Il rancore, la paura, la disinformazione (web e mainstream) e i reati di solidarietà. Cronache di un Paese allo sbando
Sono passate poche settimane dalla presentazione del quarto rapporto annuale della Carta di Roma, dal titolo “Notizie oltre i muri“. Ma già poche ore dopo sembravano passati anni. Non perché il lavoro prezioso, che fa l’associazione, sia stato vano o inutile ma in quanto, dopo l’attentato di Berlino e l’uccisione del presunto attentatore in Italia, sono stati stravolti totalmente i risultati a cui tale rapporto era pervenuto. E partiamo allora da quello per arrivare ad oggi.
Il rapporto evidenziava alcuni aspetti quantitativi molto significanti nel racconto mediatico delle migrazioni: aumento dei titoli in prima pagina, anche rispetto al boom dell’anno scorso, (sulla carta stampata + 10%), meno allarmismo, meno picchi ma una presenza costante nei titoli delle prime pagine del tema: alcuni quotidiani come l’Avvenire addirittura hanno fatto registrare 1,3% articoli al giorno con partenza in prima su questo tema, più “contenuti” ma altrettanto presente Repubblica (0,8%) e Corriere della Sera (0,7%). I temi trattati sono in ordine di presenza simili a quelli dello scorso anni: forte la questione accoglienza (ma in calo) in crescita lo spazio dedicato ai flussi migratori, al terrorismo, a criminalità e sicurezza, ma soprattutto alle questioni connesse a società e cultura (spazio più che triplicato rispetto al 2015, in gran parte a causa del dibattito sorto in estate attorno al tema del “burkini” e più in generale all’islam. Si raccontavano sempre più tali tematiche in un contesto di politica estera, sia per i numerosi vertici che si sono tenuti nella dimensione europea, sia perché le dimensioni mondiali degli spostamenti forzati di persone non potevano più essere ridotte esclusivamente a fenomeni di cronaca giudiziaria o di ordine pubblico. Un passo avanti quindi – dichiaravano giustamente i presentatori del rapporto – a cui però faceva da contrasto l’aumento esponenziale dell’ hate speech, sui social network.
Il rapporto in effetti illustra, con dovizia di particolari come, soprattutto, protetti dall’anonimato e dall’uso dei nickname si sia scatenata una rabbia diffusa in tali canali comunicativi da rendere ancora più difficile una corretta narrazione dei fatti. Per avere conto di quanto questo sia vero si provi a leggere i commenti anche agli articoli della stampa mainstream quando si parla di immigrazione. Trasudano spesso odio, rabbia, frustrazione, ignoranza e in gran parte non vengono inoltrati scrivendo il proprio nome e cognome.
Ma dopo i fatti di Berlino, come dicevamo, si è tornati su un’altra dimensione narrativa. L’allarmismo dei grandi quotidiani è tornato ai tempi d’oro, le dichiarazioni dei leader politici sono improntate a parlare di sicurezza, ordine pubblico, cacciata dei “clandestini”, apertura dei CIE, controllo delle frontiere, retate da istituzionalizzare eccetera…
Alcuni fatti di cronaca fanno riflettere e vanno elencati sapendo che tanti restano sottaciuti: a Napoli dei criminali sparano contro ambulanti senegalesi che rifiutano di pagare il pizzo, per ribadire il controllo camorrista del territorio. Alcuni feriti, fra cui una bambina, un ambulante anche gravemente ma la vicenda viene narrata solo attraverso lo scontro fra il sindaco partenopeo e Roberto Saviano.
A Torino, la vicenda grottesca del cinema che si è svuotato perché i componenti di una famiglia musulmana si scambiavano, durante la proiezione del film, sms con il cellulare. Le persone sono fuggite pensando ad un imminente attentato. La donna indignata che si è ritrovata al centro della vicenda, una madre di famiglia in Italia da 15 anni è stata immediatamente etichettata come potenziale terrorista. Una settimana dopo l’assessore comunale alle Pari Opportunità del capoluogo piemontese si è pubblicamente scusato con quelle che ha definito “vittime di una psicosi” ma ovviamente intanto la notizia era già passata in secondo piano, non la paura.
