La propaganda mediatica portata avanti dalle istituzioni che mostrano un’immagine semplificata delle persone straniere: un unico indistinto fatto di persone ai margini, criminali, di cui sospettare, avere paura e da tenere lontane.
di Cronache di ordinario razzismo
Una settimana fa è diventato virale un video in cui un ragazzo con background migratorio viene aggredito, accusato di aver rubato una collana. Gli aggressori appartengono al cosiddetto Movimento articolo 52, un gruppo organizzato fatto di giovani – spesso minorenni – che nella città di Milano e anche in altre parti d’Italia, in nome del “contrasto al degrado” e alla microcriminalità, compie delle vere e proprio ronde definite principalmente dalla stampa come “anti-maranza”.
Il termine “maranza” viene usato per definire in maniera dispregiativa i giovani originari del maghreb, come sinonimo di un certo tipo di criminale. Non è la prima volta che gruppi si organizzano per “proteggere” i quartieri, denunciando l’inefficienza dello Stato. A Roma lo youtuber Er Cicalone filma e diffonde video in cui – insieme ad altre persone – ferma, anche con violenza, borseggiatrici Rom alimentando il dibattito sulla “percezione” di insicurezza che secondo alcuni sarebbe diffusa tra i cittadini.
Cosa ci racconta tutto ciò? Viviana Gravano in Dis-cordare, ricerche artistiche sull’eredità del fascismo in Italia (2024), a partire da Walter Benjamin, nota come la memoria collettiva si accende e dà significato alla sua storia nel momento in cui sorge un’urgenza. Nella settimana in cui i riflettori si accendono sul razzismo, in occasione della giornata contro la discriminazione “razziale” del 21 Marzo, non sembra che il momento attuale, fatto di violenza contro persone di origine straniera, proponga una riflessione collettiva seria e organica sugli effetti del razzismo sistemico. Questi stessi episodi di violenza organizzata, sbattuta sui social nella speranza che ci sia un effetto emulazione, vengono raccontati come anomalie, come casi isolati, nonostante siano un prodotto di diversi fattori, tra cui il razzismo nella sua dimensione strutturale.
Il razzismo sistemico
Come abbiamo ricordato più volte, il razzismo è costituito da «ogni teoria, ideologia, idea, atteggiamento, dichiarazione, atto e comportamento che hanno la finalità di legittimare, incitare, istigare o compiere discriminazioni, abusi, molestie, minacce, violenze verbali o fisiche nei confronti di individui o di gruppi assumendo a pretesto la loro origine nazionale o etnica, le convinzioni e pratiche religiose oppure i tratti somatici, la differenza “culturale” reale o presunta». Da questa definizione e a partire dalla postura che il concetto di razzismo ci fa assumere, non possiamo che guardare quegli episodi sopracitati non come un’anomalia, ma come un qualcosa di drammaticamente ordinario e frutto di dinamiche sociali, strutturate e sistemiche. Lo stesso razzismo è strutturale e sistemico in quanto si dipana in vari contesti sociali a partire dalle nostre interazioni, il nostro linguaggio, i modi di dire, le rappresentazioni, le narrazioni fatte da media tradizionali e infine nei vari livelli delle istituzioni, intrecciandosi ad altre forme di disparità sistemiche come il sessismo, il classismo, l’omolesbobitransfobia e l’abilismo.
La presenza del razzismo sistemico, radicato ovunque non può non interrogarci sul radicamento culturale che il discorso e l’immaginario razzista hanno prodotto. Come anche denunciato nell’ultimo rapporto Ecri di cui abbiamo parlato lo scorso autunno, il carattere sistemico del razzismo si evince in particolar modo nella propaganda mediatica portata avanti dalle istituzioni che mostrano un’immagine semplificata delle persone straniere: un unico indistinto fatto di persone ai margini, criminali, di cui sospettare, avere paura e da tenere lontane. Una retorica martellante che ha irrimediabilmente influenzato il senso comune di moltissime persone. Ciò crea progressivamente una serie di fratture all’interno del tessuto sociale, con il risultato di isolare e marginalizzare sempre di più le persone di origine straniera o razzializzate dai contesti di riferimento, acuendo il senso di sospetto e di insicurezza da parte delle persone “italiane autoctone”. Sono semplici parole che dette da chi ha potere – di informazione o di dettare l’agenda del dibattito politico – possono cambiare la percezione dello stato delle cose, indipendentemente da come esse siano nella realtà. E’ così che il “pericolo” viene incarnato da persone in realtà fragilizzate, creando un silente e incosciente consenso attorno ad una serie di dispositivi normativi che non fanno che perpetuare ulteriori forme di razzismo, in questo caso istituzionale.
Razzializzazione della criminalità
Ma cosa si nasconde in questa risposta violenta di una parte della società? Forse uno degli effetti più immediati del razzismo sistemico, e da cui sale quell’urgenza nell’attuale di riflettere e agire sul presente, è la razzializzazione della criminalità, in particolare la cosiddetta microcriminalità. Per razzializzazione della criminalità si intende quel fenomeno che tende a veicolare l’idea secondo cui a compiere principalmente determinati reati – da quelli minori come scippi e spacci fino a quelli più gravi come aggressioni e stupri – sono soprattutto le persone migranti. Più volte abbiamo problematizzato il binomio radicato migrante=criminale, ma la nuova fase sociale e politica in cui il discorso egemone si fa sempre più esplicitamente razzista ci richiede un’ulteriore analisi e una risposta urgente al sorgere della violenza. Quando un ministro dichiara che bisognerebbe togliere la cittadinanza a chi compie reati, un giornalista afferma che aggredirebbe i musulmani poiché propensi alla violenza, o una presidente del consiglio – all’epoca dei fatti in campagna elettorale – rende pubblico un video di uno stupro, non si sta dando semplicemente un’opinione o facendo informazione. Si sta ipostatizzando un’immagine e quell’immagine razzializza un fenomeno giocando – ancora una volta – sulle cosiddette percezioni di sicurezza e sul senso di paura.
In una ricerca di Ipsos del 2018 nell’ambito del progetto More in Common (qui il report) che analizza l’atteggiamento degli italiani nei confronti delle migrazioni, emerge come i segmenti delle persone più preoccupate per la sicurezza siano quelli che in realtà hanno meno a che fare con le persone migranti nella propria quotidianità. Quell’assenza di relazione permette di far sedimentare l’idea che le persone di origine straniera siano criminali e – come non di rado succede – può far esplodere le tensioni che si creano in forme di violenza più o meno organizzata da parte della cittadinanza.
Purtroppo, spesso questa escalation di violenza si presenta in concomitanza con una stretta istituzionale sulla sicurezza, come stiamo vedendo con il cosiddetto DDL Sicurezza e l’istituzione delle Zone Rosse. Anche in questo caso, questi dispositivi normativi che vanno a ledere i diritti di tutte le persone, trovano facile consenso poiché sono presentati come strumenti di contrasto contro chi genererebbe insicurezza e criminalità: le persone di origine straniera.
Il razzismo sistemico alimenta sé stesso riempiendo le fratture del tessuto sociale e degli immaginari collettivi. Il 21 Marzo del 2025 arriva su uno sfondo inquietante, mentre si moltiplicano gruppi su Telegram che hanno lo scopo di colpire una determinata categoria di persone: questo attuale, questo presente chiama l’urgenza di praticare un antirazzismo sistemico, non attraverso la semplice retorica della singola giornata, ma a partire dalla quotidianità riempiendo con le relazioni, l’informazione e il pensiero critico quegli spazi oggi sin troppo colmi di paura, insicurezza indotta e violenza.
Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000
News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp