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Ramy, o la fine degli equivoci

La questione giovanile è innanzitutto una questione sociale, e non serviranno a occultarne la natura i ridicoli e patetici canovacci sicuritari proposti dall’attuale esecutivo.

di Vincenzo Scalia da il manifesto

La morte del giovane Ramy El Gaml, avvenuta a Milano tra il 24 e il 25 novembre mentre era inseguito da un’auto dei carabinieri nel quartiere del Corvetto, squarcia il velo di malintesi e di ipocrisie che nell’ultimo lustro hanno ammantato la questione giovanile.

A partire dalla pandemia, la rappresentazione dei giovani come categoria sociale problematica, principale responsabile della criminalità di strada nel nostro Paese, dai rave ai furti, dalle risse nelle zone della movida al consumo di sostanze, ha subito un’insolita accelerazione. Cronache e palinsesti televisivi si sono riempite di baby gangs e nuovi teddy boys, sospingendo il varo di provvedimenti liberticidi come i decreti anti-rave e Caivano.

Questa costruzione del panico morale attorno ai giovani era sempre stata sospetta. La tragedia del Corvetto ha confermato che i sospetti, purtroppo, erano fondati, rivelando che la questione giovanile si sovrappone, drammaticamente, alla questione migratoria. Ramy era un italiano senza cittadinanza, vale a dire uno delle centinaia di migliaia di giovani nati e cresciuti in Italia ma che, per una legge assurda che ti fa italiano e ti fa giocare in nazionale se hai un nonno di Canicattì, ma ti considera straniero se i tuoi genitori e nonni non sono italiani. Eppure, il nostro paese versa in una crisi demografica ed economica irreversibile, e dare la cittadinanza ai migranti e ai loro figli nati e cresciuti qui, costituirebbe innanzitutto un riconoscimento legittimo dei loro diritti, e, in secondo luogo, immetterebbe energie nuove in un tessuto sociale esanime.

Emancipati dalla loro condizione giuridica di non-persone, i nuovi cittadini si potrebbero finalmente inserire a pieno titolo nel tessuto sociale e in quello produttivo. La morte di Ramy, inoltre, pone alla ribalta un aspetto che investe le pratiche selettive delle forze di polizia italiana.

I giornali cercano di nascondere il sole con una rete, ribadendo che Ramy e il suo amico Farez Bouzidi, alla guida dello scooter al momento dell’incidente, avevano precedenti penali. Si parla anche del possesso, da parte dei due, di oggetti di provenienza imprecisata, probabili proventi di furto. A parte che esiste la presunzione di innocenza, e che il possesso di una refurtiva non implica che si debba decidere per un inseguimento, spicca la pervicacia con cui le forze dell’ordine si sono concentrate sui due giovani.

La vicenda di Ramy rappresenta un caso di profilazione etnica, ovvero quel criterio adottato dagli osservatori, istituzionali e no, per cui i connotati etnico-razziali di una persona, il suo modo di vestire e di parlare, rappresentano elementi predittivi di una sua identità criminale. Si tratta di una tendenza comune a tutti i paesi europei.

Tuttora, in Inghilterra, gli afrocaraibici vengono perquisiti 27 volte più dei bianchi. In Francia, il 27 giugno 2023, il diciassettenne Nahel venne ucciso da un poliziotto. L’equazione tra migrazioni e delinquenza è popolare a tutti i livelli. Qualche anno fa, ad esempio, un famoso sociologo, aggirando il problema della profilazione etnica, usò le statistiche per dimostrare che gli immigrati delinquono di più degli italiani. Le forze dell’ordine la traducono in azioni operative, con conseguenze spesso tragiche.

L’Italia arriva in ritardo rispetto agli altri paesi, ma la questione delle periferie, dei migranti di seconda e terza generazione, è esplosa anche da noi. Innescando anche proteste diffuse tra i giovani italiani senza cittadinanza che reclamano quantomeno il diritto ad essere trattati da esseri umani e di non morire per un inseguimento.

La questione giovanile è innanzitutto una questione sociale, e non serviranno a occultarne la natura i ridicoli e patetici canovacci securitari proposti dall’attuale esecutivo.

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