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Scariche elettriche e calci ai rifugiati, ma per il Viminale sono «cretinaggini»

Il rapporto di Amnesty raccoglie 174 testimonianze. Anche donne e minori picchiati da poliziotti per le impronte, ma per il Ministero degli Interni sono “cretinaggini”

Si fa presto a definire «cretinaggini» le denunce di Amnesty international sulle violenze, a volte solo botte altre volte più simili a torture, compiute da polizia su migranti e i rifugiati, uomini e donne, minori e adulti, che sbarcano nel sistema hotspot italiano. «Cretinaggini», è così che il capo del Dipartimento immigrazioni e libertà civili del Viminale Mario Morcone ha definito ieri le storie contenute nel rapporto di Amnesty, dicendosi al contempo «sconcertato».

Redatto a Londra dopo quattro missioni in centri d’accoglienza di 13 città e 174 interviste a migranti, il dossier è già finito sulle prime pagine dei principali giornali europei. Sono denunce sconvolgenti, in effetti, che riferiscono di un trattamento generalmente brutale e violento riservato dagli agenti in divisa ai migranti, in maggioranza sudanesi e eritrei, con la giustificazione di dover procedere all’identificazione in tempi brevi e prendere le impronte.

I racconti anche di ragazzini di 16 anni come Ishaq, «Castro», Ali parlano di calci, pugni, manganellate, mani e dita storte. Ma soprattutto dell’uso delle scariche elettriche dei Taser, le pistole che si vedono nei serial polizieschi americani e che secondo la stessa Amnesty hanno già provocato nel mondo quasi 900 morti.

Djoka, sedicenne del Darfur sbarcato a giugno sulle coste siciliane nel tentativo di raggiungere un fratello in Francia, ha detto di essere stato portato per tre giorni nella «stanza dell’elettricità». Alcuni hanno descritto le torture con botte ai genitali, strane sedie di metallo dov’erano obbligati a sedersi per essere pestati. Persino una donna che aveva partorito sul barcone e perdeva ancora sangue è stata schiaffeggiata più volte.

Episodi analoghi vengono descritti a Bari come a Crotone, a Torino come a Ventimiglia. E quasi sempre – a parte nell’hotspot di Taranto – i luoghi dove avvenivano – o meglio avvengono – queste pratiche a dir poco brutali sono stazioni di polizia accanto ad aeroporti o stazioni ferroviarie. Oppure direttamente durante i trasferimenti, sugli autobus, per strada sui cofani delle auto di pattuglia. Luoghi dunque per lo più lontani da occhi indiscreti di funzionari dell’Easo, di Frontex o delle agenzie dell’Onu come l’Unhcr.

Luoghi di sostanziale impunità visto che in Italia, non solo non esiste una legge contro la tortura, ma neanche un codice di identificazione degli uomini in divisa.
Ieri, accanto alle dichiarazioni sconcertate e sconcertanti del prefetto Morcone, anche l’ex capo della protezione civile ora al vertice della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, ha smentito «categoricamente che vengano utilizzati metodi violenti sui migranti sia in fase di identificazione che di rimpatrio». Gabrielli fa notare che le «presunte testimonianze» raccolte «in forma anonima» si riferiscono a migranti che «non risiedevano in alcun hotspot», dove esiste una supervisione sulle procedure di un team della Commissione europea.

La stessa portavoce Commissione europea, Natasha Bertaud da Bruxelles, ha dichiarato di non essere a conoscenza di gravi violazioni dei diritti umani negli hotspot italiani e ha comunque assicurato che le accuse «verranno prese in seria considerazione». «Lavoreremo con le autorità italiane per chiarire la situazione», ha promesso.

Amnesty sostiene di aver scritto due volte al ministro dell’Interno Angelino Alfano durante la scrittura del rapporto, chiedendo informazioni sull’uso della forza nel rilevamento di impronte, e di non aver mai ricevuto risposta. L’ong si rammarica poi di non aver potuto interloquire con il prefetto Giovanni Pinto, che al Viminale dirige la polizia di frontiera e addetta all’immigrazione. Il segretario del sindacato di polizia della Cgil, Daniele Tissone, fa notare che le pistole Taser non sono in dotazione alla polizia italiana. Dimentica di specificare che dal 2014 sono state introdotte «in via sperimentale». Evidentemente la sperimentazione ha bisogno di cavie. (Rachele Gonnelli )

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Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia: «Abbiamo chiesto incontro ad Alfano ma non ha mai risposto»

«Invece che delle smentite mi aspettavo che sarebbe stata avviata almeno un’inchiesta. Il problema è che quando si parla di tortura in Italia è sempre un problema». Riccardo Noury è il portavoce di Amnesty International Italia.