Nel Centro di Prima Accoglienza di Cona (Venezia), muore una ragazza per circostanze ancora da chiarire, scoppia una rivolta legata, sembra, al ritardo nei soccorsi e al sovraffollamento del centro – una ex caserma in cui sono stipate 1400 persone – e in capo a due giorni la vittima viene dimenticata o comunque il suo decesso passa in secondo piano. Il sostituto procuratore di Venezia, come riportato da quotidiani, considera la ragazza morta per cause naturali ma ha già deciso, che per la rivolta bisogna immediatamente appurare se ci siano “legami col terrorismo”. L’intervista è surreale, nessuna prova, nessun indizio, solo percezioni legate al modo di esprimere disagio degli “ospiti” della struttura e al fatto che “non si capisce come mai alcuni siano collaborativi e altri invece conflittuali”.
E mentre dal Viminale giungeva (30 dicembre 2016) una circolare firmata dal Capo della polizia Franco Gabrielli, in cui si richiamava ad incrementare il controllo sui territori, anche attraverso il coordinamento delle forze di Polizia di Stato e Municipali, per “rintracciare gli irregolari anche sui luoghi di lavoro nero, avviare i procedimenti di espulsione e potenziare i rimpatri, la stampa enfatizzava un insieme di norme sulla “sicurezza” ad oggi solo annunciate. La proposta è la stessa da tanti anni, vessatoria, inutile, costosa, più CIE, uno in ogni regione. Il 19 gennaio prossimo, durante la Conferenza Stato – Regioni, il neo Ministro dell’Interno, Marco Minniti ha annunciato di voler presentare un “Piano per la sicurezza” di cui giungono, centellinate, le prime avvisaglie. Oltre al rafforzamento delle attività di polizia nei territori si punta alla panacea dei CIE, che saranno, secondo il ministro, “piccoli” ( per non oltre 100 persone), dal volto umano e con tutte le garanzie, (vorremmo vedere dopo le tante condanne e i rapporti che denunciavano l’inumanità di quelli esistenti e le sentenze contro i trattenimenti arbitrari), ma fatti per espellere realmente i trattenuti. Sull’irriformabilità dei CIE e dell’istituto della detenzione amministrativa ormai c’è una letteratura sterminata, che parla di esperienze totalmente fallimentari, anche prendendo per sensato lo scopo prefissato. La stampa di regime pompa questa come soluzione praticabile, qualche presidente di regione e qualche dirigente politico più avveduto coglie i rischi, altri invece declamano serenamente la possibilità di espellere come se nulla fosse chiunque non è ritenuto in diritto di restare sul territorio nazionale, senza neanche passare per i CIE e quindi per una approssimativa autorità giudiziaria. Ma gli accordi bilaterali per le riammissioni sono in gran parte fermi, il governo tenta di stipularne altri con paesi che però chiedono in cambio ingenti risorse, insomma il risultato sarà, come abbiamo già più volte denunciato, quello di aumentare inutilmente il numero dei “clandestini”. Certo si potrebbe garantire regolarizzazione a chi lavora al nero e colpire i datori di lavoro con sanzioni pesanti, esistono gli strumenti giuridici per farlo, ma questo danneggerebbe l’economia sommersa, tanto preziosa e il consenso di chi governa o aspira a governare e quindi non se ne fa nulla.
