Il ragazzo inseguito, L. B., non ha più fiato per continuare a correre, rallenta, è disarmato, è scalzo, si ferma. Uno dei carabinieri lo raggiunge e lo spinge con violenza, scaraventandolo fra due macchine parcheggiate. «Bravo» si complimenta il collega gridando. «Vaffanculo, vaffanculo» urlano invece contro il ragazzo disteso sull’asfalto. Si gettano su di lui e sul suo corpo inerme e iniziano a colpirlo con calci e pugni. Il motivo dell’inseguimento e del fermo ha a che fare con la droga, ma questo lo scoprirò solo il giorno dopo.

Attraverso di corsa la strada che ci separa gridando di smetterla, cercando di attirare l’attenzione dei passanti. Smettono di picchiarlo quando vedono che ho tirato fuori il cellulare per riprenderli. Hanno il fiatone, sono agitati, lo tengono bloccato a terra, schiacciato dal peso dei loro corpi. Lo ammanettano. Lui non oppone resistenza, fa fatica a respirare, è in stato confusionale, gettato fra le due auto, con il viso sul cemento. Emette dei rantoli.

Mentre lo ammanettano, i carabinieri mi chiedono insistentemente di «favorire un documento». Rispondo che non ho alcun problema a presentare un documento ma chiedo loro di accertarsi se il ragazzo sta bene. «Sta benissimo» risponde uno di loro. «Non sta bene, non mi sembra una persona che sta bene, chiamate un’ambulanza», insisto. Chiedo direttamente a lui come si sente ma non è in grado di rispondermi. È ancora disteso a terra, cerca di riprende fiato, sembra sotto shock. Invece dell’ambulanza i carabinieri chiamano un’altra volante, che impiega sette minuti ad arrivare. In quei sette minuti L.B. riesce faticosamente a mettersi a sedere. Gli chiedo se parla italiano e mi risponde di sì.

«Come stai?».

«Male».

«Cosa posso fare?».

«Ti prego, aiutami».

Domando alle persone che nel frattempo si sono radunate intorno alla scena se qualcuno ha dell’acqua. Gli porgo una bottiglietta ma è ammanettato e indolenzito, fatica a tenerla fra le mani, gli si rovescia addosso. Uno dei carabinieri prende il mio documento. «Non diffonda il video o la denunciamo. Sta intralciando un’operazione di polizia e può essere accusata di favoreggiamento».

Quando arriva la volante riprendo con il cellulare il momento il cui L.B. viene condotto verso l’auto dei carabinieri. Fatica a camminare dritto, ha la schiena inarcata e il passo è claudicante. Il carabiniere che lo sta portando verso l’auto mi dice che non posso inquadrarlo. Rispondo che non lo sto inquadrando, mi interessa riprendere le condizioni del ragazzo che hanno arrestato. Una collega del carabiniere arrivata con la volante mi chiede nuovamente il documento e mi ripete che verrò denunciata se dovessi divulgare il video. Dico che sono giornalista e che non c’è alcun bisogno di intimidirmi, le chiedo di spiegarmi per cosa verrò denunciata: «Per violazione della privacy», risponde.

Caricano L.B. nell’auto, che si siede con grande fatica per il dolore provocato dalle percosse. L’auto dei carabinieri parte a grande velocità e sirene spiegate e non so se lo stiano portando in ospedale o in caserma. Rimango ancora per circa mezz’ora sul posto dell’aggressione e mi confronto con altri testimoni della scena. Una persona, che ha preferito rimanere anonima temendo ripercussioni da parte delle forze dell’ordine, mi dice che ha filmato la spinta e i pugni. Gli assicuro che non verrà coinvolto se non lo desidera e dopo un po’ di titubanza mi inoltra il video.

Il mattino dopo mi reco al Tribunale penale di Roma, in piazzale Clodio, dove avvengono le convalide degli arresti per direttissima, ovvero i procedimenti penali che si verificano quando una persona viene arrestata in flagranza di reato. Mi accompagna Gianluca Dicandia, avvocato che presta servizio a CivicoZero, una cooperativa sociale che si occupa di minori stranieri non accompagnati, poco lontana dal luogo dell’aggressione. Dicandia non ha assistito alla scena ma è stato allertato da una collega che invece si trovava sul posto e lo ha chiamato per fornire aiuto.

Io e l’avvocato Dicandia ci troviamo quindi in tribunale alle 9. Dopo circa un’ora di attesa vediamo avvicinarsi L.B., accompagnato dai poliziotti verso la sala dove si terrà l’udienza. Ha uno sguardo terrorizzato, il viso esausto. Mi avvicino a lui e gli chiedo se si ricorda di me: annuisce. Gli spiego che ho i video dell’abuso e che ci impegneremo per aiutarlo.

Non mi è permesso entrare nell’aula dove si svolgerà il procedimento e allora rimango fuori, in attesa che esca insieme all’avvocata d’ufficio che gli è stata assegnata, con la quale in seguito parlo e a cui consegno i video perché li possa depositare. In aula c’è uno dei carabinieri coinvolti nel pestaggio, lo riconosco, lui riconosce me: non ne è felice.

Apprendo che L.B. è un migrante senza fissa dimora: dorme per strada. È stato visto, secondo la versione dei carabinieri, al mercato Esquilino accompagnato da un cane mentre consegnava una dose di crack a un uomo italiano. Dalla bocca avrebbe sputato otto involucri di crack. Preso in flagranza di reato avrebbe consegnato il cane a un signore e avrebbe iniziato a correre per scappare dalle forze dell’ordine.

Al momento dell’aggressione a cui ho assistito correva scalzo. Ai piedi portava dei calzini con la scritta “Italia”, accompagnata dalla nostra bandiera.

Il Comando Provinciale dei Carabinieri di Roma, interpellato sulla vicenda, fa sapere che in merito alle informazioni ed ai video forniti, sono stati attivati approfondimenti il cui esito verrà riferito alla Procura della Repubblica di Roma, già informata.