati da Ristretti Orizzonti negli ultimi dieci anni si scopre che i due fenomeni sono legati: il tasso di correlazione è 0.73, in un range che va da – 1 a 1. Alto, troppo alto.

Dal 2010 al 2015 il sovraffollamento negli istituti penitenziari è diminuito di anno in anno, anche per effetto dei provvedimenti presi a seguito della sentenza Torreggiani. Di pari passo è calato anche il numero dei suicidi. Nel 2010, con un sovraffollamento al 151 per cento, sono stati registrati 66 suicidi in carcere; nel 2015, con un tasso del 105 per cento, 43. Da allora, entrambi i paramenti sono tornati a crescere insieme. Fino al 2019, che ha registrato un tasso di sovraffollamento del 120 per cento e 53 suicidi. Di questi, 49 sono avvenuti in carceri sovraffollate.

Ma le celle fanno da scenario anche ad altre storie di dolore. «Negli ultimi 20 anni gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno sventato più di 21mila tentati suicidi e impedito che quasi 170.000 atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze». Sono parole di Antonio Cannas del Sindacato auto- nomo polizia penitenziaria ( Sappe).

Gli unici dati che tengono il conto degli atti di autolesionismo nelle carceri italiane sono quelli resi disponibili da Antigone, ong per i diritti dei detenuti che da anni si occupa di produrre report sulle loro condizioni di vita. Dal 1998 l’organizzazione è autorizzata dal Ministero a entrare negli istituti penitenziari italiani. Tra le 95 carceri visitate lo scorso anno, Antigone ha registrato 4.023 atti di autolesionismo in 72 istituti, riferiti al 2018.

La correlazione matematica tra sovraffollamento e atti di autolesionismo è 0.22, quindi più bassa di quella tra sovraffollamento e suicidi. Ma è ragionevole pensare che il legame di causa effetto tra i due dati sia comunque valido. L’analisi dei numeri offre infatti degli esempi utili. La casa circondariale di Campobasso aveva un tasso di autolesionismo del 110 per cento ( 180 casi di autolesionismo su 163 detenuti), con un sovraffollamento al 150 per cento. Al contrario, la casa di reclusione di Arbus, in Sardegna, non ha registrato alcun atto di autolesionismo sui 106 detenuti presenti, che occupavano poco più della metà della capienza ( 176 posti). Esempi che mostrano come, a volte, garantire più spazio ai detenuti abbassa il rischio che si verifichino, non solo suicidi, ma anche casi di autolesionismo.

CONDIZIONI DI DETENZIONE

Maltrattamenti, celle putride e spazi ristretti. E poi mancanza di luoghi all’aperto, di acqua calda e di riscaldamento. Fino al wc nello stesso ambiente della cella. In alcuni istituti penitenziari dove le condizioni di vita risultano molto al di sotto della media, gli atti di autolesionismo sono più frequenti, come nel caso di Campobasso e Pesaro. Come riporta Antigone nel report 2019, nella casa circondariale del capoluogo molisano non c’è uno spazio di almeno 3 mq per detenuto, non c’è un medico a disposizione nelle 24 ore e non ci sono detenuti coinvolti in corsi di formazione professionale. Nel 2018 il carcere ospitava 163 detenuti e sono stati registrati 180 atti di autolesionismo.

Allo stesso modo, la casa circondariale di Pesaro, che non garantisce l’acqua calda in tutte le celle e manca di un reparto separato per detenuti con infermità psichica, aveva un tasso di autolesionismo del 47 per cento.

E se autolesionismo e condizioni di vita sembrano essere collegati in senso negativo, è vero anche il contrario. Nelle carceri dove “si vive meglio”, gli atti di autolesionismo scompaiono. Come a Laureana di Borrello e a Volterra. La casa di reclusione abruzzese non è sovraffollata, ha un protocollo per la prevenzione dei suicidi e un terzo dei detenuti lavora alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: con queste condizioni, nel 2018 non c’è stato neanche un caso di autolesionismo. Così come nel carcere toscano, dove c’è un’area verde per i colloqui estivi, il wc in ambiente separato in tutte le celle e il 59 per cento dei detenuti partecipa a corsi di formazione scolastica.

«Negli ultimi anni stiamo dando per scontato che, oltre alla libertà, il carcere debba privare i detenuti anche della dignità, della salute e dei legami familiari – dice Michele Miravalle, coordinatore degli osservatori di Antigone – Abbiamo trasformato questo comportamento istintivo nella regola costitutiva del sistema».

Questo lavoro non piace a tutti perché il carcere deve rimanere per alcuni un luogo oscuro e poco trasparente, come spiega Miravalle. «Siamo volutamente partigiani – continua il ricercatore – soprattutto quando sono in gioco i diritti fondamentali delle persone, ma non abbiamo mai ceduto all’istinto di lanciare una storia in prima pagina».

Secondo Stefano Anastasìa, garante dei detenuti di Lazio e Umbria e portavoce nazionale dei garanti, che è anche professore di diritto penale all’Università di Perugia, l’assistenza sanitaria è proprio uno dei diritti che più spesso viene negato ai detenuti, assieme alla possibilità di avere contatti con i propri familiari e a quella di accedere a corsi di formazione scolastica o professionale.

«Le risorse che il Sistema sanitario nazionale riesce a dedicare alle carceri non sono molto significative – spiega il professore – e la popolazione detenuta ha delle domande di salute molto complicate. In carcere finiscono tante persone che hanno storie diverse di tossicodipendenza e incuria».

Da garante dei detenuti, Anastasìa pensa che il sovraffollamento sia il vero cancro da estirpare dal sistema penitenziario italiano, perché condiziona tutto il suo funzionamento. In un carcere che ha spazi ridotti gli educatori non possono avere colloqui con tutti i detenuti, che a loro volta spesso non vedono garantito l’accesso ai corsi o alle cure mediche. Quando un istituto è sovraffollato «tutto quanto ne risente, tutto, dall’inizio alla fine», sottolinea il garante.

Una realtà che conferma questa idea è quella del carcere di Poggioreale. La casa circondariale nel centro di Napoli è quella dove negli ultimi dieci anni si è verificato il numero più alto di suicidi: 49, secondo i dati di Ristretti Orizzonti. «Noi sappiamo che in carcere ci si suicida circa 17 volte di più che fuori e l’evento può essere scatenato anche dalla mancanza di rapporti con l’esterno conclude il garante – di recente mi sono occupato della storia di un ragazzo nigeriano che a Viterbo si è tolto la vita dopo essere stato in carcere 18 mesi senza avere colloqui con nessuno. Con nessuno».

Giacomo Puletti e Giulia Giancaglini

da il dubbio