L’allarme continua: se il ministro parla a cuor leggero di “immigrazione incontrollata”, il Capo della Polizia dice tranquillamente «Non illudiamoci. L’ISIS prima o poi colpirà anche l’Italia». Come a dire che il necessario lavoro di intelligence, su cui sembra si scarseggi, anche nell’affrontare la criminalità organizzata è in fondo poco utile. L’attentato prima o poi ci sarà ma intanto concentriamo le forze sugli immigrati irregolari. Si dice ovviamente che non bisogna confondere immigrazione e terrorismo ma, almeno da quanto trapela, per affrontare un problema serio come il terrorismo si pensa sia sufficiente dare la caccia a chi non ha i documenti in regola. Ed è strano e andrebbe spiegato meglio alla cittadinanza il modo di procedere delle forze dell’ordine incaricate di affrontare la minaccia jhadista. Da una parte ci sono stati arresti e ci sono processi in corso verso persone accusate di essere vicine ad ambienti pericolosi. Dall’altra ci sono state 134 espulsioni di persone accusate di simpatie jihadiste. Le cronache dei giornali riportano per queste espulsioni le notizie che fuoriescono dalle questure. Ad un osservatore esterno verrebbe da dire che per talune persone varrebbe la pena fare indagini accurate e cercare i collegamenti, se ci sono, a reti nazionali o internazionali. Invece li si rispedisce con clamore a casa per dimostrare che il paese è sicuro. A detta di quanto esce dai giornali, basti pensare all’ultimo caso in ordine di tempo, alcune accuse si fondano su “deliranti” frasi scritte sul profilo facebook. Beh è quantomeno bizzarro che chi vuole distruggere l’occidente sia così sprovveduto da lanciare i propri appelli su una piattaforma così facilmente intercettabile. Ma, ripetiamo, vogliamo rispettare il lavoro di indagine che ci auguriamo sia più approfondito. E da notare intanto come, in questa sarrabanda di dichiarazioni, si mescolino situazioni fra loro diversissime, persone appena arrivate in attesa di asilo e chi è qui da tanti anni e non ha più neanche un paese in cui tornare, nati in Italia, persone che attraversano momenti di difficoltà e persone finite in circuiti di devianza per cui evidentemente non vale l’articolo 27 della costituzione.
Insomma l’immagine che stampa e tv stanno oggi accreditando – e non solo i social network – è quello di un Paese in pericolo, sull’orlo di una crisi di nervi, per citare il noto regista. e in cui non si prospettano che soluzioni di carattere repressivo già sperimentate, con fallimento, nel passato. E il rischio è che la profezia si autoavveri. Far montare il terrore è facile, spegnerlo, spesso, costa lutti. Nessuna esperienza sembra aver fatto breccia nei responsabili politici e neanche nella pubblica opinione. Basti leggere, come già si diceva, i beceri commenti che seguono articoli, a volte anche condivisibili che escono su qualche giornale vagamente progressista, per percepire una rabbia sorda e misera che a volte si cela nell’anonimato altre volte non ha paura di mostrarsi con nome e cognome.
E basti guardare una giustizia che si mostra sempre più forte con i deboli e debole con i forti. Nel primo caso le intenzioni reiterate di abrogare il diritto al ricorso a coloro cui viene negato il diritto d’asilo.
Poi accade – avvenimento trattato con folklore – che il Comandante della Polizia Locale di Biassono (Monza e Brianza) si faccia fotografare con una divisa da maggiore delle SS e dichiari serenamente: «Così potremmo sistemare le cose». Verrà, da quanto si apprende, forse degradato ma resterà in forze, in divisa, ad amministrare la legge e a relazionarsi con i cittadini, anche quelli di cui non gradisce la presenza. Ed è solo un caso: a destra si combatte una strenua lotta per conquistare il posto di più affidabile “nemico degli immigrati invasori”, ci sono i gruppuscoli di fascisti del terzo millennio, leghisti, destre più o meno rispettabili e leader del M5S che rinfocolano gli animi con la logica del “cacciamo il nemico interno”, senza che si manifestino serie risposte politiche di senso inverso. E non sono le manifestazioni sparute di certi gruppuscoli a spaventare quanto l’indifferenza, a volte le giustificazioni che vengono fornite a simili chiamate all’odio. Sotto sotto si sente dire: «In fondo hanno ragione a protestare contro “l’invasione degli immigrati”.
