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Rieducational Channel. Il lockdown come dispositivo di rieducazione politica

Possiamo leggere oggi il confinamento come dispositivo di rieducazione politica e non come un incubo che ci siamo lasciati alle spalle? E possiamo considerare la gestione politica della pandemia, nella sua interezza, come un esempio da manuale di shock economy, un’occasione d’oro per instaurare le condizioni di violenza strutturale necessarie all’accumulazione?

di Stefania Consigliere, Alessandro Pacco, Cristina Zavaroni

Un’ipotesi fin troppo facile

Il fenomeno è noto e spaventoso: a fronte di quanto sta accadendo, la gran parte dei nostri connazionali non trova niente da obiettare, neanche quando il governo manda uomini armati alle fermate degli autobus per controllare il GP dei ragazzini. Qui come altrove, i meno alienati abbassano gli occhi e tirano dritto; gli altri neppure vedono.

Si è parlato di strage delle coscienze, di immensa vergogna, di maledizione pandemica. Un’ottava piaga biblica che ha colpito in modo strano, trasversale a qualsiasi categoria socio-economica, lasciando a terra moltissimi fra quelli che credevamo più attrezzati, resistenti, attenti: l’antagonismo e la “sinistra di movimento”, insomma, ivi inclusa larga parte del femminismo, delle forze LGBTQ+ e delle realtà solidali con i sans papiers, che sembrano cadute in una sorta di rimozione a getto continuo di ciò che, pure, è sotto i nostri occhi. Troia brucia, ha scritto Wolf Bukowski, ma guai alle Cassandre che lo dicono.

Cos’ha reso possibile un simile cedimento politico, cognitivo, psichico ed emotivo? In una serie di quattro testi scritti fra agosto e novembre 2021 (si trovano qui: 1, 2, 3, 4), il compagno Nicola ha identificato alcune cause strutturali profonde: (1) l’incrocio fra la precarietà esistenziale degli ultimi decenni e l’ideologia individualista, che induce a puntare tutto sul magic bullet vaccinale per poter tornare il prima possibile a produrre e consumare; (2) lo sbarramento mediatico opposto agli scienziati dissidenti che li ha indotti, spesso, a portare i loro argomenti su siti alternativi destrorsi; (3) la scomparsa del movimento operaio e della sua contronarrazione; (4) la confusione fra la collettività che protegge, e che è da proteggere, e lo Stato; (5) la confusione fra la libertà individuale di destra (quella dell’individuo borghese di sfruttare e consumare) e la pura e semplice libertà di vivere; (6) l’infantile entusiasmo per il presunto blocco dell’economia di una parte della compagneria, incapace di avvedersi che quel “blocco” significava solo la vittoria di alcune, specifiche bande del capitalismo contro altre ormai obsolete.

È un’analisi che sottoscriviamo completamente, a cui, a mo’ d’integrazione psico-antropologica, vorremmo aggiungere un pezzetto. È in questione un elemento che gli “sprofondati nel fango” colgono con maggior chiarezza: il livello di indifferenza, acquiescenza e unanimità della maggioranza ha qualcosa di anomalo, al punto da far immaginare che sia l’esito di un processo specifico.

Facciamo dunque la nostra scommessa. Poiché spesso, nel disastro che chiamiamo storia, l’ingrediente segreto dei fenomeni è la violenza, proponiamo di leggere l’ottundimento e la dissociazione che vediamo intorno a noi come effetto di un processo traumatico funzionale all’estensione, a parte delle popolazioni ricche, di quella stessa violenza strutturale che, nella più scontata quotidianità, regola i rapporti fra territori, classi sociali, gruppi etnici e soggetti.

Violenza strutturale, ovvero, ciò che non si deve vedere

Cominciamo dal quadro generale che fa da sfondo all’ipotesi: quello di una sostanziale, globale ingiustizia mantenuta con la forza. David Graeber ha scritto che la violenza strutturale è in azione in

quelle zone della vita umana che, di solito, mettono gli antropologi a disagio: le zone di asprezza, semplificazione, smemoratezza e totale stupidità nelle nostre vite rese possibili dalla violenza. Con “violenza”, qui, non mi riferisco al genere di atti, sporadici e spettacolari, a cui di solito pensiamo quando la parola viene pronunciata, ma alle forme noiose, monotone e tuttavia onnipresenti di violenza che definiscono le condizioni stesse della nostra esistenza; alle minacce, velate o palesi, di forza fisica che stanno dietro a pressoché tutto, dall’applicazione delle regole su dove è permesso sedersi, stare, mangiare o bere nei parchi e in altri luoghi pubblici, fino alle minacce, all’intimidazione fisica e agli attacchi che sorreggono l’applicazione delle regole tacite di genere. Propongo di definirle zone di semplificazione violenta. Ci colpiscono in quasi tutti gli aspetti delle nostre vite. E però, a nessuno piace parlarne.

