«Colpa di Cambridge». Invece che appuntare lo sguardo sui meccanismi che proteggono i carnefici dal finire davanti a un tribunale, in Italia si scatenano congetture. Avvezzo alla fiction noir, il pubblico ha sete di colpi di scena e Giulio viene spogliato della dignità di ricercatore che studiava – per l’appunto – la semplificazione autoritaria del conflitto sociale
‘Il genere di fiction che preferisco sono le elezioni egiziane’ – scrive l’architetto e umorista arabo Karl Sharro, riferendosi all’apparecchiatura elettorale che porterà il generale al-Sisi a celebrare la propria riproduzione con una corsa solitaria.
Il quadro mediorientale e mediterraneo evolve rapidamente: la regione viene riconfigurata dallo scontro in atto fra sauditi ed Emirati da un lato, Qatar e Turchia – e dunque la Fratellanza Musulmana – dall’altro. Il Sudan, tradizionalmente vicino all’Egitto, è passato al campo avverso, amico della Fratellanza: un segnale che preoccupa il Cairo anche perché prefigura un asse con l’Etiopia, con conseguenze sulla partita vitale delle acque del Nilo.
Persino il precipitare della crisi tunisina, questa settimana, porta traccia di questo scontro: Tunisi ha passato una legge di bilancio con tagli draconiani anche per restituire un grosso prestito al Qatar, mentre Abu Dhabi, iniziando con un travel ban alle donne tunisine sulla compagnia Emirates, esercitava pressioni per mettere fuori gioco a Tunisi il partito islamista Ennahda – affiliato alla Fratellanza.
Le pulsioni autoritarie che caratterizzano la risposta al riaccendersi del conflitto sociale in Tunisia segnano un tentativo nemmeno troppo coperto di mettere da parte la formula di governo inclusiva e condivisa seguita dall’unica democrazia sopravvissuta dalle primavere arabe del 2011.
Governi europei e Stati uniti non danno prova di scrupoli verso le semplificazioni autoritarie che si sono susseguite anche per effetto dello scontro in atto circa la natura e i termini dell’islamismo politico, a partire dal golpe militare che con il sostegno salafita portò al potere proprio al-Sisi, inaugurando la fase della reazione, come ben documenta Jean-Pierre Filiu nel recente ‘Generali, gangster e jihadisti: storia della contro-rivoluzione araba’ (La Découverte).
In Tunisia, la comunità internazionale detta l’agenda dell’aggiustamento di bilancio e del pacchetto austerità (che include misure poco comprensibili anche in chiave neoliberale, quali gli aumenti delle tariffe telefoniche): mentre prevedibilmente stenta a incoraggiare l’occupazione e un diverso patto di welfare, si prodiga ad assistere Tunisi sul versante militare e della sicurezza.
Così che, mentre combatte le brigate jihadiste nelle regioni remote di Kasserine, il governo dispiega l’esercito nelle strade contro i dimostranti. Fra le centinaia di arresti, alcuni leader dell’opposizione, anche se i comunicati del governo, ampiamente ripresi dai media italiani, enfatizzano la presenza di ‘jihadisti fra gli arrestati’.
Ma ci sono modi più sottili per non disturbare i nostri ‘partner strategici’ mentre sono impegnati a svuotare di senso e direzione la nozione di democrazia, assicurandosi il governo, reprimendo le rivendicazioni sociali, ed infine chiudendo la botola sui dissidenti.
Nel nostro piccolo, ci distinguiamo sempre: mi riferisco al coro politico-mediatico da standing ovation che ha accompagnato la notizia della perquisizione di cui è stata fatta oggetto la supervisor di Giulio Regeni a Cambridge.
A leggere i principali quotidiani italiani sembrava avessimo mandato le teste di cuoio a fare irruzione nel campus. La polizia inglese ha poi chiarito di aver agito su mandato italiano con piena collaborazione di Abdelrahman su ogni richiesta.
La notizia di una borsa intitolata a Giulio Regeni rende plausibile che ci sia stato un input di governo verso una linea di maggiore collaborazione. In questi due anni non sono mai stato tenero rispetto alla diffidenza e alla reticenza dell’ateneo britannico.
E tuttavia occorre far ricorso a parecchia condiscendenza per nascondere dietro alla farisaica formula ‘indagare a 360 gradi’ il dettaglio che Giulio è stato rapito, torturato e ucciso al Cairo, non a Cambridge. Le istituzioni di ricerca si avvalgono di comprensibili margini di autonomia, gli apparati di sicurezza no: eppure nello scenario di dinieghi e depistaggi egiziani, non si ha notizia di una sola perquisizione su mandato italiano in Egitto, dove si trovano gli assassini. Tutto ciò che abbiamo visto e appreso non lascia infatti ragionevole dubbio circa il coinvolgimento degli apparati di sicurezza egiziani.
Avanzamenti nell’inchiesta sono commisurati alla pressione che l’Italia sarà esercitare, e agli assestamenti degli equilibri interni del regime, che potrebbero prima o poi incrinare il patto di omertà. Ma ecco che invece che appuntare lo sguardo sui meccanismi che proteggono i carnefici dal finire davanti a un tribunale, notizia che per l’Egitto avrebbe ripercussioni ben più ampie del solo ‘caso Regeni’, in Italia si scatenano congetture che vanno alla ricerca di inneschi ed attenuanti, di una cornice di senso ed eccezionalità per tanto orrore, non volendone accettare la documentata quotidianità.
Avvezzo alla fiction noir, il pubblico ha sete di colpi di scena e di ‘l’avevo sempre sospettato’. Giulio Regeni insomma viene spogliato anche della dignità di ricercatore consapevole del lavoro che stava compiendo con competenza e professionalità, studiando – per l’appunto – la semplificazione autoritaria del conflitto sociale.
Mentre nel Sinai egiziano l’Isis opera con checkpoint a cielo aperto, dichiarando guerra ad Hamas (Fratellanza), nella narrazione mediatica mainstream autoritarismo e conflitto sociale vengono rimossi, e Giulio Regeni, che era più avanti nel comprendere la natura delle sfide, viene ridotto a giovane ignaro e vittima sacrificale di una oscura macchinazione.
Nelle insinuazioni più o meno esplicite che leggiamo su Maha Abdelrahman non c’è la sventolata ricerca della verità, né tanto meno il tentativo di non spezzare il filo della speranza di chi, a partire dagli assistenti legali dei Regeni, è finito nelle carceri egiziane.
Prende forma invece un triste cocktail: risentimento provinciale verso la ‘perfida Albione’, complesso di inferiorità verso Cambridge, senso di superiorità e invidia verso un’intellettuale egiziana, inquadrata con contratto precario in una prestigiosa istituzione. E, da ultimo, l’incapacità di capire che non stiamo servendo né verità, né giustizia, né democrazia, ma una fiction che ha per protagonisti dittatura e jihadismo.
da il manifesto