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Il regime detentivo speciale ex art. 41-bis o.p.: da misura cautelare a misura afflittiva?

Il contributo di Paola Altrui in occasione della presentazione del dossier “Repressione e diritto al dissenso

All’inizio di febbraio, il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha pubblicato un “Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex art. 41-bis dell’Ordinamento penitenziario”, contenente le risultanze delle 14 visite effettuate da tale organo collegiale, tra il 2016 e il 2018, presso le 12 Sezioni per detenuti in regime speciale previste dal predetto art. 41-bis.

In tali Sezioni risultavano detenuti 738 uomini e 10 donne; al 19 gennaio del 2019, solo 363 su 748 di essi – di cui 4 donne – avevano una posizione giuridica definitiva (erano cioè stati condannati con una sentenza penale passata in giudicato); 51 di esse risultavano detenute in “Aree riservate”.

Il Rapporto reca 18 Raccomandazioni in ordine ad altrettanti profili di criticità riscontrati; esse tengono conto, fra l’altro, delle pronunce della Corte costituzionale che hanno riguardato l’art. 41-bis e delle prescrizioni impartite in materia dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura (CPT), della quale lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, Mauro Palma, ha fatto parte fino al 2011.

È bene ricordare che la Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, ha ritenuto il regime detentivo speciale ex art. 41-bis non incompatibile con i principi costituzionali in materia di diritti fondamentali della persona (art. 2), di inviolabilità della libertà personale (art. 13) e di finalità rieducativa della pena (art. 27) a due precise condizioni:

  1. che nessuna misura sospensiva dell’ordinario trattamento penitenziario (quale l’art. 41-bis) comporti restrizioni della libertà ulteriori rispetto a quelle derivanti dalla detenzione;
  2. che, in ogni caso, la relativa applicazione non determini mai la violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti, ovvero vanifichi la finalità rieducativa della pena.

È importante tener presenti tali presupposti perché è proprio l’eventuale conflitto con gli stessi, empiricamente verificato, a chiarire se ed in quali casi una misura cui è assegnata una funzione asseritamente cautelare assolva, in realtà, ad una finalità ulteriormente —ed illegittimamente— afflittiva nei confronti del detenuto.

Il regime detentivo speciale noto come “41-bis” nasce nel 1995 come misura emergenziale e provvisoria, al fine dichiarato di impedire che i capi e i gregari delle associazioni criminali possano continuare a svolgere, ancorché in stato di detenzione, funzioni di comando e direzione rispetto ad attività criminali poste in essere da altri criminali in libertà.

Nella formulazione originaria, pertanto, era prevista la sospensione temporanea del trattamento detentivo ordinario “quando ricorrano gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza”; tuttavia, dopo una serie di proroghe, nel 2002 il 41-bis è entrato a regime nell’Ordinamento penitenziario, trasformandosi pertanto da misura straordinaria in istituto ordinario.

Tale normalizzazione ha trovato uno straordinario —e probabilmente calcolato— supporto nella valenza simbolica assunta presso l’opinione pubblica dal c.d. “carcere duro”, quasi che dichiararsi a favore o contro di esso implicasse, per ciò solo, lo schierarsi contro la criminalità organizzata ovvero il non prenderne sufficientemente le distanze. Plausibilmente, è proprio la difficoltà di ricondurre la trattazione del tema su un piano razionale a rendere arduo e impopolare ogni tentativo di affrontarne le ricadute sul versante della legittimità: ne ha fatto le spese lo stesso Presidente dell’Autorità Garante, il quale, a seguito della pubblicazione sulla pagina Facebook “Polizia penitenziaria – Società, Giustizia e Sicurezza” di un articolo che richiamava alcune criticità da lui evidenziate nel Rapporto sul regime detentivo speciale del 41-bis, è divenuto bersaglio di minacce e intimidazioni.

Tra le prassi carcerarie rispetto alle quali l’Autorità Garante ha formulato specifiche Raccomandazioni troviamo, a titolo esemplificativo: la presenza di sezioni o raggruppamenti costituiti da meno di tre persone detenute (n. 3); la ritardata esecuzione dei provvedimenti della Magistratura di sorveglianza (n. 7); l’apposizione di schermature stratificate alle finestre, sì da ridurre al minimo il passaggio di luce e aria fresca (n. 8); l’irrogazione di misure disciplinari ai detenuti che salutino un’altra persona ristretta chiamandola per nome (n. 12); il ricorso eccessivo alla misura dell’isolamento (n. 13); la concorrenza fra il tempo destinato alla lettura per mezzo del computer fisso e quello riservato ad attività esterne, sì da renderli alternativi fra loro (n. 15); l’imposizione di preclusioni eccessivamente rigorose alla fruizione dei canali televisivi (n. 6) e all’acquisto e alla disponibilità di organi di stampa e pubblicazioni (n. 16).

