Report del dibattito tenutosi a Roma il 21 settembre 2019. Organizzato dall’Atletico San Lorenzo e da Magazzini Popolari Casal Bertone, con la partecipazione di ACAD e Osservatorio Repressione.
Persone uccise, ferite o torturate dallo Stato, nel Paese democratico chiamato Italia. Questa è una storia che in pochi sono disposti ad ascoltare. È una questione che quando la sollevi devi stare molto attento alle parole che usi. Rischi la persecuzione fisica e quella giudiziaria, la scomunica, la perdita del posto di lavoro e molto altro. Lo Stato d’eccezione, la sospensione dell’ordinamento costituzionale in alcuni importanti segmenti, la negazione dell’habeas corpus, la paralisi del Diritto, non è, appunto, un’eccezione, bensì la norma effettiva, la condizione permanente in cui da sempre viviamo. Desta scalpore quando un ministro dell’Interno chiede “pieni poteri”, eppure in realtà non ne avrebbe bisogno. Già li possiede e li esercita, come i suoi omologhi predecessori al servizio della Repubblica, del regime fascista o della monarchia sabauda.
Da tempo immemore in Italia le vittime della violenza delle forze dell’ordine sono decine di migliaia. E non si tratta di casi isolati, infrazioni, incidenti, ma degli effetti della condizione d’emergenza permanente che accomuna questo Paese a tante dittature sparse sul resto del pianeta. I casi Cucchi, Adrovandi, Sandri, Scaroni, non rappresentano fatti sporadici. Piuttosto, testimoniano una continuità. Ai fini dell’esatta comprensione della problematica, non è importante se le vittime fossero attivisti sociali o ultrà, semplici passanti o rapinatori in fuga. Il tratto comune di tutte queste tragedie è la precipua volontà politica che accadessero.
Le persone cresciute nelle tifoserie organizzate, gli ultrà, con i militanti dei movimenti antagonisti hanno in comune la consapevolezza dello stato d’eccezione e la volontà di sfidarlo. Quanto è accaduto negli stadi di calcio negli ultimi venti anni, è il risultato di politiche repressive che hanno opposto la brutalità dei poteri costituiti alla ritualità dello scontro tra i gruppi ultras, contribuendo a causarne la deriva paramilitare dei nostri giorni.
C’è stato anche chi si è opposto in termini giuridici a tanto orrore. Forse l’equivoco deriva dalla presunzione di poter contrastare questa eclissi dello Stato di diritto opponendo l’idea che la condotta degli ultrà sia ascrivibile a forme di reati culturalmente motivati, cioè a fatti delittuosi riconducibili all’appartenenza etnica, culturale o in qualche modo a una comunità. In quanto tali, collocabili in una sorta di extralegalità giustificabile con l’appartenenza a un gruppo, quindi nel contesto di un comportamento realizzato da un membro appartenente ad una cultura di minoranza, considerato reato dall’ordinamento giuridico della cultura dominante, (…) all’interno del gruppo culturale dell’agente condonato o accettato come normale. Così però si commette l’errore di pensare che gli ultrà siano estranei al resto della società. Più corretto sarebbe allora sostenere questa battaglia ricollocandola nelle più ampie lotte per le libertà sociali e politiche di tutte e tutti.
Negli ultimi anni, strutture come ACAD o l’Osservatorio Repressione hanno avuto il grande merito di creare una sorta di “interferometro”: attraverso una visione complessiva e un confronto tra le differenti frequenze d’onda dei fenomeni, può scaturire un quadro d’insieme. Così possono nascere campagne a favore della verità e la giustizia per tante vittime di abusi e nefandezze. Sono iniziative che comunque si scontrano con un’amara constatazione: nei tribunali operano persone rientranti nel perverso sistema che compenetra lo Stato d’eccezione, ne curano gli interessi e rimangono funzionali al suo mantenimento. Oppure, come l’Associazione Contro gli Abusi in Divisa propone, si può lavorare a proposte di legge per istituire il codice identificativo sulle divise di poliziotti, carabinieri e Guardia di Finanza. È una misura che non risolverebbe il problema, eppure forse potrebbe contribuire a limitare la barbarie.
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Tutto chiaro. Ma peccate di una distrazione terribile: Anselmo e la Cucchi con le loro scelte scellerate, hanno contribuito in modo fatale a mettere un pietra tombale su tutti i casi di malapolizia.
Non ci saranno mai più vittorie o giustizia.