Somma di tutte le forme di esclusione, marginalizzazione e ineguaglianza sociale sostenute, in ultima analisi, dalla minaccia di aggressione fisica, la violenza strutturale è lo sfondo stesso dei nostri decorosi anni neoliberisti. Proprio per questo, forse, gode di uno strano regime percettivo: ben visibile dal fondo della piramide sociale, si fa sempre più opaca mano a mano che si sale verso il vertice. Ne sanno qualcosa gli afroamericans negli USA, i migranti in Europa, i carcerati, gli homeless. Anche quando l’aggressione è differita, gli effetti della minaccia sono tragicamente reali: basta osservare l’andamento della vita media nei diversi quartieri di una città, la correlazione fra classe sociale e frequenza scolastica, il peso della disabilità e della malattia in base al reddito.

In quanto bianchi e cittadini di una nazione ricca, nella seconda metà del Novecento siamo stati dal lato (relativamente) sicuro della barricata, con accesso a un certo grado di benessere materiale e di privilegio geopolitico e con la possibilità di disvedere molta della violenza prodotta dal sistema. Già da un po’, però, fra l’erosione degli istituti collettivi (sanità, scuola, sindacati, associativismo ecc.) e la fragilizzazione individuale (v. l’epidemia di depressione degli scorsi decenni), questa posizione di vantaggio è sotto attacco. Dopo la crisi finanziaria del 2008, un brusco processo di riproletarizzazione ha investito la popolazione occidentale generale: dall’aumento dei morti sul lavoro ai tagli alla sanità, dalla macelleria sociale targata UE all’aumento esponenziale del costo della vita, dalle patologie del vuoto ai suicidi in età giovanile. In questo quadro, la pandemia è arrivata come un’occasione d’oro per instaurare, con le maniere forti, le condizioni di violenza strutturale oggi più utili al plusvalore: la gestione pandemica nella sua interezza può essere letta come un esempio da manuale di shock economy (o, se si preferisce, di accumulazione originaria) e il confinamento della primavera 2020 come dispositivo inaugurale di rieducazione politica alle nuove condizioni del capitalismo informatico.

Violenza puntuale al servizio della violenza di sistema: il trauma iniziale, che qui proviamo a descrivere, non è fine a se stesso, la sua azione a breve e medio termine è funzionale all’instaurazione a lungo termine di condizioni generali peggiori, all’estensione della violenza strutturale a una parte più ampia della popolazione.

È qualcosa che abbiamo gli strumenti disciplinari per intravedere e cominciare a descrivere, ma che non possiamo pienamente giustificare con un’analisi scientifica comme il faut, che richiederebbe un paio d’anni di lavoro. Inoltre, noi stessi ci troviamo nel pieno del “travaglio del concetto”, troppo immersi nell’oggi per essere completamente lucidi. Ci scusiamo quindi per la mancanza di dati quantitativi, per gli esempi aneddotici e per un’impostazione che resta, nonostante le nostre intenzioni, impressionista. Se ci risolviamo a pubblicare è perché crediamo che, nello stringere dei tempi, qualsiasi strumento “buono per pensare” debba essere subito messo a disposizione di tutti.

Violenza traumatica, ovvero, il dispositivo-lockdown

Fatte salve alcune aree dell’Italia del nord, nella memoria collettiva la pandemia è iniziata “davvero” fra l’8 e il 10 marzo 2020, con la progressiva estensione della zona rossa all’intero territorio nazionale. L’atto inaugurale del presente in cui siamo intrappolati è dunque il cosiddetto lockdown (o, alla francese, il confinamento), un insieme complesso e articolato di strategie che può essere letto come fatto sociale totale. Secondo Marcel Mauss, un fatto sociale totale è un fenomeno le cui implicazioni riverberano attraverso l’intera società, riflettendosi in tutte le sue sfere (economica, legislativa, comunicativa, morale ecc.) e in tutti gli aspetti della vita delle persone. Proprio questo carattere totale del dispositivo-lockdown permette di coglierne il ruolo e la portata.

Il modello teorico che utilizziamo ipotizza che la costruzione culturale dei soggetti produca una certa messa in forma – una “buccia psicosomatica”, per dir così – che consente di essere presenti e attivi nel proprio mondo nelle forme previste. Ne fanno parte la strutturazione pulsionale ed emotiva, il funzionamento fisiologico, i modi della conoscenza, le modalità di relazione con gli umani e i non-umani, le forme della salute e della malattia, i vincoli di solidarietà, i precetti della buona educazione e via dicendo: tutto ciò che ci posiziona come appartenenti, in senso pieno e potenziante, a un certo gruppo. Lungamente plasmata nell’infanzia e dalle successive esperienze esistenziali, questo involucro può essere periodicamente riaperto per curarne le inevitabili sclerosi: è il caso dei dispositivi che, con intelligenza e attenzione, aprono a esperienze altre (la psicoterapia, ad esempio, o certi riti collettivi, o ancora la respirazione olotropica, la danza, le feste, la trance ecc.) e quindi a una possibilità di divenire. Anche le iniziazioni – all’erotismo, all’età adulta, a certi ruoli terapeutici, alle tecniche di caccia – e le rivolte hanno di solito questa qualità.