Nessuna, fra le predette prassi, risulta funzionale all’esigenza cautelare che costituisce presupposto e limite all’applicazione del regime detentivo speciale del 41-bis; molte di esse, al contrario, interferiscono con il percorso di recupero cui la Riforma del 1975 finalizza la detenzione, di fatto precludendo la rieducazione del condannato.

Il contrasto stridente tra la finalità dichiarata e quella effettivamente perseguita dal c.d. “carcere duro” (di fatto, indurre il detenuto alla collaborazione, fungendo altresì da deterrente nei confronti di coloro che operano nell’ambito della stessa o di altre associazioni criminali) impone pertanto, se non la totale espunzione dall’ordinamento del regime detentivo speciale ex art. 41-bis, quantomeno una significativa rivisitazione delle sue concrete modalità applicative, affinché le stesse non si traducano in una afflizione aggiuntiva e lesiva della dignità umana, oltre che confliggente con i principi costituzionali in materia di responsabilità penale e finalità rieducativa della pena.

Non sfugge, difatti, che una simile modalità di espiazione della pena (estesa, ricordiamolo, anche a soggetti la cui posizione giuridica non è ancora definitiva) prescinde da ogni valutazione in concreto circa il percorso di recupero più idoneo alla rieducazione del detenuto: giungendo addirittura a vanificarla quando, come spesso avviene, la cessazione del 41-bis e quella della pena detentiva avvengono contestualmente o a breve distanza l’una dall’altra. In tale ottica, ogni automatismo che correli la pena al reato anziché al reo, impedendo la sua individualizzazione, la priva, per ciò stesso, della sua finalità rieducativa, finendo per assolvere a una funzione meramente retributiva.

Ammesso, poi, che possa stilarsi una graduatoria delle pratiche degradanti, è la prassi richiamata dalla Raccomandazione n. 1 a suscitare la maggiore esecrazione: la previsione di apposite sezioni di “Area riservata” all’interno degli Istituti che ospitano Sezioni di regime detentivo speciale.

Tali Aree sono separate dalle altre che accolgono detenuti sottoposti al 41-bis, e sono destinate alle persone ritenute “apicali” dell’organizzazione criminale di appartenenza; vi si applica un regime detentivo ancora più rigoroso e al limite della tollerabilità, con limitazioni che talora comportano il quasi sostanziale isolamento della persona detenuta.

Proprio per evitare di incorrere nella violazione formale delle norme che regolano l’istituto dell’isolamento, viene spesso collocato nell’Area riservata anche un altro detenuto che non avrebbe titolo a starvi, ma che —nel crudo e spietato gergo carcerario— assolve alla funzione di “Dama di compagnia” nei momenti di “socialità binaria” e durante i passeggi.

La legittimazione formale di tale segregazione risiederebbe, secondo il Governo italiano (interpellato al riguardo dal CPT), nell’art. 32 del dPR 230/2000, che tuttavia concerne “la collocazione più idonea di quei detenuti e internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni”. Tale esigenza cautelare, tuttavia, non risulta allegata né comprovata rispetto ai detenuti collocati nelle Aree riservate; e, men che meno, nei confronti dei detenuti loro assegnati per compagnia, i quali si trovano pertanto assoggettati a un regime detentivo di estremo rigore in modo del tutto ingiustificato (oltre che lesivo del principio di personalità della responsabilità penale).

Come ricordato dall’insigne giurista Andrea Pugiotto, Cesare Beccaria ebbe ad affermare che “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

Se ciò è vero, un sistema detentivo incentrato solo sul contenimento delle persone in uno spazio e nella loro sottoposizione a limiti e obblighi (aggiuntivi alla pena detentiva e non giustificati da esigenze concrete) riduce le persone a cose, ed è offensivo della dignità umana tanto nella sua accezione statica quanto nella sua proiezione dinamica, come meta da riconquistare. È un sistema, dunque, di per sé destinato a inverare quel “trattamento disumano e degradante” che l’art. 27 della Costituzione e l’art. 3 della CEDU espressamente vietano.

Paola AltruiGiuristi Democratici