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Quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri

Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando.

È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione.

Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2.468 decessi di cui 882 suicidi dal 2000 al 20 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier “Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose” curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile.

Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere.

Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel “Protagora” definiva con efficacia il “desiderio di vendicarsi come una belva”.

Tanto più alla luce delle “utilitaristiche” ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo.

Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. “Sei mesi di ampio e approfondito confronto – spiega da mesi Orlando – che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expo’ situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio.

L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’ emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’ aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena.

Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini-Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere.

Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la “deterritorializzazione” di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu.

Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata.

La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna.

Barbara Alessandrini da  L’Opinione