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Regina Coeli brucia. La protesta dei detenuti nel carcere dei suicidi

Rivolta nella serata di mercoledì al carcere romano di Regina Coeli. La Garante Valentina Calderone: «Il reato di rivolta inserito nel ddl Sicurezza non ha alcun potere deterrente»

di Eleonora Martini da il manifesto

È il carcere dei suicidi, il primo in Italia nella triste classifica dei detenuti morti dietro le sbarre stilata da Ristretti orizzonti: 15 negli ultimi quattro anni. Il carcere dei «tre scalini», come viene chiamato da generazioni di romani, nella notte tra mercoledì e giovedì ha offerto agli abitanti di Trastevere, rione dove è ubicato in un ex convento seicentesco, lo “spettacolo” delle fiamme che uscivano dal tetto. Non è la prima volta che i detenuti per protesta appiccano il fuoco alle suppellettili; era accaduto anche un mese fa. Ma questa volta i disordini hanno prodotto – stando a quanto riportano i sindacati della polizia penitenziaria – «ingenti danni» alla struttura, a cominciare dal tetto, che sarebbe stato sfondato ancor prima che le fiamme divampassero, lasciando forti dubbi sull’attuale agibilità dell’ala.

La protesta è scoppiata nell’Ottava sezione, di solito tra le più tranquille perché è riservata ai cosiddetti “protetti” (sex offender, collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell’ordine), ma sovraffollata come tutte le altre. Secondo la Uilpa penitenziaria, «non ci sarebbero stati scontri fisici. Un agente sarebbe stato colpito da un leggero malore, probabilmente per l’inalazione di fumi sprigionati dagli incendi appiccati dai detenuti, mentre non ci sarebbero feriti o contusi».

Eppure la frequenza con la quale recentemente si registrano questo tipo di proteste un po’ in tutte le prigioni italiane, compresi gli istituti per minori, fa riflettere. C’è un problema di sovraffollamento, questo è certo: nel carcere più antico d’Italia, quello dove le SS segregarono antifascisti ed ebrei, oggi sono stipati 1200 detenuti – di cui una gran parte tossicodipendenti, malati psichici e homeless – nei 626 posti disponibili. E la composizione dei soggetti reclusi, appartenenti a differenti e talvolta confliggenti comunità etniche, aumenta le difficoltà di polizia e operatori nel prevenire i disordini attraverso il dialogo. Sempre che lo si voglia.

Anche per questo gli agenti insistono sulla necessità impellente di adeguare l’organico ai reali fabbisogni. Tanto più – va detto – se la legge sulla tortura, contestata dai sindacati autonomi, funge da argine alle reazioni violente e ai metodi “spicci” con cui sono state talvolta sedate le sommosse nel passato. Proprio per questo il governo Meloni ha fortemente voluto il nuovo reato di «rivolta», inserito nel ddl Sicurezza appena approdato al Senato dopo l’ok della Camera. Una nuova fattispecie che punisce con la reclusione da uno a 5 anni la resistenza di più persone – anche passiva – all’esecuzione degli ordini impartiti, sia in carcere che nei Cpr e negli Ipm.

La Garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, ha denunciato ieri mattina di non aver potuto accedere alla sezione mentre gli agenti in tenuta antisommossa intervenivano, durante la notte, per ristabilirvi l’ordine. In ogni caso, afferma, «a me pare che quanto avvenuto sia la prova evidente di come inasprire le pene e introdurre il reato della cosiddetta rivolta passiva non avrà alcuna conseguenza positiva sulle tensioni all’interno delle carceri. Introdurre nuove fattispecie di reato non ha alcun potere deterrente». Piuttosto, Calderone esorta ad «affrontare la questione seriamente» perché «non si può più ignorare che episodi come questi siano la conseguenza di una condizione di vita assolutamente insostenibile per migliaia di persone detenute».

La pensa così anche Stefano Anastasia, a capo dell’organo di garanzia dei diritti dei detenuti del Lazio: «Il problema è di carattere generale – dice – di un sistema che ha perso la bussola, in cui i detenuti evidentemente non hanno più fiducia rispetto ai loro percorsi detentivi, al fatto che, partecipando all’offerta rieducativa, possano avere una prospettiva di reinserimento. Qualsiasi occasione anche futile porta subito quindi alla protesta, ai danneggiamenti, agli incendi, ai materassi bruciati. Che poi finisce per essere l’unico modo con cui fuori dal carcere ci si accorge di chi vi vive dentro».

Parole che quasi certamente non troveranno orecchie nell’esecutivo. Il quale, alla tragica condizione dei detenuti stipati e abbandonati, ha trovato un’unica soluzione: la recente nomina di Marco Doglio a neo commissario per l’edilizia penitenziaria. Da super esperto di infrastrutture e reti, Doglio avrà un compito dispendioso quanto inutile: costruire nuove carceri mentre il numero di reclusi aumenta di pari passo con l’iper produzione di nuovi reati.

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