Il Fatto Quotidiano non nomina Cospito, il fastidio del giornale di Travaglio per l’anarchico
Non c’è bisogno di evocarlo esplicitamente, il nome di Alfredo Cospito aleggia ovunque si parli di carcere e in particolare di quello impermeabile previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Così l’operazione furbetta del Fatto quotidiano è facilmente smascherabile, mentre presenta tre casi di condannati per mafia che “nei mesi scorsi” si sono visti respingere la richiesta di revoca del regime del carcere più duro e più “asociale”.
di Tiziana Maiolo
Che senso ha raccontare oggi qualcosa che è successo tempo fa, se non per sollecitare chi di dovere al massimo dell’intransigenza nell’applicazione di una norma che avrebbe dovuto essere provvisoria già dal 1992 e che si concretizza come vera tortura? Se l’argomento è oggi d’attualità è perché c’è un cittadino rinchiuso in una prigione di Sassari dove si sta lasciando morire di inedia, mentre non pare esserci cuore di giudice o di ministro pronto ad aprirsi al coraggio di una decisione che abbia almeno il sapore di umanità.
E non importa se l’anarchico Alfredo Cospito sia un buono e pacifico cittadino o un Caino pronto a suggerire anche dal carcere ai suoi amici che “la lotta continua” contro lo Stato borghese, e deve anche continuare. È vero che l’articolo 41-bis costruisce intorno al detenuto cui è applicata una bolla di impermeabilità proprio per impedirgli di comunicare con l’esterno. Ma quando una persona arriva a mettere in gioco il proprio corpo e la propria vita, la scelta è solo tra due ipotesi, o il cinismo con cui furono lasciati morire Bobby Sands e i suoi compagni irlandesi, o la salvezza di quel corpo e di quella vita.
Non ci sono passeggiate di politici al carcere, per quanto volenterose, che possano trovare una via d’uscita per Alfredo Cospito. Né è sufficiente il dolore sincero del ministro Nordio, perché è vero che l’istruttoria, voluta appositamente come lunga e delegata a diversi soggetti, appartiene per competenza alla magistratura, ma in questi casi nessuna toga strillerebbe per l’invasione di campo se fosse il governo ad assumere una decisione politica.
Che non verrà presa, temiamo, se non all’ultimo, magari con una frettolosa corsa in ospedale e il trattamento sanitario obbligatorio. Ma si potrebbe fare altrimenti, come è già capitato in altri casi. C’è la possibilità di una sospensione nell’applicazione della pena per motivi di salute, per esempio, proprio come è stato fatto dal governo Conte quando c’era l’epidemia di Covid in corso. E non si guardò in faccia nessuno, in quei momenti, per vedere se a rischiare il contagio e la morte fossero gli Abele o i Caino. E quando, dopo il siluramento del capo del Dap Basentini, colui che aveva mostrato lungimiranza e senso di umanità, un secondo decreto mise fine a quel barlume di libertà, nessuno si sottrasse al rientro tra le mura del carcere.
Certo, quel decreto non piaceva alla subcultura travagliesca. Come non piace oggi il fatto che un detenuto anarchico protesti con la forma più estrema di manifestazione contro un regime da lager stile Guantánamo. E allora, oplà, ecco pronti i casi di tre condannati per le stragi mafiose, quasi a dire: visto? Neppure nei loro confronti, per quanto dissociati e forse ormai lontani dal proprio passato, si deve avere pietà.
In effetti fa impressione leggere dall’articolo del Fatto le parole dei giudici di sorveglianza del tribunale di Roma. Prendiamo Filippo Graviano, che, scrivono i magistrati, “ha riferito di essersi più volte dissociato da cosa nostra, ha detto di sentirsi ‘rieducato’, di essersi laureato con lode e ha sottolineato dei recenti processi che hanno coinvolto la sua famiglia e che si sono conclusi con sentenze di assoluzione”. Ma il “ma” pesa come un’intera montagna.
Non c’è storia, nella mente di certi magistrati c’è una sola via d’uscita dal regime speciale, e si chiama collaborazione, “pentitismo”, con ammissione dei propri reati e delazione su quelli altrui, veri o inventati. E si infischiano perfino dei provvedimenti della Corte Costituzionale, certe toghe, quelle che piacciono all’Anm e a Marco Travaglio.
Come si fa, infatti, a scrivere che il detenuto “non ha mai fornito un apporto di elementi conoscitivi riguardo la propria posizione specifica all’interno del sodalizio ovvero che potessero disvelare o aggravare la posizione degli altri sodali”?
Se è qualcosa di simile che ci si aspetta anche da Alfredo Cospito per restituirgli almeno una forma di detenzione che abbia parvenza di normalità, questo vuol dire non sapere nulla e nulla aver capito della storia dell’anarchia, anche nelle sue forme più recenti e meno pacifiche. E vuol dire anche non capire nulla dell’orgoglio di una persona che sta sacrificando se stessa e anche dando una lezione a un mondo di carcerieri senz’anima e senza dignità.
da il Riformista
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