Il diritto di protesta «sta subendo un attacco senza precedenti in ogni parte del mondo», dice Amnesty International che per questo motivo ha lanciato la campagna globale «Proteggo la protesta». Ventuno anni dopo i fatti di Genova 2001 – una sospensione dello Stato di diritto che ha macchiato indelebilmente l’Italia e l’Europa – Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di Amnesty, spiega la necessità di questa iniziativa.

Perché «senza precedenti»?

Partiamo dai numeri: nel 2021 in almeno 67 Stati del mondo sono stati presi provvedimenti per limitare la libertà di protesta pacifica, e in almeno 85 Stati si è registrato l’uso eccessivo o non necessario della forza per disperdere le proteste. Il Global Protest Trucker ha calcolato che in due terzi del mondo c’è stata almeno una protesta antigovernativa nel periodo 2017-2021. È come se, almeno dal 2019 in poi, si fosse riaccesa quella scintilla del biennio 2010-2011: i movimenti Occupy, le cosiddette primavere arabe, ecc. Milioni di persone sono scese in piazza, nell’ultimo periodo, compresi gli anni della pandemia. E questo ha scatenato una repressione senza precedenti da parte dei governi, con militarizzazione dell’ordine pubblico (Cile nel 2019, Colombia nel 2021), leggi e provvedimenti per limitare le manifestazioni, censura di Internet e dei social, e la progressiva securitizzazione delle proteste, cioè l’individuazione di chi rivendica pacificamente e legittimamente i diritti come un nemico da combattere. Solo nel 2020, che pure è stato l’anno nero della pandemia, centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza in Bielorussia. Questo Paese, insieme a Russia, Iran, Turchia, Colombia, Cuba e altri ancora, costituiscono un mondo in mobilitazione. Il rapporto World wide protest prodotto da Carnegie Endowment ci dice che dal 2009 al 2019 le proteste di massa, pur con una pausa intorno alla metà dello scorso decennio, complessivamente in media sono aumentate dell’11,5% all’anno.

Quanto, soprattutto nei Paesi non occidentali, internet e l’uso dei social hanno influito su questa straordinaria mobilitazione di piazza?

Il filo che separa la mobilitazione digitale da quella reale è sempre più sottile. E infatti metodi di sorveglianza e repressione sono stati adottati anche sul web e nei canali di comunicazione. A volte questa straordinaria mobilitazione, dovuta alla misura colma verso la mancanza di diritti e a un maggior coraggio acquisito anche attraverso i social, ha prodotto anche eventi positivi. Come nel caso del Cile, dove il presidente Boric viene proprio dalle piazze del 2019, o il caso di Petro, il nuovo presidente della Colombia, che è stato tra i leader del Paro general dello scorso anno. In Libano e in Iraq le proteste hanno fatto cadere i governi, in Algeria hanno fatto ritirare Bouteflika, in Sudan la piazza ha abbattuto la dittatura di al-Bashir…

Nella ricerca con cui lanciate la campagna citate le manifestazioni Black Lives Matter, MeToo e i movimenti contro i cambiamenti climatici. Dove, nel mondo occidentale, si sono intensificate le forme di repressione contro chi protesta?

Ci sono episodi come quelli di New York, dove è stata seguita passo passo ogni singola persona che andava a prendere parte alle manifestazioni di Black Lives Matter, per esempio. Ma tra i Paesi europei abbiamo citato soprattutto la Francia per l’uso eccessivo della forza durante le manifestazioni dei gilet gialli; il Regno unito per la legislazione che dà alla polizia il potere di vietare le manifestazioni «rumorose», qualunque cosa voglia dire. E la Polonia, dove le manifestazioni Lgbti vengono sistematicamente attaccate con violenza da contro-manifestanti omofobi lasciati liberi di agire dalla polizia. Che invece, quando interviene, lo fa contro chi manifesta per i diritti dei gay.

Perché l’Italia non compare in questa vostra ricerca?

Sarà oggetto di uno studio a parte. Qualche preoccupazione in questo senso c’è anche in Italia. A partire da quella ferita aperta che ancora sanguina dopo 21 anni dai fatti di Genova. Più recentemente abbiamo registrato un uso eccessivo della forza durante le manifestazioni studentesche sul tema scuola-lavoro, in particolare a Torino, e un singolo episodio a Trieste contro i manifestanti “no-vax”. Poi ci sono i casi della Val di Susa.

Al top – diciamo così – della vostra triste classifica ci sono però Russia, Iran e Turchia. E oggi proprio questi tre Paesi stanno stringendo una sorta di “patto anti atlantico”. Un segnale un po’ inquietante…

Sì, è il segnale che la guerra sta rimescolando tutto. I motivi delle proteste si differenziano, ma non i metodi di repressione. In Turchia, le madri di Istanbul reclamano notizie sui loro cari scomparsi dagli anni ’90; in Russia, la richiesta è soprattutto di maggiore libertà e ultimamente si sono aggiunte sporadiche proteste contro la guerra; in Iran il tema è prima di tutto quello economico. Ciò che accomuna questi Paesi – e li distingue da quelli occidentali – sta invece nell’uso della polizia e anche dell’esercito: in Iran nel 2019 centinaia di manifestanti sono stati uccisi con armi pesanti; in Turchia sono anni che non si riesce a fare un Pride e le madri vengono sistematicamente pestate in piazza; in Russia c’è tutta una serie di leggi repressive che aumenta di anno in anno. Oggi ci troviamo davanti ad una coalizione di Stati nascente in nome di un anti-occidentalismo – a cui dovremmo aggiungere in qualche modo anche la Cina – che hanno regimi fortemente autoritari. Poi c’è il caso di Hong Kong dove si sono registrati centinaia di arresti, condanne, ecc, e dove con la Legge sulla Sicurezza nazionale del 2020 Amnesty è stata costretta a chiudere l’ufficio locale, perché era diventato impossibile lavorare. Ma ci chiediamo anche che fine farà il diritto di protesta in Algeria, ora che è stata benedetta da Draghi e diventerà il nostro primo fornitore di gas.

Nella ricerca si legge che in Bielorussia, così come in Sudan e Colombia, «le donne subiscono aggressioni sessuali durante le proteste».

Nel 2020, quando Lukashenko si è riproclamato presidente, fece arrestare tutti i competitori maschili, non immaginando che potesse nascere una leadership femminile che ne prendeva il posto. Allora scatenò una repressione che mescolava misoginia e patriarcalismo. Tre generazioni di donne ne hanno pagato le conseguenze: descritte come poco di buono, messe all’indice, sottoposte a violenze, incarcerazioni, espulsioni dai luoghi di lavoro e dalle università, ecc. Ma il modo con il quale in Bielorussia sono riusciti a sedare le proteste è stato minacciando le donne di togliere loro la podestà sui figli.

da il manifesto