Ma l’involucro può anche essere frantumato con violenza al fine di disgregare la persona, sfarne i fondamenti etici e cognitivi e lasciarla poi infragilita e influenzabile. Il caso principe è quello della tortura (v. l’opera omnia di Françoise Sironi), ma rientrano in questo novero, a diverso titolo, anche certe forme di propaganda, le “pedagogie nere” (quelle che educano attraverso la menzogna, il terrore, l’inganno, la cattura, l’asservimento e la crudeltà), la shock economy, certe strategie militari e ora, nella nostra ipotesi, anche il dispositivo-lockdown. La sua efficacia è venuta dall’applicazione a tappeto di tecniche rodatissime di effrazione psicosomatica, a cui sono state affiancate tecniche decisamente innovative.

Fenomenologia del lockdown

Come testimonia l’immane lavoro di critica e decostruzione fatto su questo blog, tutti gli elementi sono noti; vale tuttavia la pena di ripercorrerli a cascata per comprendere la potenza distruttiva di quel che abbiamo vissuto.

Isolamento fisico – È noto in psicoterapia che il supporto fisico, il conforto, l’abbraccio e la presenza degli altri è il principale elemento protettivo e riparativo rispetto ai traumi, intenzionali o meno che essi siano. Durante il lockdown, la mera presenza di altri è stata descritta come biohazard e il respiro – base stessa di tutte le discipline del corpo – presentato come l’elemento fra tutti più velenoso. Le regole del distanziamento sociale, apparentemente protettive, ci hanno indotti a restare di nostra spontanea volontà da soli, senza la protezione minima data dalla presenza di altri, all’interno del luogo stesso in cui stava avvenendo l’effrazione. Ciò è stato peggiorato dalla confusione, continuamente perseguita, fra stare a casa e stare in casa e dall’evidente interesse di una parte del capitalismo alla s-corporazione del lavoro.

Obiettivo occultato – Come per il carcere (che educa in vista del reinserimento), il manicomio (che cura la follia), l’accoglienza (che integra i migranti nella società d’arrivo) e la casa-famiglia (che protegge il nucleo madre-bambini), anche nel lockdown l’obiettivo esplicito, condivisibile e benintenzionato di protezione dal contagio occulta il fatto che, attraverso di esso, viene prodotto tutt’altro (corpi criminali utili al funzionamento del sistema, isolamento della devianza dal corpo sociale, detenzione amministrativa di forza lavoro sottopagata, normalizzazione delle forme di genitorialità, assoggettamento della popolazione alle nuove dinamiche necessarie al plusvalore).

Con l’eccezione del carcere, che ha il merito di una certa chiarezza, negli altri casi l’occultamento del secondo obiettivo è tanto più efficace in quanto la struttura fisica sembra assecondare lo scopo narrato: l’ambiente agreste da villa di campagna nasconde l’isolamento dei padiglioni manicomiali; le comunità di accoglienza multiculturali, tipo alloggio condiviso, nascondono lo schiacciamento neocolonialista del migrante a “ragazzo” a cui trovare un “primo lavoretto”; le decorazioni allegre e l’arredamento funzionale delle case-famiglia nasconde una realtà di ispezione e osservazione quotidiana. Nel caso del lockdown, la prigione è la nostra stessa casa che tuttavia, proprio per il suo carattere intimo, difficilmente può essere riconosciuta come gabbia.

Confusione dei piani – A fronte di un doppio attacco simultaneo alla popolazione (a rischio sia per la diffusione di un virus poco noto che per l’instaurazione di un regime di autoritarismo statale), la narrativa ha continuamente confuso i piani, inducendo a credere che militarizzazione, controllo, disciplinamento e propaganda fossero mezzi indispensabili per il contenimento del virus. In questo modo, il nuovo Stato etico ha potuto rivestire le operazioni biopolitiche e necropolitiche che andava conducendo con una vernice di “bene comune e protezione dei fragili”.

Militarizzazione del territorio – Figlia di una lunga manovra cominciata ben prima della pandemia, la presenza ubiqua di pattuglie di poliziotti, carabinieri, vigili e soldati a controllare – talvolta in maniera violenta – le autocertificazioni e la legittimità degli spostamenti ha preparato la cittadinanza a una militarizzazione del territorio che, presentandosi dapprima come necessità sanitaria, è rapidamente diventata una forma particolarmente odiosa di controllo sociale.

