Referendum in Catalogna. L’onda lunga della ragion di Stato in quattro scene (Atto I)
Al peggio non c’è mai fine, e tante volte lo si può prevedere dalla banalità di alcuni atteggiamenti, soprattutto se ad assumerli sono persone di poco spessore politico e inettitudine retorica come Mariano Rajoy, attuale Presidente della Spagna. Già dalle ventiquattro ore successive all’attentato del 17 agosto di Barcellona, il Partido Popular locale, con richiami nazionali, cominciava a collegare l’accaduto con il tema dell’indipendentismo. Da qui si è data una spirale di decisioni progressivamente più gravi.
Nell’ultimo mese abbiamo visto tutti i passi conseguenti l’uno all’altro che il governo centrale di Madrid ha compiuto per soffocare il referendum sull’indipendenza della Catalogna previsto il primo di ottobre. È bene ricordare che l’indipendentismo della regione, al di là delle sue molteplici e variegate sfaccettature, viene da una lunga storia che si interseca con la conquista spagnola, la dittatura di Franco, infine con lo stato di regione autonoma che ha la Catalogna. Il rapporto tra Barcellona e Madrid contiene in sé dei semi di storia che non possono essere semplicemente lasciati sotto terra, perché in qualche maniera continueranno a crescere e germogliare, sorgendo di nuovo alla luce. La questione non tocca soltanto cosa si pensi politicamente dell’indipendentismo, come lo si declini, eccetera.
È un argomento politico e come tale va trattato, lo ricorda la sindaca di Barcellona Ada Colau. Serrare la comunicazione, ergere muri, soffocare la volontà di un popolo di andare a votare, compromettere lo Stato di diritto facendo sovrapporre i suoi vari potere (esecutivo e giudiziario), è la maniera giusta per evitare di affrontare politicamente la questione e cercare di nasconderla. Sperando che piano piano le persone si dimentichino di tutto. Ma dopo oggi questo non accadrà; anche perché gli arresti e le indagini aperte dalla Guardia Civil sono solo la punta dell’iceberg, come dicevamo. Procediamo con ordine.
Scena I. Il Parlament de Catalunya, l’organo legislativo della regione autonoma, approva la legge sulla transizione e sul referendum del primo di ottobre. Il governo centrale fa ricorso tramite il Tribunale Costituzionale, che ne accetta (a parte l’accusa personale a Puigdemont, Presidente della Catalogna) i punti e impone l’illegalità costituzionale del referendum basandosi sulle sentenze emesse dallo stesso organi nel 2015. Già a fine del 2016 il Tribunale Costituzionale (votato dal PP) avvertì la Presidentessa del Parlament Carmen Focardell e Puigdemont dell’impossibilità di portare a termine il processo di consultazione popolare al riguardo dell’indipendenza. Per la Costituzione spagnola aprire un nuovo processo costituente all’interno di un Paese che detiene la sua sovranità significa minare i suoi principi fondamentali, nonché l’unità del Paese. Ciononostante, nelle ultime elezioni regionali si è vista affermare una coalizione di governo, chiamata Junts pel Sì (“Uniti per il Sì”), composta da forze politiche di destra e di sinistra. L’unico obiettivo di questa estremamente eterogenea coalizione è fare della Catalogna uno Stato indipendente, o almeno chiamare il popolo cittadino affinché si esprime su questa possibilità. Se non possiamo fare affidamento sui numeri statistici per capire quanto sia diffuso l’orientamento indipendentista, sicuramente è inequivocabile che sia un tema centrale su cui molti catalani e catalane vogliono mettere un punto. Mariano Rajoy e il PP sembrano dimenticarsi di tutto questo e partono all’attacco sfoderando la carta del potere giudiziario.
Scena II. Con l’avvicinarsi dei giorni alla data del primo d’ottobre, la dose viene rincarata. La Fiscalía General del Estado – un organo eletto dal governo, dal re e dal Consiglio del potere giudiziario –, ordina ai sindaci catalani che si sono dichiarati a favore del referendum di presentarsi nelle sedi locali dell’istituzione per essere interrogati sul merito. Aggiunge, inoltre, che in caso i sindaci siano disponibili a facilitare l’organizzazione del momento referendario, questi potranno essere accusati di prevaricazione, disobbedienza e malversazione. Negli stessi giorni una petizione del governo spinge il Tribunale Costituzionale a predisporre delle sentenze cautelari che implicano la messa sotto accusa dei responsabili dei collegi elettorali, in caso inizino a lavorare per la realizzazione delle votazioni. In ultimo, la Fiscalía allerta tutti i corpi di polizia locale (Mossos d’Esquadra) del loro obbligo di sospendere qualsiasi attività inerente il referendum. Nonostante la lettera inviata al re Felipe VI e a Rajoy da parte di Colau, Piugdemont, Forcadell e Junqueras (Vicepresidente del governo catalano) perché si potesse iniziare di nuovo a parlare di politica in rapporto al referendum, cioè stabilendo un dialogo con alla base le richieste popolari, il governo centrale ha continuato a fare il suo: chiudere gli occhi e andare avanti come un trattore.
