La sollevazione è generale. Violenta e non violenta, afroamericana e non, di uomini e donne. La protesta è condivisa, la rabbia non è la stessa per tutti. Perché i due fili che si intrecciano sono soprattutto la rabbia per il ripetersi degli omicidi di afroamericani e l’esasperazione per una condizione sociale precipitata drammaticamente negli ultimi mesi.
Anche i modi sono sempre gli stessi: a terra con un ginocchio sul collo – George Floyd a Minneapolis nel 2020 come Eric Garner a New York nel 2014 – o colpi d’arma da fuoco, come il giovane Ahmaud Arbery che si diverte correndo in strada in Georgia nel 2020 e il piccolo Tamir Rice che si divertiva giocando nel parco a Cleveland nel 2014 (e Breonna Taylor a casa sua a Louisville, Kentucky, nel 2020 come Michael Brown in strada a Ferguson, Missouri, nel 2014…).
L’elenco, a farlo, sarebbe insopportabilmente lungo.
È in risposta a questa insensata brutalità repressiva che viene, quando esplode, la rivolta più distruttiva. «Occhio per occhio» era scritto su uno dei cartelli illuminati dalle fiamme di uno degli incendi: stazioni di polizia devastate e incendiate, macchine incendiate, negozi saccheggiati.
E quindi repressione di forze di polizia militarizzate, di Guardia nazionale e di esercito, in allerta a Minneapolis, a Detroit e altrove: «Quando cominciano i saccheggi, si comincia a sparare», ha scritto con altrettanta brutale sincerità Donald Trump (la stessa con cui Ronald Reagan aveva invocato un «bagno di sangue» contro il movimento più di mezzo secolo fa).
Quella di oggi non è solo una rivolta disperata. Non soltanto perché ora pressoché ovunque, in tutte le città, intorno alla protesta si è formata una composita corona di solidarietà politica e largamente non violenta. Sufficientemente rappresentativa da non potere essere ignorata (né ridotta a «delinquenti», nelle parole di Trump) e grande da accerchiare la Casa Bianca, costringendola al lockdown. È stato il crescere di tutte le mobilitazioni anti-Trump dei tre anni precedenti che ha innalzato la sensibilità sociale, dando ora forza e convinzione a questa solidarietà.
Dallo scorso marzo a oggi – questo è il secondo filo – la crescita drammatica della disoccupazione ha investito la comunità afroamericana, la più colpita dal coronavirus.
Il prolungato disinteresse di Trump per la minaccia della pandemia, nonostante le lezioni che si potevano trarre dagli altri paesi, e le sue incoerenti decisioni ed esternazioni hanno avuto effetti devastanti.
Tutte le rilevazioni mostravano che gli afroamericani erano i più colpiti dal contagio (anche nelle carceri, dove sono la stragrande maggioranza) e a molti di loro è sembrato che parte di quel disinteresse fosse dovuto al fatto che «intanto sono soprattutto loro che se ne vanno».
Poi, ad aprile, si è aggiunta la crescita verticale dei licenziamenti, che in meno di due mesi ha portato oltre 40 milioni di persone a perdere il lavoro. Tra questi la percentuale di afroamericani e latinoamericani, uomini e donne, è stato sproporzionatamente alto. Molti di loro non hanno risparmi accantonati e, perdendo il lavoro, hanno perso anche le coperture assistenziali che arrivavano tramite il datore di lavoro. La crisi che hanno subito è stata doppia.
Non tutti i licenziamenti saranno definitivi, si dice, e probabilmente sarà così. Con la ripresa, una parte saranno riassunzioni, ma molti posti di lavoro – sia nuovi, sia tra quelli che non sono stati cancellati – saranno a tempo parziale e a salari più bassi di prima.
I lavoratori e le lavoratrici dei fast food rischiano di perdere le conquiste salariali che avevano ottenuto con le lotte degli ultimi anni, come i 15 dollari di paga oraria. Lo stesso vale per quelli e quelle che nel commercio, nella ristorazione, nell’edilizia, nelle manifatture, nelle consegne erano riusciti a strappare condizioni di lavoro migliori e in qualche caso la sindacalizzazione.
Gli assunti e le assunte negli ospedali e negli istituti di cura – anche negli Stati Uniti salutati come gli «eroi del Covid 19» – hanno già cominciato a essere lasciati a casa, dove il contagio si è attenuato.
Tutti questi sono i settori a più alta occupazione afroamericana e ispanica, quelli in cui le lotte salariali e per la sindacalizzazione sono state condotte con maggiore determinazione (anche in questi mesi hanno dato vita a significative forme di resistenza, in particolare nei luoghi di cura).
Del resto, i maschi neri sono da decenni la componente di lavoratori più sindacalizzata e le donne nere e ispaniche sono state le protagoniste delle rivendicazioni degli ultimi anni. Sono questi i primi a essere licenziati e non più assunti. Ma proprio la determinazione con cui hanno lottato negli anni recenti ha dato anche ora a molti di loro la motivazione necessaria per indirizzare la loro rabbia, coniugando l’inaccettabilità dell’ennesimo insulto razziale con l’insopportabilità della propria condizione sociale.
Non sono loro i giovani al centro delle azioni di fuoco, ma come in tutte le resistenze sono il retroterra necessario per dare peso politico, fare coalizione e tenere la barra del movimento.
Bruno Cartosio
da il manifesto