Menu

Quei tanti detenuti che muoiono in cella per gravi malattie

L’ultimo a Milano dove un malato terminale è deceduto tra atroci sofferenze. Giuseppe D’Oca morì a Vigevano nel 2016 nonostante un tumore diagnosticato nel 2014 per il caso di Robertò Jerinò è stata disposta la riapertura delle indagini

Purtroppo non è un caso isolato quello del detenuto piantonato in carcere nonostante avesse un tumore allo stadio terminale e poi morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale San Paolo di Milano. Nelle patrie galere accade spesso. Questa vicenda finita nelle cronache nazionali parte dal dicembre 2018 quando Giorgio C, 58 anni, oltre a tosse e difficoltà respiratorie, accusa un dolore persistente al polmone sinistro. Il 12 aprile, una radiografia al torace evidenzia il collasso del polmone sinistro. Viene ricoverato d’urgenza al Fatebenefratelli. Due settimane dopo, la scoperta del tumore maligno, le dimissioni dall’ospedale e il ritorno in cella in attesa di una “Tac- Pet” per confermare la diagnosi. Accertamento che, viene effettuato 25 giorni dopo. Nel frattempo il legale Francesca Brocchi deposita alla Corte d’Appello l’istanza per valutare la compatibilità con il carcere e ottenere la sostituzione della misura cautelare, per consentirgli di potersi curare. I giudici, in assenza delle relazioni mediche, non possono decidere sulle ripetute richieste. Le sue condizioni peggiorano, ha metastasi alle ossa, non si regge in piedi. Tant’è che il legale reitera la richiesta di scarcerazione, ma la Corte d’Appello non può ancora provvedere per mancanza della documentazione clinica. Il 15 luglio viene dimesso con una diagnosi che non lascia scampo, ma tre giorni dopo viene di nuovo ricoverato nello stesso ospedale. Lì muore dopo atroci sofferenze.

Una storia che ricorda quella del detenuto Giuseppe D’Oca, malato anche lui di tumore ai polmoni, detenuto nel carcere di Vigevano. Il 2 agosto 2016 è venuto a mancare all’età di 59 anni all’ospedale di Pavia. Durante la sua permanenza in carcere, il tumore avanzava sempre di più. Già a fine 2014 si vedeva che non stava bene e i famigliari hanno fatto la richiesta di incompatibilità con il carcere, ma gli è stata negata. Da quel momento in poi è andato sempre peggiorando, dimagrendo visibilmente, non mangiando più. La Corte d’Assise d’Appello di Milano nel 2015 aveva negato il trasferimento del detenuto – che scontava l’ergastolo- ad altro regime di detenzione, suggerendo l’acquisto di una dentiera, perché, nel frattempo, a causa di una piorrea il detenuto aveva perso l’intera dentatura. Era quello, secondo i magistrati, il motivo del dimagrimento.

A quel punto i familiari pagarono un neurologo per effettuare una visita specialistica. Il medico aveva riscontrato che era incompatibile con il carcere. Ma niente da fare: secondo le autorità, D’Oca poteva essere curato in cella. In pochi mesi dimagrì di 40 Kg e fu ricoverato urgentemente il 28 maggio del 2016 per il suo clamoroso deperimento tanto da destare le preoccupazioni del medico di turno. Troppo tardi: dopo due mesi è morto.

C’è anche la vicenda di Roberto Jerinò – recentemente il gip ha disposto la riapertura delle indagini -, detenuto al carcere calabrese di Arghillà e morto a dicembre del 2014 presso l’ospedale di Reggio Calabria. Durante la detenzione cadde per terra perché la sua gamba perse la memoria dei movimenti, poi il braccio e infine la bocca. Venne portato di corsa in ospedale: ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. L’avvocato, come logico, chiese la concessione dei domiciliari. Rigettato. Subito riportato in carcere, nonostante la diagnosi. Secondo la testimonianza di alcuni detenuti, alle 3 di notte del 12 dicembre del 2014, Roberto sentì assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo, lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire quella notte. La mattina si segnò in elenco per l’infermeria: gli misurarono la pressione, nessuna anomalia. Fu così per l’intera giornata: un dolore costante, ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione, stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella. Stava impazzendo Jerinò, sentiva quella vena come se fosse una sanguisuga. Lamentava dolore. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso, rimase paralizzato nel letto. Lo portarono in ospedale che era già in coma. Non si risvegliò più. Morì il 23 dicembre del 2014.

Damiano Aliprandi

da il dubbio