Rojhilatê Kurdistanê (Kurdistan iraniano): impiccagione in vista per altre tre donne curde dissidenti
Come in Sudafrica all’epoca dell’apartheid, in Iran le “forche della vergogna” continuano a mietere vittime tra i dissidenti (soprattutto – ma non solo – quelle curde)
di Gianni Sartori
Non pare proprio attenuarsi la politica repressiva (al limite del genocidio) del regime iraniano nei confronti dei dissidenti curdi. E contro le donne in particolare.
Arrestata con alcuni familiari il 6 giugno 2023, Pakhshan Azizi (da anni militante attiva in difesa dei diritti delle donne ) e poi rinchiusa nel carcere di Evin, in questi giorni è stata condannata alla pena capitale dal Tribunale “rivoluzionario” islamico di Teheran. Accusata di far parte del PJAK (Partito per una vita libera del Kurdistan), in oltre 15 mesi di isolamento aveva subito torture sia fisiche che psicologiche.
Solo un paio di settimane fa (il 14 luglio) la sindacalista curda Mohammadi era stata ugualmente condannata a morte dal tribunale “rivoluzionario” islamico di Rasht (capitale della provincia di Guilan, la località dove era stata arrestata il 5 dicembre 2023) per “partecipazione a ribellione armata”. Attiva da oltre un decennio in un sindacato legale, si era opposta pubblicamente alle torture e alle esecuzioni extragiudiziali nelle carceri iraniane. Anche Sharifeh è stata detenuta in totale isolamento per circa tre mesi, senza possibilità di ricevere visite o di poter avere contatti telefonici con i figli. Inoltre l’11 giugno di quest’anno era stato arrestato anche suo marito.
E presto il cappio potrebbe stringersi al collo anche di un’altra militante curda, Warisheh Moradi.Era stata arrestata un anno fa a Sine (Sanada) in quanto esponente di KJAR (Società delle donne libere del Kurdistan orientale) ora su di lei incombe la concreta minaccia di una condanna a morte.
Naturalmente le forche iraniane non vengono innalzate solo per i dissidenti curdi.
E’ di questi giorni l’ennesimo appello di Amnesty International (a cui ci associamo) per l’accademico svedese-iraniano Ahmadreza Djalali, docente e ricercatore (in medicina dei disastri e assistenza umanitaria) in diverse università europee (Belgio, Italia, Svezia…).
Arrestato nell’aprile 2016 e accusato arbitrariamente di “spionaggio e collaborazione con Israele”, avendo ormai esaurito tutte le vie legali per annullare la condanna a morte, si trova in una situazione di rischio imminente di esecuzione.
Come da manuale, è stato sottoposto a isolamento carcerario, maltrattamenti e torture (per farlo “confessare”). Inoltre le sue condizione di salute si vanno aggravando seriamente.
Il suo processo è stato definito “iniquo” da A.I. che ne chiede l’immediata scarcerazione.
Dichiarandosi sempre innocente (e dicendosi convinto che le prove siano state fabbricate ad arte) , il 26 giugno era entrato in sciopero della fame (forse,ma non si sa con certezza, attualmente sospeso).
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