Repressione giudiziaria e movimenti. Gli anarchici, i processi, le regole
- luglio 11, 2019
- in misure repressive
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I processi agli anarchici sono, da sempre, un osservatorio esemplare di forzature delle regole, a cominciare dalle indagini interminabili con lunghe carcerazioni (spesso seguite da assoluzioni piene) e da intercettazioni della durata di anni. Ecco l’esempio di un recente processo concluso davanti alla Corte d’assise di Torino.
Alla fine dello scorso aprile si è concluso avanti alla Corte d’assise di Torino, con 5 condanne e 18 assoluzioni, il cosiddetto processo Scripta manent, la madre di tutti i processi a carico dell’area anarco-insurrezionalista più radicale. I 23 imputati rispondevano della costituzione o della partecipazione a un’associazione eversiva (270 bis c.p.) denominata Federazione anarchica informale – Fronte rivoluzionario internazionale, nonché del reato di istigazione a delinquere. Solo a due tra loro, poi condannati alle pene di 17 e 20 anni di reclusione, veniva contestata anche una serie di reati specifici, relativi ad attentati e all’invio di pacchi esplosivi commessi dal 2005 al 2007.
Il primo dato sorprendente del processo è costituito dalla sua dimensione: circa 300 faldoni di indagini, contenenti ciascuno diverse centinaia di pagine, un’istruttoria dibattimentale durata oltre 40 udienza, dal novembre 2017 all’aprile 2019, centinaia di produzioni documentali fatte dalla Procura. Sul piano cronologico, poi, una contestazione associativa della durata di circa 16 anni, dal 2003 alla data della sentenza, con plurimi riferimenti anche a periodi precedenti. Un processo monstre, e come tale difficilmente gestibile, anche dal punto di vista difensivo, costruito sulla base di indagini fatte a Torino ma anche attraverso il recupero di una serie di inchieste avviate da una pluralità di altre Procure (Napoli, Roma, Milano, Perugia, Bologna), segnato nel profondo da una sorta di onnipotenza inquisitoria, fondata sulla volontà fare i conti con l’intera storia ultradecennale, secondo l’ipotesi d’accusa, di un particolare segmento del mondo anarchico.
Il secondo dato, questo sì davvero inquietante, riguarda il controllo assiduo e continuativo sulla vita dei principali imputati emerso dalla indagini fatte: centinaia di appostamenti, controlli, pedinamenti sui loro spostamenti, ma anche sulla loro vita di tutti i giorni, anni di intercettazioni ambientali e telefoniche, e poi, dopo l’arresto, avvenuto nel settembre 2016, la censura di tutta la posta in entrata e in uscita e, incredibile a dirsi, nuove intercettazioni ambientali in carcere, nei parlatori, per registrare i colloqui con i familiari. Per esemplificare, i due imputati che ho difeso ‒ alla fine assolti da tutte le accuse, dopo una carcerazione durata oltre 2 anni e 7 mesi ‒ sono stati intercettati per alcuni anni tra il 2003 e il 2009 (in particolare tra il 2003 e il 2005 dalla Procura di Bologna e dal 2007 in poi da quella di Torino). Poi, a partire dal giugno 2012 e sino alla data dell’arresto, nel settembre 2016, sono stati nuovamente intercettati per oltre 4 anni di seguito, con una pausa di meno di due mesi tra il gennaio e il marzo 2015, sia telefonicamente che ambientalmente, con microspie posizionate nel loro appartamento da due distinte Procure della Repubblica (Torino e Napoli). Si tratta, in questo ultimo caso, di oltre 35.000 ore di registrazione ambientale, che vanno unite alle altre migliaia di ore delle intercettazioni precedenti, da cui gli inquirenti hanno estratto una sequenza della durata inferiore all’ora, formata da scampoli di dialoghi raccolti uno nel 2004, uno nel 2005, due nel 2013, 2 nel 2014 e 2 nel 2015, che, unita a una manciata di intercettazione telefoniche, è stata utilizzata per avvalorare la tesi accusatoria. La siderale sproporzione tra il materiale acquisto e quello concretamente utilizzato costituisce già un indicatore importante delle modalità di costruzione dell’ipotesi accusatoria e della evidente asimmetria che sussiste tra accusa e difesa. La tendenziale parità della armi, proclamata a parole dai principi fondativi del nostro codice di rito, appare poco più che un simulacro. In questo caso gli inquirenti hanno potuto lavorare indisturbati per anni sulle conversazione intercettate, che hanno poi riassunto e liofilizzato in uno schema di ridotte dimensione da presentare a sostegno della proprie tesi, senza che gli imputati e i loro difensori potessero, se non in prossimità del processo, dopo l’applicazione della misura della custodia in carcere, esaminarle.
In termini generali, occorre, anzitutto, capire se tale modalità di svolgimento delle indagini sia conforme al modello previsto dal nostro codice di rito.