E qui forse il primo punto nodale su cui vale la pena fermarsi. Se sui social network la rabbia è potuta esplodere senza limiti questo deriva dal fatto che, ormai per decenni, la stampa ufficiale, ha di fatto dato spazio, voce, legittimità agli allarmi e a chi li lanciava in maniera spesso unicamente strumentale evitando scomode spiegazioni. Per tanti anni, confinare l’immigrazione unicamente nei fatti di cronaca nera ha consentito la crescita di un humus profondo, che si è radicato anche in molte coscienze progressiste. Lo sdoganamento del razzismo è avvenuto istituzionalmente e mediaticamente, spesso unicamente per fini politici, altre volte come risultato di una assenza strutturale di risposte propositive da dare a chi si vedeva la società cambiare sotto gli occhi. Ma è avvenuto anche fra le “autorevoli voci più democratiche” come negli interstizi delle pagine locali tese a dare l’immagine di città prese d’assalto da orde di stranieri venuti per rubare tutto il bene che spetta innanzitutto agli autoctoni. Non c’è stata capacità e volontà di svolgere un ruolo educativo, non rassicurante ma semplicemente utile a fornire gli strumenti necessari a comprendere i mutamenti. E se per un anno, forse due, i drammi del Mediterraneo con le migliaia di vittime delle leggi repressive, come le lunghe file di esuli da paesi in guerra, hanno provocato un lieve mutamento emotivo, il malessere ha continuato a covare. Legare la crisi economica e sociale a questi mutamenti, è stato un gioco facile per i fabbricanti di paura che non hanno trovato che scarsa opposizione. Oggi ci si straccia le vesti, magari commuovendo con la pubblicazione dell’ennesimo bambino morto sulla spiaggia o proponendo i “lavori socialmente utili” a costo zero per far accettare i richiedenti asilo. Ma dura poco. Inutile prendersela con l’hate speech dei social quando non si prova a ricostruire un senso e una ragione capace di ricomporre ciò che una pessima narrazione ha imbarbarito. In questa maniera perdono di credibilità ormai anche gli stessi mezzi di comunicazione che non affrontano i temi per quello che sono. Prevale una rabbia che è anticamera di fascistizzazione del pensiero, prevalgono paure o, peggio ancora, quelle zone grigie e silenziose in cui tutto può accadere. Ed è sufficiente un allarme isolato, come l’uccisione di quello che ormai è considerato il responsabile dell’attentato di Berlino, un uomo arrivato 6 anni fa proprio a Lampedusa, per riportare indietro le lancette dell’orologio e richiamare ancora una volta, in maniera istituzionale, alla caccia all’uomo, fondata unicamente sul possesso o meno di un permesso di soggiorno.
Ma Italia ed Europa sono solo questo?
Accade anche altro ma evidentemente, utilizzando il linguaggio giornalistico, si tratta di cose “meno notiziabili”. Così come ormai non si dedicano più spazi ai naufragi nel Mediterraneo – servono numeri ancora più spaventosi per riaccendere i riflettori – si ignora una parte del Paese e del continente che reagisce in maniera diversa, migliore. Persone, spesso, ma non solo, giovani, ignorati dalla stampa ma seguiti bene da chi dovrebbe garantire la “nostra sicurezza”. Sono quelli che commettono il “reato di solidarietà”, ovvero garantiscono beni di prima necessità, informazioni, servizi, protezione, calore umano, in cambio di nulla a chi dovrebbe essere invece cacciato. Accade che a Udine si venga perseguiti per aver portato the caldo e spiegato come si chiede asilo a persone lasciate in mezzo ad una strada dalle istituzioni preposte. Accade che a Pordenone i compagni di Rifondazione Comunista decidano di aprire la propria sede per ospitare 9 richiedenti asilo rimasti al gelo, perché nesun altro interviene per garantire la loro, di sicurezza. Accade che a Roma, di fronte all’assenza cronica dei servizi sociali, le persone comuni garantiscano assistenza ai migranti che erano al Baobab e che attendono ancora adeguata sistemazione. Poche persone per cui l’opulenta capitale non dà risposta. Del resto la grande potenza mondiale, quando si tratta di persone in condizioni di disagio non fa differenza di nazionalità. In 72 ore sono morte 8 persone per il freddo di questi giorni e per la povertà a lungo covata e su cui non si è mai intervenuto. Tanti invece hanno trovato aiuto quasi esclusivamente grazie agli impegni di volontariato laico e religioso, scarse le risposte istituzionali che oggi invocano la sicurezza e la “tolleranza zero”. E ti senti dire a volte, da chi resta fermo e inattivo, che c’è anche la paura ad aiutare. Il timore di invischiarsi. Si perché se ad esempio si aiutano coloro che sono alla frontiera in attesa di andarsene dall’Italia, come a Ventimiglia, partono i “fogli di via”alcuni per fortuna recentemente revocati dal TAR, anche in 16 comuni limitrofi. Pericolosi evidentemente coloro grazie a cui si deve la salvezza di molti e molte. Peccato che in quella strada, che dall’Italia porta alla Francia, più di una persona priva di aiuto, abbia perso la vita investita da treni, tir, automobili. Ma chi aiuta i profughi commette un “reato”, favorisce la loro presenza e il loro transito, meglio quindi chi volta le spalle. E accade una vicenda simile a Como, dove da tempo la stazione e l’area antistante è punto di passaggio per chi tenta di andare in Svizzera. Chi arriva lì ha bisogno di aiuto, ha ricevuto spesso solo risposte repressive e chi ha provato a solidarizzare, chi si è messo a disposizione per fornire generi di prima necessità ha incontrato il pugno duro delle istituzioni, 16 fogli di via e il divieto per un anno di passare nel territorio della provincia, emanati nei confronti di cittadini italiani e svizzeri.
