Menu

Resistenza attiva contro il discorso d’odio

Denunciamoli. Per difendere le ONG e per la nostra democrazia.

1.Gli ultimi casi di respingimento collettivo, e quindi gli arresti ed i sequestri contro le Organizzazioni non governative impegnate nei soccorsi in mare, hanno segnato un drastico aumento della guerra dell’odio che si combatte quotidianamente sui social non solo contro i diretti protagonisti delle vicende, che vengono tenute per giorni in prima pagina, ma anche verso tutti coloro che esprimono soltanto opinioni rivolte al rispetto della legge e dei principi costituzionali, a partire dal fondamentale valore della solidarietà e dal rispetto dei diritti umani e degli obblighi di salvataggio sanciti nelle Convenzioni internazionali. Non basta che il ministro dell’interno, dopo il caso della Sea Watch 3 a Lampedusa, sia stato denunciato per istigazione a delinquere, occorre reagire in modo diffuso con denunce penali e pubblicizzazione dei profili contro tutti coloro che rilanciano sui social messaggi d’odio e incitazione alla violenza.

Purtroppo, malgrado le denunce, il ministro dell’interno rilancia la sua campagna d’odio contro Carola Rackete e glj operatori che salvano vite in mare . Altri reati…altro odio che per le strade siciliane diventa minaccia fisica contro la comandante Carola. Un ministro e seguaci plaudenti che fanno vergognare di essere italiani.

Lo schema di questi attacchi è ormai scontato. E non e’ del tutto una novita’ dei tempi del governo del cambiamento. La prima sperimentazione, il metodo Donadei, risale al 2017, ai tempi del governo Gentiloni- Minniti. Prima si sparge odio con le menzogne e la richiesta di misure sempre più restrittive da parte di gruppi estremistici contro le categorie più deboli, non solo i migranti dunque o i richiedenti asilo, arriva poi l’amplificazione mediatica, seguita dagli immancabili sondaggi, quindi interviene il politico di governo ( ieri di opposizione) come un ministro dell’interno, che sparge bufale e risponde all’istanza del (suo)”popolo”. Quindi si rilancia con un provvedimento amministrativo (ad esempio una direttiva ministeriale) o con un provvedimento di sgombero affidato al prefetto, oppure si adotta un provvedimento legislativo ( come i decreti legge sicurezza). Infine si scatena l’orda contro chi applica la legge, avvocati e giudici, come si è verificato nel caso delle diverse sentenze che hanno svuotato il primo decreto sicurezza (legge 132/2018) circoscrivendo gli effetti dell’abolizione non retroattiva della protezione umanitaria, oppure dissequestrato le navi delle ONG. Dopo poco tempo il discorso d’odio si rivolge semplicemente contro chi manifesta la propria opinione e rivendica l’applicazione dello stato di diritto ed il rispetto dei principi costituzionali (come quello che impone la indipendenza della magistratura).

A chi alimenta la propaganda elettorale con menzogne e accuse infamanti da’ sempre piu’ fastidio che le indagini in corso, dopo le denunce delle Ong, “non riguardano solo le eventuali irregolarità nel salvataggio dei migranti (ipotesi che pare stia sfumando), ma il comportamento delle autorità italiane che dietro ordini politici hanno insistito perché i naufraghi venissero respinti verso la Libia, «pur sapendo che Tripoli, come sembrano dimostrare le dichiarazioni del governo italiano e atti ufficiali degli organismi internazionali da tempo noti alle autorità di Roma, non era e non è un porto sicuro», 

Il segnale del rinnovato attacco agli operatori umanitari ed ai cittadini solidali parte direttamente dal ministro dell’interno, che usa lo stesso linguaggio offensivo e mistificante del “popolo” al quale si rivolge. Come riporta Fanpage,” Salvini torna a fare casino sui social. I porti sono chiusi e quindi gli sbarchi diminuiscono. Le Ong collaborano con gli scafisti e la Libia è un porto sicuro. Questi sono i messaggi che passano sui social del ministro dell’Interno, Matteo Salvini: ma i dati e i numeri dimostrano quanti problemi contengono affermazioni di questo tipo. Un fatto che costringe a riflettere sulle conseguenze della diffusione di tale retorica da parte di un’alta carica dello Stato”. Nel mirino, i suoi ultimi bersagli prefrriti, le Ong ed in particolare la comandante tedesca della Sea Watch 3. Le menzogne ed i messaggi d’odio lanciati dal capo leghista che occupa il Viminale dilagano sui social nella giornata in cui sarebbe stato giusto ricordare in modo composto e coeso la strage di via D’Amelio e la barbara uccisione del giudice Borsellino e degli agenti che lo scortavano.