Danse macabre & terrore – Dai timbri della comunicazione mediatica alla conta dei morti, dalla pornografia delle terapie intensive alle ronde delle FF.OO. con i megafoni, dai posti di blocco al timore di essere, a nostra volta, portatori di contagio, e quindi assassini (sia pure involontari) delle persone care, l’esposizione alla morte, all’orrore e alla paura è stata continua, martellante e angosciosa. La quantità di terrore diffuso nell’etere e assorbito dal corpo sociale nei primi mesi del 2020 è in dosi mai sperimentate dalle nostre generazioni, sufficiente a indurre stati di paranoia, terrore e fobia anche in soggetti relativamente stabili. In alcuni casi, essa potrebbe aver peggiorato, via effetto nocebo, l’andamento della malattia stessa.

Abbandono – Le strutture della sanità pubblica hanno dapprima abbandonato i malati e i loro parenti a se stessi con la disattivazione dei presidi medici territoriali (medici di famiglia, ambulatori, consultori); poi hanno secluso i malati negli ospedali, rendendoli irraggiungibili dai prossimi proprio nel momento di maggior bisogno e gettando gli altri nella più angosciosa incertezza sulla sorte dei propri cari. Combinata con la chiusura ex lege dei luoghi di promozione della salute (palestre, dojo, studi di terapeuti non-biomedici, parchi, piscine, spiagge ecc.), ciò ha creato le migliori condizioni possibili per un disastro sanitario. La situazione di abbandono è stata poi particolarmente grave per i gruppi marginali, o marginalizzati, che durante il lockdown si sono trovati in una sorta di invisibilità al quadrato.

Trionfo del bullshit job – Mentre la vita sociale spariva dai radar, l’infernale macchina amministrativa detta governance (fatta di burocrazia, regolamenti, reviews, adempimenti, scadenze, formulari, progetti, report, riunioni, verbali, protocolli) non solo non si è mai fermata, ma è diventata, se possibile, ancor più schiacciante, facendo aumentare, in tutti i settori, la proporzione quotidiana di bullshit job a cui i lavoratori sono condannati.

Instabilità del vocabolario – Lo scriveva già Tucidide nel descrivere la guerra civile di Atene: «Cambiarono a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’audacia sconsiderata fu ritenuta coraggiosa lealtà verso i compagni, il prudente indugio viltà sotto una bella apparenza, la moderazione schermo alla codardia, e l’intelligenza di fronte alla complessità del reale inerzia di fronte a ogni stimolo; l’impeto frenetico fu attribuito a carattere virile, il riflettere con attenzione fu visto come un sottile pretesto per tirarsi indietro». Nel lockdown parole come “emergenza”, “sicurezza”, “altruismo”, “apprendimento”, “ripresa” hanno perso le sfumature e i “giochi linguistici” precedenti per assumere un significato monocorde, da neolingua orwelliana. Un significato funzionale all’espansione del capitale, naturalmente.

Semplificazione violenta – La narrativa dominante ha imposto, in ogni momento della pandemia, la drastica semplificazione del ragionamento complesso e del comportamento intelligente: dalla riduzione delle cause del covid-19 al virus Sars-Cov-2 all’identificazione di distanza e sicurezza, dall’obbligo di comportamenti stereotipati a “campagne informative” talmente semplificate da arrivare a esser false. Come in altri momenti della storia nazionale (v. il crollo della diga del Vajont), l’ingiunzione a «rispettare i morti» serve a mettere il bavaglio a ragionamenti critico e perplessità.

Scomparsa delle soglie – Perché i luoghi possano esercitare le funzioni per cui sono previsti, è indispensabile non solo che siano costruiti in modi specifici, ma anche che fra di loro vi siano soglie, varchi, membrane. Ogni luogo è un setting, a partire dalle stanze casalinghe (gestione della cucina, occupazione del bagno, accesso regolato alle camere altrui) fino ad arrivare alle “stanze tecniche” (lo studio di un medico, una chiesa, una sala operatoria, un’aula scolastica ecc.); e ogni setting ha le sue regole: così come i cani non entrano in chiesa, nel setting psicoterapico i cellulari non suonano. Le soglie hanno dunque una funzione cruciale e il loro venir meno è causa di sofferenza (v. la coabitazione coatta dei detenuti o l’impossibilità di svolgere certe funzioni in vista di altri). Durante il lockdown, gli spazi sono stati riconfigurati all’insegna della sparizione delle soglie e della più totale confusione: il salotto che diventa l’ufficio, la cucina che diventa il bar, l’antibagno che diventa l’aula, con genitori che cucinano, fratelli che urlano, gatti che mangiano i cavi. L’impossibilità tecnica di fare quel che, pure, saremmo chiamati a fare (imparare, insegnare, lavorare, curare, riflettere) va di pari passo con la violenza simbolica che reinquadra ciascun “libero e uguale cittadino” all’interno delle sue condizioni materiali di esistenza.

