Il buio e il silenzio di una caserma deserta. Una donna priva della libertà. Un uomo in divisa da carabiniere e un vigile urbano che godono del suo corpo di detenuta. Altri due militari che ascoltano, capiscono, e tacciono. È storia della notte tra mercoledì 23 e giovedì 24 febbraio. Stazione dei carabinieri del Quadraro, periferia a est della città. Una madre di 32 anni, detenuta in una camera di sicurezza della caserma dopo un arresto in flagranza per furto, ha rapporti sessuali completi e ripetuti con almeno uno dei tre carabinieri che l’hanno in custodia e con un agente della polizia municipale che è in quegli uffici. “Una violenza”, denuncia lei. “Un abuso” vigliacco consumato su chi è privato della libertà e dunque è di per sé in una condizione di “minorità fisica e psicologica”, ipotizza il procuratore aggiunto Maria Monteleone che procede nei confronti dei tre militari. E della loro stupefacente giustificazione: “È vero il rapporto sessuale c’è stato, ma quella donna era consenziente”.
I fatti, dunque. Almeno per come è possibile in questo momento ricostruirli incrociando il racconto della donna (che trovate in queste pagine) e quello consegnato dai militari alla loro catena gerarchica prima, alla procura della Repubblica, poi.
Mercoledì 23. S., 32 anni, nata a Crema e a Roma da qualche tempo, viene sorpresa in un magazzino dell’Oviesse del quartiere Casilino mentre ruba dei capi di abbigliamento. La donna è giovane, bella, e ha una vita complicata. Dice di essere ragazza madre, non ha una casa, non ha un lavoro, si appoggia nell’appartamento del suo compagno, un agente immobiliare. Il pomeriggio del 23, il suo verbale di arresto viene redatto nella caserma dei carabinieri del Casilino. “Andrai a giudizio per direttissima domani”, le spiegano. “Stanotte la passi dentro”. Nelle camere di sicurezza del Casilino non c’è posto. S. viene quindi trasferita alla stazione del Quadraro. Arriva che è notte. E di lei si “occupano” tre militari di turno (“un appuntato e due carabinieri – riferiscono fonti del Comando Generale – dal foglio disciplinare immacolato”). I tre arrivano in caserma quando S. è già nella sua cella. Hanno passato la serata fuori e si sono tirati dietro un amico, un vigile urbano. Hanno bevuto e fanno bere anche S. E qui – racconta lei – comincia il suo incubo. I quattro le aprono la porta della cella. Le dicono di seguirli in sala mensa. Il rapporto sessuale è ripetuto. E di almeno un carabiniere, S. memorizza i tatuaggi su una parte del corpo.
La mattina dopo, giovedì 24 febbraio, S. è in tribunale per la convalida del suo arresto per furto. È stordita, umiliata. Ricorda il sesso, non ha memoria di violenza fisica. Al giudice monocratico e al pm di udienza non racconta nulla. Viene scarcerata e, convinta dal compagno, nel pomeriggio si presenta alla stazione dei carabinieri del Casilino per sporgere denuncia. I militari la accompagnano al Policlinico Casilino, dove viene sottoposta al tampone vaginale e, visitata, si certifica “l’assenza di segni visibili di violenza sul corpo”.
La Procura comincia a indagare a ritmo indiavolato. Gli atti vengono secretati. Il racconto dettagliato della ragazza (a cominciare dal dettaglio del tatuaggio sul corpo di uno dei militari) trova riscontro. Gli indagati afferrano quanto scivoloso sia per loro il terreno e scelgono una strada antica. Se non c’è violenza fisica – argomentano – è la prova che non c’è stata violenza sessuale. S. ha fatto sesso perché è quello che voleva. E poi, S. è una “sbandata”. È un toppa peggiore del buco. Che, se possibile, rende ancora più determinato il procuratore, Maria Monteleone. Nella difesa dei carabinieri e del vigile urbano c’è infatti qualcosa che rende ancora più odioso quel che è accaduto. I quattro non capiscono – o fingono di non capire – che la violenza è nel presupposto della condizione in cui S. è precipitata la notte in cui i suoi carcerieri hanno goduto del suo corpo. Che diventa oltraggioso persino parlare di una “seratina” di alcool e sesso con una detenuta. Che non esiste consenso in un rapporto tra un uomo libero e una donna dietro le sbarre. Ma tant’è. La difesa, ad oggi, resta questa. Nell’imbarazzo profondo, nella vergogna, che ora diventano dell’Arma intera e del suo Comando generale.
Carlo Bonini da La Repubblica
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“Se non c’è violenza fisica – argomentano – è la prova che non c’è stata violenza sessuale.”
A parte che già il fatto, appunto, di un rapporto carceriere-detenuta è di per sè una violenza (ammettendo, oltretutto, la fragilità dell’abusata: allora diventa lecita la sottomissione?), sappiamo bene come vanno a finire queste cose: se lei si fosse difesa, oggi sarebbe all’ospedale o all’obitorio…
“Quelli” che non hanno partecipato attivamente – comunque – si prodigheranno nelle loro testimonianze, e non certo a favore della reclusa, riuscendo ad avere anche una bella promozione!
queste cose purtroppo capitano e non ci illudiamo non cambierà mai nulla,il loro potere e immenso noi popolo possiamo solo gioire quando ne accoppano uno 10,100,1000 nassyria.