2. Queste alcune reazioni, neppure le più violente, dopo la trasmissione di una intervista all’avvocato di Carola Rackete, interrogata in Procura ad Agrigento. Non si risparmiano ingiurie neppure all’avvocato difensore. Sono comunque rimaste senza esito le minacce di espulsione scagliate come pietre dal ministro dell’interno.

In molti casi si tratta di insulti che delineano la levatura (im)morale delle persone da cui provengono, o la loro ignoranza, ai limiti dell’analfabetismo di ritorno, altre volte si tratta di troll, ma. sempre più spesso, persone facilmente individuabili dagli indirizzi IP si spingono fino al punto da minacciare violenza, offendere gravemente, diffamare o calunniare chi non si allinea con il discorso d’odio dominante sulla maggior parte dei social. Una violenza che sempre più spesso diventa sessista, che non risparmia neppure magistrati ed esponenti della chiesa. Alle minacce verbali on line sono da ultimo seguiti atti a contenuto intimidatorio di crescente gravità, contro giudici che hanno soltanto applicato la legge, sacerdoti, o comuni cittadini solidali. Anche il Papa è finito nel mirino degli odiatori seriali.

Si è arrivati al punto che i processi contro le ONG sono diventati occasione per calunniare operatori umanitari che hanno salvato vite in mare nel rispetto del diritto internazionale, che invece le autorità statali violano costantemente. Un trattamento violento delle persone, come si è visto ancora in occasione della testimonianza di Carola Rackete in Tribunale ad Agrigento, che si verifica quotidianamente sulle pagine e nei siti dei giornali populisti, con titoli incendiari, che danno adito a commenti ignobili. Commenti che qualificano chi li scrive, e che oltre a cancellare la dignità della persona e la presunzione di innocenza, raggiungono nei casi più gravi, quando non si tratta di mera idiozia, eccessi di violenza tali da concretizzare il reato di istigazione a delinquere. Con il risultato finale di mettere in pericolo la sicurezza personale delle vittime di queste aggressioni che da verbali si possono presto trasformare in violenze fisiche, come è confermato dalla vigilanza che, in assenza dello stato, i cittadini solidali hanno dovuto prestare agli operatori solidali sotto accusa.

Amnesty chiede che le accuse ingiuste contro a comandante di Sea Watch siano ritirate. Vale per tutti, o solo per qualche politico ed i suoi collaboratori, la presunzione di innocenza prevista dall’art. 27 della Costituzione ? Gli avvocati fanno valere i diritti di difesa (art. 24 della Costituzione) ma anche questo accresce i commenti di odio. A questo punto siamo arrivati.

Un incentivo a questi commenti aggressivi è certamente fornito da chi diffonde notizie in cui il vero ed il falso sono abilmente mescolati, e che addossano responsabilità che vanno ancora accertate nel processo penale, nelle aule di tribunale, e non sui social media. Come si è verificato nel caso dello “speronamento” di una motovedetta della Guardia di finanza, che era rimasta praticamente intatta, da parte della Sea Watch 3 al comando di Carola Rackete, nella fase finale dell’attracco alla banchina del porto di Lampedusa, quando era ormai evidente che la nave e le persone a bordo non si sarebbero più potute respingere. Uno “speronamento” che dà adito a molti dubbi, sia sulla dinamica dei fatti che sulla catena di comando che ne ha prodotto il verificarsi. Le Nazioni Unite ripetono ancora la loro preoccupazione per la criminalizzazione dei soccorritori e il conseguente attentato alla indipendenza della magistratura.