Regolamenti di conti fra grande padronato, PMI e lavoratori – Sotto il mantello dell’emergenza si sono regolati molti conti fra bande di capitalisti. Piccola e media impresa e, in generale, il mondo della cultura e dell’arte ne sono usciti stritolati, come anche diverse altre categorie di lavoratori, nella più completa sudditanza dei sindacati alla versione dei fatti imposta dal governo. È facile ipotizzare l’effetto psicologico di questa precarizzazione sulle famiglie in lockdown.

Appiattimento dei ruoli sociali – L’impossibilità fisica di agirli ha appiattito i ruoli sociali (non poter frequentare la mia amica del cuore non mi permette di essere amica del cuore, non poter andar al circolo di lettura riduce la mia funzione di presidente del circolo dei lettori, ecc.), abbattendo sia la complessità della vita sociale che quella della personalità. I bambini sono letteralmente spariti dal panorama sociale, consegnati alla violenza sottile, ma alla lunga devastante, della DAD. Particolarmente grave sugli adolescenti, questa “monadizzazione” – che riduce la complessità della vita a mera sopravvivenza – è una delle tecniche standard dei sistemi di effrazione psichica.

Incertezza ed Eterno ritorno – Il continuo cambio di regole e di panorama è ormai un fatto introiettato: dal gennaio 2020 a oggi, a colpi di DPCM e DL, si sono susseguiti oltre trenta scenari differenti, ciascuno dei quali ha riconfigurato spazi, tempi, diritti e possibilità. L’incertezza sul presente e sul prossimo futuro è stata, ed è, continua e paralizzante.

Rovesciando la logica della quarantena (che prevede l’isolamento di una parte della popolazione per un periodo definito), nel lockdown la segregazione non ha mai avuto un termine certo. In seguito, confinamento e liberazione si sono susseguiti in modi imprevedibili, formando una specie di nastro di Moebius temporale che ha rotto il nostro rapporto con il tempo: mentre da un lato la narrativa bellico-sanitaria descriveva il procedere delle sue battaglie lungo un tempo lineare, indicando la meta della riapertura totale come sempre a portata (purché tutti facciano i bravi), il dispositivo-lockdown e poi le zone a colori ci hanno bloccati in una circolarità in cui qualsiasi momentanea liberazione era già inficiata, fin dall’inizio, dal nuovo pezzo di narrativa dietro l’angolo (il tampone non è sicuro, il vaccino copre nove mesi, poi sei, poi cinque, poi quattro, la variante delta, la variante omicron e così via).

Ricostituzione del corpo (eroico e sano) della nazione – Strappata ogni autonomia ai singoli e alle collettività, l’unica speranza – simbolica e materiale – di uscire dalla crisi è affidata agli esperti e dev’essere accompagnata con l’adesione a riti apotropaici di portata nazionale (l’inno alle finestre, la denuncia alla tv del vicino che va a correre, il teatro sociale della mascherina, la vaccinazione di massa), veri e propri rituali di ricostituzione del mito della nazione e di conformazione dei singoli al corpo unitario dello Stato. Chi non aderisce alla narrazione e all’etica patriottica è automaticamente un traditore che merita il pubblico disprezzo e la condanna a una segregazione selettiva più vincolante (come accade oggi nei confronti dei non-vaccinati).

Sospensione degli istituti culturali fondamentali – Saluto ai morti, saluto ai nuovi nati, diplomi, lauree, matrimoni: qui basti dire che nessuna società può reggere la sospensione dei suoi istituti fondamentali senza rischiare la catastrofe culturale, la «fine del mondo» descritta da Ernesto de Martino. Tale catastrofe è stata schivata tramite i surrogati virtuali degli istituti culturali, i quali però, come da manuale, causano sofferenza esistenziale e perdita di senso del mondo.

Uso politico dell’assurdo – Lo stupore e l’incredulità («Ma non può essere!») che molti hanno provato è quella di chi, di fronte a una realtà a cui letteralmente non si può credere, vive una scissione quasi schizofrenica tra la parte di sé che ne fa l’esperienza e quella che la osserva. Da quasi due anni le nostre scelte avvengono in un panorama di condizioni paradossali. Quando le regole non sono stabili e le azioni sono insensate dal punto di vista logico o etico, chi deve agirle è costretto a sopprimere il principio di non contraddizione. S’installa un congegno simile ad un “bypass del pensiero critico” che, svincolate le azioni dal loro senso, cerca di ancorare i comportamenti a qualcos’altro (ad es. al teatro sociale del “bravo cittadino”, al bisogno di fare come gli altri, alla speranza di uscire dall’incubo ubbidendo o di trovare un nemico su cui scaricare le colpe). Saltata la consueta logica del mondo e in assenza di tenuta critica, quest’ancoraggio d’emergenza si fa sempre più cruciale e indiscutibile – anche perché non resta altro. Nel frattempo, le azioni si rinforzano anche per mero automatismo: dimentichiamo di togliere la mascherina, esitiamo ad abbracciare gli amici, ci sentiamo in colpa se tossiamo in pubblico, esibiamo il green pass.

