Il Transnational Institute ha analizzato gli effetti delle politiche sicuritarie sul clima: dalla criminalizzazione delle persone in transito al rafforzamento degli apparati militari. Un approccio che non fornisce soluzioni al cambiamento climatico ma ne rafforza gli effetti negativi
di Marta Facchini
Rendere il cambiamento climatico un problema di sicurezza da affrontare attraverso soluzioni militari apre a pericolose derive. Ad analizzare la “militarizzazione” della crisi climatica, e come si caratterizza, è Nick Buxton, ricercatore del Transnational Institute (Tni), nel saggio “The dangers of militarising the climate crisis” pubblicato nell’ottobre 2021 e inserito in un filone di studi che Tni ha inaugurato nel 2015 con “The Secure and the Dispossessed. How the military and the corporations are shaping a climate-changed world”.
L’autore enuclea gli effetti determinati dalle strategie che forniscono una soluzione militare alle conseguenze del cambiamento climatico, evidenziandone le criticità connaturate. Uno dei pericoli delle soluzioni securitarie è “che, per la loro stessa natura, cercano di mantenere le condizioni dell’esistente”, si legge nel report. Questo conduce a “vedere come nemico chiunque possa turbare lo status quo, come i rifugiati oppure gli attivisti per il clima. Inoltre preclude che si presentino soluzioni legate alla giustizia climatica che invece imporrebbe di modificare i sistemi economici, una delle cause del climate change”.
I piani militari per affrontare la crisi climatica, sottolinea l’autore del saggio, si basano su un preciso (ma ipotetico) effetto a catena: le problematiche causate dal cambiamento climatico condurranno a una scarsità di beni che porterà a conflitti le cui soluzioni potranno essere fornite solo in un’ottica securitaria. Questo paradigma, “un filo distopico” secondo la definizione del ricercatore, soffre di una mancanza di base: i piani per la sicurezza si concentrano sulle risposte da dare su impatti già avviati ma non intervengono su ciò che li ha determinati. Non tengono in considerazione, per esempio, le responsabilità delle “multinazionali e delle nazioni che di più contribuiscono all’emissione di gas serra” né suppongono di intervenire sulle “politiche economiche e gli accordi di libero scambio che hanno reso molte persone più vulnerabili” proprio ai cambiamenti legati al clima.
Non solo. Queste strategie non mettono in discussione il ruolo degli apparati militari. Al contrario finiscono per rafforzali perché, in previsione della insicurezza futura dovuta alla crisi climatica, aumentano i finanziamenti messi a disposizione dai governi. Così facendo spingono all’incremento della vendita di armi, apparecchiature per la sorveglianza e prodotti utilizzati per la sicurezza interna. Un rapporto pubblicato nel maggio 2021 da Marketandmarkets, citato nell’analisi di Tni, evidenzia una forte espansione dei profitti per l’industria legata alla gestione della sicurezza degli Stati: le cause della crescita sono rintracciate proprio nelle “condizioni climatiche dinamiche, calamità naturali e l’enfasi posta dai governi sulla politiche di sicurezza”. Secondo la previsione di Marketandmarkets questo settore crescerà del 6%, mentre quello legato al controllo delle frontiere del 7%.
Le narrazioni sulla sicurezza climatica definiscono come “minaccia” le migrazioni di massa. Nel 2007 il rapporto “Age of consequences” del Pentagono aveva descritto le migrazioni sul larga scala come l’effetto più preoccupante legato all’aumento delle temperature e del livello del mare, sottolineando come si sarebbero innescati “gravi problemi” di sicurezza che avrebbero portato ad accrescere le tensioni sui territori. Nel 2008 un rapporto dell’Unione europea sul clima aveva inserito le migrazioni tra le più “significative” minacce alla sicurezza nazionale (dopo i conflitti per le risorse, i danni economici alle città e le controversie territoriali) chiedendo di rafforzare le politiche comunitarie di fronte allo “stress migratorio aggiuntivo legato all’ambiente”. Secondo l’autore del saggio, è anche a partire da questo assunto che in Europa è stata consolidata la militarizzazione dei confini: solo Frontex, l’Agenzia europea di controllo delle frontiere, ha visto aumentare il suo budget da 5,2 milioni di euro nel 2005 a 460 milioni di euro nel 2020 con 5,6 miliardi di euro riservati tra il 2021 e il 2027. Presentare le persone migranti come un “pericolo” le ha criminalizzate, limitando la loro possibilità di accedere agli strumenti di tutela previsti dal diritto internazionale.
“The dangers of militarising the climate crisis” sottolinea come il settore militare sia una fonte di considerevoli emissioni di gas serra, aspetto che non viene preso in considerazione dalle politiche per il clima. Lo studio “Costs of war”, pubblicato nel 2019 dalla Brown University negli Stati Uniti, aveva mostrato come le emissioni riconducibili al Dipartimento Usa della Difesa tra il 2001 (quando è iniziata l’invasione militare dell’Afghanistan) e il 2017 sono state pari a 1,2 miliardi di tonnellate di gas serra. L’organizzazione Scientists for Global Responsibility ha stimato, in uno studio pubblicato nel 2021, che nel 2018 nel Regno Unito le emissioni dovute all’apparato militare sono state pari a 11 milioni di tonnellate di gas serra, l’equivalente di sei milioni di macchine. Cinque compagnie di armi con sede anche negli Stati membri dell’Ue (Airbus, Leonardo, PGZ, Rheinmetall e Thales) hanno prodotto insieme almeno 1,02 milioni di tonnellate di gas serra. Questo è dovuto alla “tentacolare” infrastruttura degli apparati militari: l’esercito, infatti, consuma suolo (è proprietario di basi militari) e i suoi sistemi di trasporto sono dipendenti dal carburante. Un caccia F-15, per esempio, brucia 342 barili di petrolio all’ora che è difficilmente sostituibile con energia derivante da fonti rinnovabili.
Infine, scrive l’autore, l’apparato militare ha un suo peso nel cambiamento climatico anche perché le sue risorse finanziarie non sono utilizzate per operazioni di prevenzione né per interventi che possono contribuire a mitigare le conseguente disuguaglianze e povertà. In Canada, ad esempio, il governo del primo ministro Trudeau ha speso 27 miliardi di dollari per il Dipartimento di difesa nazionale ma solo 1,9 miliardi per quello dell’ambiente. Venti anni fa la situazione non era diversa. Il Canada aveva speso 9,6 miliardi per la difesa e solo 730 milioni per la tutela dell’ambiente.
da altreconomia