3. Con il termine “hate speechsi intende l’utilizzo mirato di contenuti o espressioni che tendono a diffondere, propagandare o fomentare l’odio, la
discriminazione e la violenza per motivi etnici, nazionali, religiosi, ovvero fondati sull’identità di genere, sull’orientamento sessuale, sulla disabilità, o sulle condizioni personali e sociali, attraverso la diffusione e la distribuzione di scritti, immagini o altro materiale anche mediante la rete internet, i social network o altre piattaforme telematiche.

Per la Corte Europea dei diritti dell’Uomo che è intervenuta in materia di libertà di pensiero garantita dall’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, nel caso Gündüz v. Turkey (2003), tale libertà non copre: “concrete expressions constituting hate speech, which may be insulting to particular individuals or groups“. Per la Corte ,“tolerance and respect for the equal dignity of all human beings constitute the foundations of a democratic, pluralistic society. That being so, as a matter of principle it may be
considered necessary in certain democratic societies to sanction or even prevent all forms of expression which spread, incite, promote or justify hatred based on intolerance“.

In Italia non esiste ancora una definizione normativa di hate speech, tuttavia in base alla raccomandazione n. 20 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 30 ottobre 1997, il termine copre tutte le forme di incitamento o giustificazione dell’odio razziale, xenofobia, antisemitismo, antislamismo, antigitanismo, discriminazione verso minoranze e immigrati sorrette da un etnocentrismo o un nazionalismo aggressivo. In questo senso si ricorre alle categorie dell’incitamento, dell’istigazione o dell’apologia. Il termine incitamento può comprendere vari tipi di condotte: quelle dirette a commettere atti di violenza, ma anche l’elogio di atti passati come la Shoah, o ancora sostenere azioni come l’espulsione di un determinato gruppo di persone dal Paese o la distribuzione di materiale offensivo contro determinati gruppi. Chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale e chi incita a commettere atti di discriminazione o di violenza è incriminato a titolo di pericolo presunto quando il pregiudizio razziale, etnico, nazionale o religioso si trasforma da pensiero intimo del singolo a pensiero da diffondere in qualunque modo argomentando la superiorità della propria razza, etnia, nazione o gruppo ovvero compiendo o incitando a compiere atti di discriminazione.

La legge n. 654 del 1957, con cui l’Italia ha ratificato la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, all’art. 3 punisce con la pena della reclusione chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, ovvero istiga a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti a un gruppo nazionale, etnico o razziale.

La legge “Mancino” 25 giugno 1993, n. 205 sanziona gesti, azioni e slogan legati all’ideologia nazifascista,, e aventi per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. La legge punisce anche l’utilizzo di simbologie legate a suddetti movimenti politici.

La legge n. 85 del 2006, oltre a ridurre i limiti edittali delle pene reclusive (peraltro già ridotti in precedenza con la “legge Mancino” n. 122(205) del 1993) e a prevedere pene pecuniarie alternative alla reclusione, ha sostituito con «propaganda» la precedente espressione «diffonde in qualsiasi modo» e con «istiga» il precedente «incita». La modifica attenua fortemente l’efficacia dissuasiva della legge Mancino, perché la qualificazione del reato deve oggi corrispondere a condotte di maggiore gravità (propaganda e istigazione in luogo di diffusione e incitamento).

L’art. 21 (Non discriminazione) della Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea
del 2000 e in particolare il comma 1, vieta “qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze
sessuali”-

L’art. 44 del Testo Unico 286/98 sull’immigrazione prevede una specifica azione civile contro la discriminazione, “Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione.

Il decreto legislativo. 215/2003 attua il principio della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica. L’art. 3, co. 2 specifica che il decreto non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità. Di particolare importanza l’art. 2 del d.lgs n. 215 del 2003, su cui la giurisprudenza fonda tra l’altro diverse sentenze di condanna per il reato di propaganda razzista ex art. 3
l. n. 654 del 1975
(cfr. ad esempio Cass. pen., sez. III, n. 13234 del 13 dicembre 2007). La disposizione prevede che sono discriminazioni “anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo”.