Dismisura – Gli spazi del terrore hanno come tratto fondamentale la dismisura, un’imprevedibile sproporzione fra cause ed effetti, un atroce oltranzismo delle regole a scapito del senso comune. Una delle caratteristiche più perturbanti dei regimi totalitari è quella di vietare cose che non è possibile vietare. Come in carcere, la logica dell’impianto normativo è rovesciata: non più “è tutto permesso, salvo ciò che è espressamente vietato”, ma “è tutto vietato salvo ciò che è espressamente permesso” (da qui, tra l’altro, il carattere sempre ipertrofico degli impianti normativi in regime totalitario). Come in certi racconti dell’assurdo, o in certi sogni sotto tirannia, le “banalità di base” della vita umana possono diventare attentati. Così, nel lockdown era vietato vedere i propri cari, stare con gli amici, prendersi cura del prossimo, innamorarsi, andare a sentire un concerto, fare due passi; a tutt’oggi continua a essere difficilissimo assistere i malati; e nel frattempo è stato vietato, ad alcuni, di andare a vedere la recita scolastica dei propri figli o di prendere i mezzi. La dismisura coincide è con l’organizzazione ferrea della disumanità.

Effetto palude – Nelle paludi, qualsiasi movimento compiuto da chi vi si trova immerso aumenta la capacità di risucchio del sistema stesso. Per quanto timida essa fosse, l’adesione iniziale alle politiche di contenimento è diventata rapidamente una palude, da cui è difficilissimo uscire senza sconfessare le proprie scelte precedenti e senza ripensare criticamente la narrazione a cui – per un lungo attimo – abbiamo creduto. Le azioni descritte, volta a volta, come necessarie al “ritorno alla normalità” hanno alterato i connotati di quello stesso mondo sociale che, attraverso di esse, si sarebbe dovuto riconquistare.

Cooptazione della vittima – I dispositivi incrementali, o “paludi”, cooptano le proprie vittime per perpetrarsi. La narrativa bellico-sanitaria, che prevede volta a volta un solo comportamento protettivo legittimo, troverà in chi adotta tale comportamento uno zelante sostenitore: nello sforzo di restaurare la normalità perduta e di vedere rinforzata la propria scelta, costui tenterà di convincere altri ad aderire a quella che viene narrata come la via di salute. Il rieducato diventa rieducatore e lavora in maniera manipolativa all’interno delle relazioni, controllo e autocontrollo diventano i cardini delle relazioni fra soggetti.

Abolizione della pluralità – Oltre a dimostrare che la risposta etica dei soggetti dipende dalle relazioni di potere in cui sono presi, gli studi di Stanley Milgram e Philip Zimbardo hanno anche indicato uno dei principali fattori di protezione: la molteplicità delle opinioni. A fronte di un solo rappresentante della Scienza, i soggetti sperimentali ubbidiscono anche contro i propri principi etici; a fronte di più rappresentanti in disaccordo, invece, sono molto più liberi di disubbidire agli ordini. È una delle ragioni per cui la sparizione del pluralismo dall’informazione pubblica è risultata così inquietante, su un livello, e rassicurante su un altro, nonostante il palese fallimento comunicativo degli “esperti” e i molti episodi di falsificazione delle informazioni. Se si mettono in parallelo la narrativa unica, il ritorno dello Stato salvifico e paternalista e la retorica bellica di unità del corpo della nazione, ne risulta un quadro generale profondamente disturbante per le sue affinità col fascismo storico.

Riscrittura delle regole della prossemica – Le “bolle” che regolano la distanza fra individui hanno subito un rapidissimo e profondo rimaneggiamento, con la riscrittura delle regole di comportamento: oggi è normale scansarsi con veemenza per strada, rifiutare il contatto con i conoscenti o restare a distanze che, fino a due anni fa, avrebbero denotato aperta inimicizia. Apparentemente minore, si tratta in realtà di un mutamento di costumi che tocca parti intime e antiche della costruzione culturale, costringendo a una “doppia lettura” dei corpi (come si muovevano prima, come si muovono adesso) che ricorda lo straniamento culturale degli antropologi su campo.

Senso di colpa – Non c’è bisogno, in questa sede, di evidenziare il continuo scivolamento delle responsabilità verso il basso, ben riassunto dal sottotesto di tutte le comunicazioni governative e mediatiche di questi due anni: «se non vi ammalate è merito nostro, se vi ammalate è colpa vostra». È però utile sottolineare quanto l’angoscia di essere veicoli di morte si apparenta all’angoscia dei prigionieri politici di tutti i tempi, le cui scelte costituiscono un rischio per le vite dei loro familiari.