Scena III. L’esecutivo di Rajoy produce in fretta e furia un disegno di legge in cui si stabilisce il sequestro dei conti pubblici della Generalitat della Catalogna. Madrid è pronta a farsi carico delle spese pubbliche dei settori essenziali (istruzione, sanità, trasporti, ecc) a patto che Barcellona congeli tutte le sue voci di spesa del bilancio che riguardano altri settori. In poche parole, Rajoy vuole chiudere i rubinetti a una delle regioni più ricche della Spagna a cui di certo non mancano le risorse economiche per organizzare la consultazione di ottobre. Così facendo la Catalogna potrebbe finire con il sostentarsi soltanto grazie ai fondi nazionali previsti dallo statuto dell’autonomia, e se volesse fare qualche spesa, avrebbe l’obbligo di chiedere permesso all’esecutivo. Un controllo che inizia a farsi sempre più simile ad un cappio al collo delle istituzioni locali, svuotate di legittimità politica e di risorse.
Scena IV – Ieri (mercoledì 20 settembre) una grande operazione di polizia (nazionale) provoca l’arresto di 14 persone e l’iscrizione sul registro degli indagati altre 41 perché sospettate di promuovere la celebrazione illegale del referendum del primo di ottobre; due tra gli arrestati saranno poi rilasciati in libertà in serata. Le forze dell’ordine sono entrate nei palazzi dell’assessorato catalano all’Economia, agli Affari Esteri e al Sociale, oltre che nella sede del Centro delle Telecomunicazioni della Generalitat. L’operazione, autorizzata da un giudice, include l’arresto di funzionari e personaggi politici legati a queste istituzioni, nonché di due persone del mondo imprenditoriale coinvolte a seguito del sequestro di dieci milioni di schede elettorali trovate in una nave a Barcellona. Gli agenti della Guardia Civil continuano a occupare gli spazi dell’assessorato all’Economia fino a tarda notte. Nel momento in cui si diffondono le notizie della grande repressione appena messa in campo, migliaia di persone iniziano a presidiare l’assessorato occupando tutto il giorno la Rambla de Catalunya, organizzando fino a tarda notte comizi, interventi di personaggi politici, associazioni, imprese del mondo dello spettacolo. La reazione del popolo catalano, così come di molti spagnoli e europei, è attonita: Rajoy, dopo più di un mese di assedio costante sempre meno a bassa intensità, ha infine forzato la mano facendo vedere tutti i denti dell’autorità statale. Le istituzioni locali sono state ridotto ad un feudo di Madrid, così come è stat calpestato il mandato dell’elettorato. Moltissime reazioni sui social e sulle strade indicano infatti che la questione non rimane soltanto nel piano della scelta tra il Sì e il No, ma tocca il fondamentale diritto politico di decidere sul proprio futuro e di autodeterminarsi. Si tratta, né più né meno, delle garanzie costituzionali di qualsiasi democrazia occidentale.
Fino a tarda notte si fermeranno almeno 40.000 persone sulla Rambla de Catalunya, assediando gli agenti della Guardia Civil rimasti all’interno dei locali dell’assessorato; solo a tarda notte, con l’ausilio dei Mossos, gli agenti riusciranno ad andarsene tra cariche, lanci e manganellate ai manifestanti. Nello stesso giorno anche un presidio presso la sede della UAB (Universitat Autonoma de Barcelona) viene convocato. Dal pomeriggio e fino a sera, invece, un migliaio di persone si riunisce di fronte alla sede della CUP (Candidatura d’Unitat Popular) perché posta sotto minaccia di un’irruzione da parte della Guardia Civil. La CUP è uno dei partiti che più si è dedicato all’indipendenza, declinandola in un quadro di rivendicazione sociale per una democrazia radicale e la redistribuzione della ricchezza. In tutta la Spagna, da Madrid a Valencia, migliaia di persone si concentrano nelle piazze in sostegno al diritto di decisione del popolo catalano.
Se tutte queste scene costituiscono un lungo percorso di deterrenza, fino a sfociare nella nuda e cruda repressione, dalle prime avvisaglie sociali non si direbbe che stiano sortendo effetto. La mobilitazione, per quanto nella sua fase incipiente, ha coinvolto tutta quella parte di cittadinanza che vuole veder garantito un suo diritto. Democrazia significa permettere al popolo di potersi esprimere in delle forme determinate; per quanto formalmente la legge abbia proibito l’uso di questo strumento, le scene sopra descritte mostrano tutta l’arbitrarietà e la forzatura delle leggi stesse usate affinché il referendum perdesse tutta la sua efficacia. Del resto, il fatto che non tutte le leggi siano sinonimo di giustizia non è una novità. “Votare è sinonimo di democrazia quando è in accordo alla legge”, sostiene Rajoy nella sua conferenza stampa convocata in serata. Peccato che proprio lui, con tutto l’apparato legato al PP, abbia voluto rendere illegale un processo che non ha avuto alcuna gestazione estemporanea o fulminea, scavalcando qualsivoglia procedura legale. Concepire come democrazia la decisione univoca dello Stato centrale annichilendo le istituzioni di prossimità e diventando impermeabile ai desideri della cittadinanza; dichiarando illegali forme di consultazione popolare; cercando di sbarazzarsi del problema dell’indipendentismo una volta per tutte; corrisponde ad una mentalità autoritaria che solo vuole far risplendere il proprio potere. In questo momento l’incognita cade su quanto si voglia tirare la corda per permettere che risplenda, quanto si vuole andare avanti.
Indubbiamente, l’indignazione popolare che ha suscitato l’esecutivo non renderà vita facile alla repressione statale. Nei prossimi giorni sono già previste assemblee, presidi e manifestazioni contro la ragion di Stato timorosa di perdere una parte della sua grandezza nazionale. Nell’immediato futuro è quanto mai necessario che siano i movimenti e il desiderio di democrazia a scrivere l’atto II della tragicommedia di Rajoy.
Fabio Mengali