Secondo l’art. 414 cod.penale (Istigazione a delinquere) “chiunque pubblicamente istiga [c.p. 266] a commettere uno o più reati [c.p. 302, 306] è punito, per il solo fatto dell’istigazione: 1. con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti [c.p. 17, 29, 32]; 2. con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni [c.p. 17]. Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena stabilita nel n. 1. Alla pena stabilita nel n. 1 soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti [c.p. 115, 272, 303]. La pena prevista dal presente comma nonché dal primo e dal secondo comma è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Fuori dei casi di cui all’articolo 302, se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici

L’art. 604-bis, cod. penale punisce “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o
commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

4, Occorre reagire prima che sia troppo tardi, innanzitutto con la diffusione dei fatti reali e delle norme che vengono violate, operando sui mezzi di comunicazione che si possono raggiungere. Ma non basta. Occorre attaccare su tutti i fronti. Si devono moltiplicare i gruppi di resistenza attiva contro il discorso d’odio, per individuare i responsabili ed i loro mandanti, per portare in giudizio chi eccede i limiti dettati dal codice penale e dalle norme civili ed amministrative che permettono di sanzionare il discorso d’odio. Occorre rinforzare i legal team che esistono già e che hanno conseguito importanti risultati nella ricerca dei responsabili di questa comunicazione violenta e nella loro sanzione. Amnesty International ha pubblicato una utile guida per reagire contro il discorso d’odio, particolarmente pericoloso durante le campagne elettorali. E del resto noto l’impatto della diffusione dell’hate speech dal punto di vista dell’aggregazione del consenso verso i partiti politici nazionalisti e populisti.

Il 31 maggio 2016 la Commissione europea, di concerto con Facebook TwitterYouTube e Microsoft, ha varato un Codice di condotta per contrastare i discorsi d’odio online, in base al quale le aziende informatiche si impegnano a predisporre procedure chiare ed efficaci per esaminare le segnalazioni di contenuti incitanti all’odio da parte degli utenti dei loro servizi, in modo da poter rimuovere tali contenuti o renderli inaccessibili. Le web companies aderenti si sono impegnate ad implementare un sistema di notice-and-take-down tale per cui i contenuti “odiosi” siano rimossi o resi inaccessibili entro ventiquattro ore dalla segnalazione a cura degli utenti, a collaborare «con le organizzazioni della società civile per fornire formazione sulle migliori pratiche per lottare contro la retorica dell’odio e i pregiudizi» e a incrementare «la portata del loro approccio proattivo nei confronti delle organizzazioni della società civile per aiutarle a realizzare campagne efficaci di lotta contro i discorsi di incitamento all’odio».

I gestori delle piattaforme social non hanno dimostrato la necessaria diligenza per impedire che il discorso d’odio dilagasse, ed in qualche caso, piuttosto che sanzionare gli odiatori seriali, hanno bloccato i profili di chi protestava contro post o tweet che avevano un evidente contenuto discriminatorio. Per questa ragione vanno fatte le segnalazioni ai gestori, ma non si può contare su un loro intervento efficace. Occorre piuttosto moltiplicare le denunce alla polizia postale e raccogliere in modo organico, con vero e propri dossier, a seconda dei bersagli che perseguono, quelle comunicazioni sui social che violano norme civili, penali o amministrative. Dopo questo lavoro di raccolta e di documentazione attraverso screenshot o altri sistemi di registrazione, le denunce dei casi più gravi dovranno essere depositate direttamente presso una procura della Repubblica.

Infine, alle denunce dei soggetti colpevoli di avere propagato odio o istigato alla commissione di reati, va data la massima pubblicità, in modo che la loro immagine sociale resti macchiata dal disvalore della condotta che hanno tenuto. Viviamo gli anni oscuri di un conflitto interno che penalizza tutte le minoranze ed i soggetti deboli, un conflitto che non abbiamo aperto ma che subiamo con crescente sofferenza. Non è più il tempo di minimizzare o di subire senza resistere, lasciando spazio a coloro che sul discorso d’odio cementano consenso elettorale. Ci sarà poi tempo per i progetti educativi. Sono note le matrici sociali del discorso d’odio da quando gli imprenditori della paura hanno diffuso e strumentalizzato la cd. guerra tra poveri, alimentando quelle ragioni di esclusione sociale che essi stessi riproducono. Il prossimo fronte è già aperto,dopo i piani per lo sgombero delle occupazioni abitative per necessita’ e riguarda il censimento dei campi rom. Anche in questo caso la prima barriera di difesa sarà costruita nelle aule dei tribunali. Ma non basterà. Anche perché è sempre più evidente l’attacco della politica ad un esercizio imparziale della funzione giurisdizionale. Per questa ragione è a rischio lo stato di diritto in Italia.