Emozioni politiche & scorie tossiche – Françoise Sironi ha mostrato fino a che punto le condizioni politiche e geopolitiche in cui viviamo plasmano le nostre emozioni. Un effetto di lunga gittata dell’esperienza del lockdown sono i “prodotti di scarto” della segregazione: la moltitudine di emozioni che si sono provate e che, in assenza di possibilità di espressione, si sono accumulate in una specie di serbatoio. Rabbia, dolore, paura, tristezza, noia, disgusto, ma anche, soprattutto nel primo lockdown, sollievo dai ritmi di vita folli in cui eravamo immersi (e a cui oggi molti sono tornati) e la gioia di recuperati legami familiari. Tutte queste emozioni, vissute intensamente, si sono intrecciate e depositate nell’inconscio corporeo.

Dagli studi sul trauma dei soldati di ritorno dal fronte e sulle vittime di violenza intenzionale, sappiamo che queste emozioni possano riversarsi in maniera apparentemente casuale all’interno del contesto di vita, familiare e sociale, a cui chi le serba ha fatto ritorno. È probabile che molte delle emozioni apparentemente “insensate” che ci troviamo a vivere in questo momento siano epifanie, zampilli dal serbatoio emotivo originato dal lockdown. Ed è possibile che, attraverso il bypass del pensiero critico e l’abitudine ad azioni non basate sulla logica, queste riserve emotive vengano oggi a canalizzarsi in azioni illogiche o puramente apotropaiche.

Azzeramento del mondo sociale – La sospensione del mondo sociale è stata parte del processo di effrazione e la promessa del suo ristabilirsi oggetto di ricatto e di desiderio irrealizzabile. È un elemento del tutto nuovo, il cui peso psichico è difficile da valutare perché si tratta di un’esperienza di massa letteralmente senza precedenti.

È noto che i prigionieri hanno un rapporto intenso e ambivalente con il mondo sociale che, appena fuori dalle mura, continua imperterrito nel suo trantran quotidiano; ed è altrettanto noto che uno dei mezzi dei torturatori è quello di indurre i prigionieri a credere di esser stati abbandonati dai loro cari o traditi dai compagni di lotta. Anche in questi casi, tuttavia, il fatto che il mondo continui pur sempre a esistere è di basilare importanza per la regolazione psichica ed emotiva. Durante il confinamento, invece, il mondo “là fuori” ha cessato di esistere e poiché senza mondo culturale la continuità esistenziale è impossibile, ciò ha configurato una sorta di “apocalisse culturale minore”. Una situazione del genere induce ad agganciarsi a qualsiasi succedaneo, trasferendo una parte del proprio investimento nel mondo in investimento negli schermi, nei social, nei servizi streaming.

Mediazione tecnica delle relazioni – Se l’isolamento dei soggetti s’inserisce nella moderna propensione a costruire individui-monade, autonomi, competitivi e interessati al proprio vantaggio, il dispositivo-lockdown ha permesso un balzo avanti educando la popolazione al dominio reale sulle soggettività. Quando ogni relazione deve passare per la mediazione di una macchina, anche le zone di penombra – i commons affettivi fatti di corpi, timbri, inflessioni, odori, movimenti, accenni – diventano terreno di estrazione di plusvalore. Lungo le prime fasi di quest’addestramento abbiamo scoperto, all’improvviso, che l’intero processo era possibile solo perché gran parte delle infrastrutture erano già pronte. Con il suo proseguire, nelle nostre menti si è impresso che vita e socialità non solo non van più insieme ma, anzi, possono essere antagoniste. Gli effetti a breve e lungo termine sono stati, e sono, sotto i nostri occhi: persone chiuse in casa da anni; che escono solo con due o tre mascherine sul naso; morti solitarie; e la guerra civile nelle famiglie, nei gruppi, fra amici, l’enorme scia di lutti relazionali di cui tutti stiamo facendo esperienza.

Mean new world

Le situazioni non-ordinarie inducono processi non-ordinari. La psiche di un soldato in battaglia o di chi sta subendo una violenza non funziona come quella di uno scolaro, di un impiegato o di un bagnante estivo. Per questa ragione, i modelli con cui descriviamo la realtà ordinaria hanno poca presa negli stati d’eccezione e bisogna cercarne altri.