Sul piano della legalità formale, la risposta è sicuramente affermativa: tutte le intercettazioni, tutti i controlli sul territorio, tutta la censura della corrispondenza sono stati autorizzati dalla magistratura requirente o giudicante. Se, però, dall’astratto rispetto delle regole processuali si passa al terreno dei principi, il discorso si fa più complicato. Un utilizzo così dilatato delle intercettazioni, una intromissione così potente e pervasiva nella vita personale dei cittadini, contrasta non solo con la coscienza collettiva ma con alcuni principi fondamentale dell’ordinamento, primo tra tutti l’art. 15 della Costituzione, che rimandano, con le dovute eccezioni, allo spazio intangibile della propria vita personale nel proprio spazio domestico. Secondo la Corte costituzionale, la libertà e la segretezza delle comunicazioni personali è «restringibile dall’autorità giudiziaria soltanto nella misura strettamente necessaria alle esigenze di indagine legate al compito primario concernente la repressione dei reati» (sentenza n. 463 del 1994). Nella locuzione “strettamente necessaria” sta il nodo della questione. Le intercettazioni ambientali, nel caso di reati associativi, durano 40 giorni, contro i 15 degli altri reati, prorogabili per ulteriori 20 giorni. È mai possibile che si possano ritenere strettamente necessarie oltre 80 proroghe di tali termini? Solo un giudice si è rifiutato, nel corso degli anni, di autorizzare la proroga, ritenendo troppo labili gli elementi indiziari presentati a sostegno della richiesta dagli inquirenti e provocando quel buco da gennaio a marzo 2015, di cui si è detto prima.
Il tema delle intercettazioni è divenuto da tempo terreno di scontro e battaglia politica, a seconda delle necessità di difendere specifiche posizioni processuali di qualche autorevole capo partito o di accreditarsi come fautori e paladini del connubio tra legalità e ordine, inflessibili censori di un ceto politico corrotto. Tutto ciò a scapito di una riflessione seria che accanto alle legittime esigenze processuali ponga dei limiti invalicabili a difesa delle garanzie individuali del cittadino (fosse pure anarchico o “terrorista”). Il fatto è che le intercettazioni, specie quelle ambientali, sono da tempo uno degli strumenti più utilizzati sul piano investigativo, specie se si tratta di illuminare rapporti e relazioni tra soggetti sospettati di appartenere allo stesso comparto associativo. Più nel dettaglio, le intercettazioni sono ormai divenute il grimaldello per operare un’osservazione continuativa su soggetti appartenenti a determinate aree politiche, per monitorare le loro condotte e le loro frequentazioni. Si tratta di esiti che non devono per forza essere utilizzati nell’immediato ma, come è avvenuto in questo caso, posso essere accantonati e poi ripresi successivamente per corroborare nuove ipotesi investigative, possono circolare per la penisola in attesa che un pubblico ministero decida di servirsene per suffragare i propri assunti.
Sempre sul piano del confronto con gli istituti processuali, merita segnalare un’altra abnormità.
Il nostro codice di rito impone dei termini di durata massimi delle indagini preliminari (di sei mesi o di un anno per i reati più gravi, prorogabili fino a raggiungere la durata massima di 18 mesi o di due anni, che decorrono, si badi bene, non dalla commissione dei fatti o dalla loro comunicazione alla Procura , ma dalla data di iscrizione del nome dell’indagato nel registro delle notizie di reato), prevedendo, altresì, l’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo tale scadenza. Si tratta, per parafrasare le parole della Corte costituzionale, di una scelta legislativa dettata dalla volontà di imprimere tempestività alle investigazioni e, per altro verso, di contenere in un lasso di tempo predeterminato la condizione di indagato. Vi è, dunque, la necessità che il cittadino non resti sottoposto a un procedimento penale per un tempo indefinito, ma anche gli si dia modo di difendersi dalle accuse che gli vengono rivolte. Come ci si può difendere adeguatamente (andando addirittura alla ricerca di fonti di prova autonome) da vicende che risalgono fino a 13 anni prima, nel corso dei quali, con paziente lavoro di acquisizione probatoria, gli inquirenti hanno raccolto dati, informazioni, elaborato strategie? Di fronte a tale voracità inquisitoria è evidente come il cittadino rimanga sguarnito di una difesa decente. È questa la ragione per cui il codice di procedura penale prevede dei termini perentori di indagine, con la conseguente inutilizzabilità degli atti e delle prove acquisiti in epoca successiva.
Il processo Scripta Manent, al pari di molti altri, si incarica di smentire tale ferree regole processuali, poste a garanzia del cittadino indagato. È sufficiente iscrivere tardivamente il nome degli indagati nel registro informatico delle notizie di reato, perché si possa tranquillamente eludere il meccanismo introdotto dal legislatore. Il tutto con buona pace della giurisprudenza della Cassazione che non ritiene censurabile la tardiva iscrizione, che avrebbe semmai solo conseguenze di natura disciplinare per il PM procedente. Nel nostro caso, ad esempio, l’iniziale iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Bologna arriva quasi quattro anni dopo l’acquisizione dei primi presunti elementi sulla loro responsabilità. Pur avendo acquisito dall’inizio del 2012 gli atti relativi a molte indagini svolte in precedenza, anche da altre Procure, quella di Torino iscrive il nome degli imputati solo nel maggio 2014, con una contestazione generica e, poi, nel gennaio 2016 con una più dettagliata. Ancora una volta si tocca con mano la divaricazione che spesso si produce tra l’empireo dei principi e la loro traduzione nella vita giudiziaria di tutti i giorni.
Claudio Novaro