Nuove maggioranze di destra che si potrebbero formare nei prossimi mesi, anche attraverso la diffusione capillare del discorso d’odio, con altri attacchi contro le organizzazioni non governative potrebbero arrivare a stravolgere il testo della Costituzione e rendere un mero orpello la separazione dei poteri. Sarebbe la fine dei controlli di legalità affidati fin qui alla magistratura. Il ministro dell’interno restrrebbe unica autorità decisionale in materia di respingimenti ed espulsioni, contro la netta affermazione contraria della Corte Costituzionale che stabilisce la necessità della convalida giurisdizionale per qualunque procedura di allontanamento forzato (sentenza n.105/2001). La delegittimazione delle garanzie dello stato di diritto e di tutti i soggetti che ne possono garantire la effettività, dunque una involuzione autoritaria dello stato, appare cosi’ come il vero obiettivo del discorso d’odio e degli attacchi diffamatori contro le Ong. Un obiettivo che sembra raccogliere consensi sempre più vasti a livello di opinione pubblica.

Il contrasto allo hate speech, per essere davvero efficace nel lungo periodo, dovrebbe puntare soprattutto sulla promozione di politiche volte alla inclusione, alla riduzione del disagio sociale, e delle differenze reddituali oggi sempre più vistose, nonché all’educazione e ed alla corresponsabilizzazione dei cittadini improntata ai valori della solidarietà e dell’accoglienza.


Cosa dice la querela presentata da Carola Rackete contro Matteo Salvini ( da Fanpage)
Non solo diffamazione, per averla definita sbruffoncella o delinquente: “Le propalazioni di Salvini risultano concretamente idonee a provocare la commissione di nuovi delitti, ingenerando e alimentando una spirale massiva e diffusa di violenza, allo stato fortunatamente solo verbale, che si è espressa in migliaia di episodi diffamatori”. Così la querela presentata da Carola Rackete a carico del ministro dell’Interno Matteo Salvini……………..

…………. da settimane Salvini conduce una campagna diffamatoria nei confronti della Ong per cui lavoro, la Sea Watch Onlus, avendo più volte affermato che si tratterebbe di ‘un’organizzazione illegale e fuorilegge’, che fa ‘sbarco di immigrati illegali da una nave illegale’, ‘una nave pirata’, ‘fuorilegge’ e che i suoi appartenenti sarebbero ‘complici di scafisti e trafficanti’”. Nel verbale vengono anche riportati tutte le affermazioni del ministro rivolte direttamente alla comandante, da “sbruffoncella”, a “fuorilegge”, “delinquete” e una “criminale, complice di trafficanti di esseri umani, che ha provato ad ammazzare cinque militari italiani”. Ma la querela non si ferma alle diffamazioni: “Le propalazioni di Salvini risultano concretamente idonee a provocare la commissione di nuovi delitti, ingenerando e alimentando una spirale massiva e diffusa di violenza, allo stato fortunatamente solo verbale, che si è espressa in migliaia di episodi diffamatori”. Motivo per cui era stato richiesto il sequestro preventivo degli account ufficiali: “La richiesta è legittimata dalla giurisprudenza della Corte Suprema che autorizza il sequestro dei servizi di rete e delle pagine informatiche che non rientrano nella nozione di stampa e quindi non godono delle garanzie costituzionali in tema di sequestro di stampa”, aveva spiegato l’avvocato Gamberini.”

Fulvio Vassallo Paleologo

da Associazione Diritti e Frontiere – ADIF