In quanto evento estremo, il dispositivo-lockdown ha indotto processi non-ordinari, ri-plasmando il senso di sicurezza e pericolo, fragilizzando i soggetti e rendendoli ancor più dipendenti dall’informazione e dalla forma mentis gregaria veicolate dai social. Ogni operazione di effrazione e rottura dell’involucro, è stata presentata, volta per volta, come un’imprescindibile operazione amministrativo-politica, attuata dal governo a causa della pandemia per il bene dei cittadini. La loro violenza, tuttavia, ha schiacciato i singoli che l’hanno subita in reciproco isolamento, persuadendoli all’adesione con la promessa che l’obbedienza avrebbe permesso di evitare il peggio; ha indotto shock e stupore, paralisi cognitiva, incertezza esistenziale; ha fatto sparire i corpi dalla vita delle persone, inducendo quella che Bifo definisce sensibilizzazione fobica; ci ha addestrati efficacemente all’assurdo che avrebbe, di lì in avanti, governato le nostre vite.

Ipotizziamo che ciò abbia prodotto nella popolazione generale uno stato dissociativo che potrebbe spiegare tanto la necessità di trovare spiegazioni alternative, non importa quanto farlocche (le fantasie di complotto descritte in La Q di Qomplotto, di Wu Ming 1), quanto lo stato di ipnotica negazione dell’evidenza in cui la maggioranza sembra caduta. Ipotizziamo, inoltre, che la “fatica del concetto” che quasi tutti gli intellettuali renitenti alla narrativa governativa hanno provato – ovvero la difficoltà di riportare quanto sta avvenendo a un quadro concettuale noto – dipenda, più che dalla novità degli eventi, dallo stordimento che la violentissima gestione pandemica ha indotto in noi.

Nel frattempo la violenza strutturale ha allargato la sua presa. L’abitudine offusca l’indecenza del panopticon delle altrui vite imposto dalla DAD; la piccola e media impresa è sostanzialmente morta; di potenziare medicina territoriale, edilizia scolastica e mezzi pubblici, di mandare la gente in pensione anticipata, di allargare i presidi di salute, di migliorare le catene produttive del cibo non si parla nemmeno più. Il problema, com’è noto, sono i no-vax, i lavoratori in sciopero, i ragazzini senza GP sugli autobus. Il problema è qualunque forma di “prossimo” che non sia uno zelante sostenitore dell’unica verità vera e dell’unico comportamento giusto.

Il risultato fattuale imparenta il dispositivo-lockdown ai campi di rieducazione politica, intesi, in senso ampio, come luoghi di decostruzione della forma umana di chi vi accede al fine di plasmarne una differente, adatta al mutato contesto socio-politico-antropologico, ai nuovi valori e ai nuovi comportamenti che esso richiede. Esso ha insegnato, con la brutale evidenza dei fatti, che si può campare, lavorare e consumare anche come monadi assolute e perfino nella sparizione materiale degli altri; e, per farlo in tempi così rapidi e con tanta efficienza, ha dovuto agire tutta la violenza necessaria.

Dalla letteratura psicologica sulle violenze intenzionali sappiamo che, in assenza di altri appoggi possibili, le persone torturate o violate (il cui involucro è stato sfranto con la crudeltà) tendono ad adottare il punto di vista, le idee e i valori dei carnefici. Questo rinforza la nostra ipotesi: è possibile che, proprio perché vittime di un trauma intenzionale, molti di noi si siano trovati – senza sapere come – ad adottare la cosmovisione del carnefice. Si sa inoltre che, una volta usciti dai luoghi della violenza, la principale illusione delle vittime è quella di ritornare al mondo di prima. Dove c’è stata effrazione, però, non è possibile attuare una restaurazione e l’unico modo di procedere è “disfare” la nuova, spettrale e inabitabile normalità per innescare un’ulteriore trasformazione. È difficile che un processo di questo genere sia pensabile per tutte le persone che sono state catturate e violentate dal dispositivo-lockdown, ma non è nemmeno impossibile. Si può pensare, per cominciare, all’immediato ristabilimento della pluralità (informativa, terapeutica, associativa, politica, ma poi anche, in senso pieno, antropologica) e a come avviare processi di ricostruzione collettiva di ciò che è andato distrutto, a partire dalla fondamentale possibilità di fiducia, vicinanza e solidarietà fra umani. Ma, soprattutto, bisogna cominciare subito a inventare soluzioni non violente, non autoritarie, non fasciste per le infinite questioni che si presenteranno nei prossimi decenni: dalla salute delle comunità all’autonomia di singoli e collettivi, dall’approvvigionamento energetico al cambiamento climatico, dalla qualità del cibo alla mobilità. Si tratta, cioè, di sottrarsi fin d’ora – nel nostro intimo, oltreché nelle nostre pratiche – a un sistema che ha mostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, di fare davvero schifo.

(Mentre stavamo ultimando questo post abbiamo avuto notizia di questa call for papers dell’università di Utrecht: in un afflato di ottimismo, la prendiamo come conferma del fatto che la sensibilità globale anticapitalista e antiautoritaria si sta, finalmente, riscuotendo. Era ora.)

da Carmilla