In nome del decoro a Roma è vietato sedersi a terra. Multe a Trinità dei Monti
- agosto 31, 2021
- in decoro, misure repressive
- Edit
Il Regolamento di Polizia Urbana della Capitale proibisce di mettersi a sedere nel centro storico, criminalizzando i comportamenti dei singoli per non ammettere i limiti e le contraddizioni di un modello di crescita economica insostenibile, fondato sul consumo, sul turismo, sull’estrazione di ricchezza
250 euro a testa, mille euro in tutto, questo l’importo delle quattro multe date ieri pomeriggio a chi – Christian, Giulia, Chiara e la sottoscritta – si è seduto sulla scalinata di Trinità dei Monti. È questo l’esito del secondo appuntamento – dopo quello che ha visto multati sempre Christian e Federica – di De Gradino, «una piccola manifestazione spontanea in cui abbiamo deciso di mostrare la stupidità del Regolamento di polizia urbana che impedisce di sedersi sulla scalinata di Trinità dei Monti, per affrontare una questione apparentemente marginale con un gesto non solo simbolico, riappropriandoci in modo pacifico dello spazio pubblico».
Come ogni giorno, una squadra di vigili urbani, fischietti in bocca, faceva su e giù per la scalinata facendo scattare in piedi turisti e i romani che, ignari delle norme sul comportamento del nuovo Regolamento di Polizia Urbana di Roma Capitale, si erano seduti.
Atti e gesti quotidiani come sedersi, riposare, e mangiare in uno spazio pubblico sono diventati, nella città-vetrina del turismo, comportamenti criminalizzati, vietati, punibili con sanzioni amministrative – una multa, ma anche un Daspo, un ordine di allontanamento.
L’articolo 4 del nuovo Regolamento di Polizia Urbana di Roma Capitale, entrato in vigore nel 2019, è un lungo elenco di “comportamenti vietati nei luoghi pubblici”. In nome del “decoro”, concetto fumoso e indefinito, nel centro storico di Roma è vietato arrampicarsi, sdraiarsi o sedersi su monumenti (ma anche su pali dell’illuminazione pubblica, segnaletica stradale verticale, inferriate, fabbricati, muri di cinta e similari, alberi…), È vietato bivaccare. Ovvero, spiega il Regolamento con una descrizione circolare, lo stazionare in luogo pubblico in modo scomposto e/o contrario al decoro, nonché́ sedersi (ancora). È vietato consumare cibi e bevande sui beni del patrimonio storico, artistico, archeologico e monumentale.
Essendo il centro di Roma patrimonio Unesco, la sua funzione è, come si legge nel Regolamento di Polizia Urbana, prevalentemente “estetica”. Si può attraversare il centro storico di Roma, ammirarlo, ma non ci si può fermare. L’unico modo per farlo è consumare; e l’unico modo per “consumare” è pagare. Ci si deve sedere a uno dei tanti tavolini che hanno invaso le piazze e i marciapiedi.
Se Roma con la sua luce dorata accoglie e coccola, questo Regolamento l’ha trasformata in una città-museo punitiva e ostile.
«Il problema è che sono troppi» – mi dice, riferendosi ai turisti che sono tornati a frotte, uno dei vigili urbani. Come da cliché, c’è sempre, in queste situazioni, il vigile buono che in fondo è d’accordo con te ma non può dirlo. Il vigile buono in questione è d’accordo con me sul fatto che, se il problema è che “sono troppi” evidentemente multarli non è la soluzione.
Soprattutto quando la giunta spende milioni di euro per promuovere Roma come destinazione turistica internazionale e attirare sempre più turisti. Soprattutto quando i sindaci si fanno la guerra per scalare la classifica di visite e pernottamenti. Senza un piano, senza una visione, senza un’idea. Quelli poi vengono, e noi li multiamo. Bel piano.
Il vigile è d’accordo con me. Anche lui, come me, conserva il ricordo di una Roma diversa quando passeggiare, fermarsi, stare, e abitare il suo centro storico era piacevole. Questo adesso non è più possibile. Anche perché, mi fa notare il vigile stesso, il problema è che se il Regolamento vieta di sedersi praticamente ovunque in centro, perché i gradini sono monumenti da fruire esteticamente, si sarebbe almeno dovuta immaginare un’alterativa: allestire sedute, panchine, arredi urbani, altrove. Ma di panchine, a eccezione di quelle di marmo di Piazza Navone, non c’è ombra.
Per fortuna lo stesso sforzo punitivo contenuto nel Regolamento è poi applicato con la stessa logica spettacolare che si applica alla gestione della città-vetrina. Il vigile mi mostra l’obelisco in fondo alla piazza. Sulle sue gradinate, dove pure non si potrebbe stare, è seduta una comitiva di ragazzi. Ma le pattuglie presidiano soltanto i monumenti più noti – e, mi fa notare Giulia, appena si sale un po’ più su per la scalinata di Trinità dei Monti, dietro la balaustra, sono tutti seduti sui gradini. Ma siccome non si vede, non importa.
Ogni anno i negozianti lamentano la crisi del commercio, danno la colpa alla ZTL, al divieto di circolazione in automobile – come se davvero uno andrebbe mai a fare shopping in centro in macchina. Il problema, forse, è che non è proprio più piacevole andarci: non ci sono quasi più librerie, non ci sono bar che non siano turistici, non ci sono panchine dove fermarsi e riposare.
Qualche anno fa erano state chiuse anche tutte le fontanelle. Ci sono solo monumenti, da guardare, senza toccare. Che tipo di esperienza offre una città-merce del genere? Quali saranno le conseguenze della rottura del rapporto tra la città e i suoi abitanti? Qualcuno se l’è chiesto?
No, perché il paese dei balocchi è essenzialmente questo: un luogo senza futuro, dove nessuno si interroga sul futuro, sul nesso tra cause ed effetti, sulle conseguenze delle azioni e delle scelte, sugli scenari futuri possibili. Il paese dei balocchi è quel luogo in cui si fa di tutto per far crescere il numero di turisti e poi quando questo avviene non si sa come gestirli. Lì si multa. È quel luogo dove ogni decisione viene presa con una intenzionale ignoranza delle sue conseguenze, in nome del profitto a breve termine. Senza un piano. E siccome non c’è un piano, c’è una gestione securitaria.
Il centro di Roma rappresenta anche questo: lo spazio fisico dell’abdicazione al peso delle conseguenze, scaricate sui singoli, i cui comportamenti sono criminalizzati perché un capro espiatorio bisogna pur trovarlo pur di non ammettere i limiti e le contraddizioni di un modello di crescita economica insostenibile, fondato sul consumo, sul turismo, sull’estrazione di ricchezza. Abbiamo già avuto, in piccolo, un assaggio degli effetti di questo con la cosiddetta malamovida. A Venezia pare che saranno installati tornelli agli ingressi della città: a quanto pare non c’è fine alle trovate per continuare a scaricare altrove i costi di un modello insostenibile. Ma questo non può durare all’infinito, perché gli effetti, come mostra la crisi climatica, non sono mai esterni.
da DINAMOpress