Ma accade anche oltre confine. Due gli episodi in Francia più recenti: un contadino di 37 anni, è divenuto per molti un eroe per altri un simbolo di disordine e disobbedienza all’ordine costituito. Si chiama Cédric Herrou ora è libero ma il 10 febbraio lo attende un processo. È accusato di aver aiutato minori, donne e uomini senza permesso, gratuitamente, ad attraversare la frontiera francese e di aver offerto loro ospitalità. «Non potevo lasciarli così ha detto semplicemente». E poi un riceratore, Pierre – Alain Mannoni, non un militante antirazzista ma un uomo di accademia che ha semplicemente deciso di commettere il “reato di soccorso” e che per questo è stato prima pesantemente punito e solo recentemente assolto. E poi Calais, Lesbo, i luoghi più impervi in Serbia, Macedonia, persino Ungheria, dove accanto alle bande paramilitari che davano – quando funzionava la Balkan Route – la caccia con i cani ai fuggitivi, c’erano persone che si schieravano, spesso isolate, dalla parte dei vulnerabili. Lo spiega bene Ilaria Sesana, giornalista da tanti anni attenta a queste dinamiche il perché di tanto accanimento e ne parla a lungo nell’ultimo numero di Altraeconomia, (n 189, gennaio 2017) «La mappa dei delitti di solidarietà si allarga su buona parte dell’Europa -scrive – e, in molti casi, coincide con quella delle emergenze legate all’accoglienza o al transito dei richiedenti asilo”. Esiste addirittura una direttiva europea che mira a punire chi osa aiutare troppo gli immigrati senza permesso di soggiorno: è la “Facilitation directive” del 2002. “Un testo stringato, una pagina e mezza appena, in cui si afferma il principio secondo cui chiunque aiuti un migrante irregolare ad entrare in Europa o durate il suo viaggio all’interno dei confini dell’Unione sta violando la legge”. Gli Stati potrebbero, però, introdurre nel loro ordinamento la “clausola umanitaria”, che metterebbe operatori e volontari al riparo dal rischio di finire sotto processo, ma non lo fanno».
Jennifer Allsopp, autrice di un’analisi sui reati di solidarietà in Francia, afferma giustamente che soltanto se almeno una parte della società civile si ponesse l’obiettivo di creare una sorta di rete di protezione sociale attorno agli attivisti solidali, la loro criminalizzazione potrebbe essere quantomeno arginata. Ma qui tornano in ballo i grandi attori: l’informazione, la politica, i governi ma anche le forze sociali e i corpi intermedi che ancora rimangono. Ci si deve schierare e non per puro solidarismo o perché si è – come spesso si viene accusati di essere – “anime belle”. Ma semplicemente perché il futuro dell’Europa e dei paesi che la compongono dipende anche dalla capacità di includere, costruire relazioni, ridefinire i rapporti con il resto del mondo. Bisogna divenire capaci di dire no a barriere ingiuste a leggi inutilmente repressive, alla costruzione di un mondo basato sul conflitto verso l’altro, il più vulnerabile, lo sconosciuto, il potenziale concorrente. Altrimenti si è condannati ad una guerra permanente che vedrà vincere solo chi da queste guerre trae da sempre immondo profitto.
Stefano Galieni