Noury, cosa risponde al Viminale che vi accusa di aver scritto un mucchio di falsità?
Sono parole pesanti, poco istituzionali. Da anni in questo paese ogni qualvolta si solleva l’esistenza di casi di maltrattamento e tortura la reazione è quella del diniego totale e dell’accusa di falsità. Quando invece noi preferiremmo che ci fossero un confronto e delle indagini. Sarebbe bello fare un passo avanti in questa interlocuzione. Le informazioni che abbiamo diffuso oggi (ieri, ndr) erano state presentate ad agosto al ministro dell’Interno Alfano, ma sembra che queste cose provochino reazioni solo quando finiscono sui giornali e non quando finiscono sui tavoli di chi poi deve reagire. Che significa che vengono lette solo quando vengono pubblicate?

Ad agosto Alfano cosa vi ha detto?
Nulla. Non ci ha neanche ricevuto. Sono mesi e mesi che chiediamo un incontro, ma non ci arriva nessuna risposta. Quando il tema delle tortura si associa all’Italia è sempre un problema ma dal 2001, da Genova in poi, mi pare che le persone che hanno subìto tortura siano centinaia e questo sarebbe un ulteriore motivo per avere il reato di tortura. Dopo di che noi abbiamo scritto nel rapporto due cose, di cui però nessuno parla: che l’Italia è impegnata da tempo in un’operazione straordinaria di ricerca e soccorso in mare dei migranti e che noi raccogliamo denunce, ma nel farlo diciamo e precisiamo che la maggior parte dei casi che abbiamo riscontrato nelle nostre ricerche in Italia il comportamento delle forze di polizia è stato professionalmente ineccepibile, che nella maggior parte dei casi le impronte digitali sono state raccolte senza incidenti.

Le denunce che avete presentato sono però tutte anonime.
In tutto abbiamo incontrato 170 persone, un numero superiore a venti ci ha riferito di maltrattamenti e in alcuni casi anche di trattamenti equiparabili alla tortura. E’ una procedura che Amnesty international segue da oltre mezzo secolo quella di proteggere l’identità delle persone che denunciano qualora lo richiedano e qualora queste persone, come nel caso di quelle che abbiamo incontrato, siano in condizioni di particolare vulnerabilità, perché sono cittadini stranieri, perché sono appena arrivati e perché molti di loro vorrebbero lasciarsi alle spalle l’esperienza avuta l’Italia piuttosto che affrontare un procedimento che li costringerebbe a restare nel nostro paese per non si sa quanto tempo. Queste persone le abbiamo intervistate sappiamo chi sono, non vedo quale sia il problema.

Perché non vi siete rivolti alla magistratura denunciando quanto avevate saputo?
Il nostro compito non è quello di rivolgerci alla magistratura. Siamo un’organizzazione per i diritti umani che fa ricerche e pubblica rapporti che poi consegna alle istituzioni competenti. Abbiamo presentato quanto saputo al ministero dell’Interno, quanto meno ad agosto le risultanze di una missione fatta a Ventimiglia. Ma anche questa volta non c’è stata risposta. Aggiungo che se la persona non intende denunciare ma vuole raccontare ad Amnesty international non è che poi noi denunciamo per conto di questa persona.

Negli hotspot sono presenti anche altre organizzazioni: Unhcr, Oim, Save the Children. Possibile che nessuno abbia saputo niente delle violenze subìte da alcuni migranti?
Non abbiamo la pretesa di aver registrato ogni singola intervista che viene fatta negli hotspot. Queste organizzazioni ci sono ma non è detto che partecipino sistematicamente a tutte le interviste che vengono fatte ai nuovi arrivati. Può essere che i casi in cui è andata peggio siano quelli in cui non c’era nessuno e questa è una delle possibili spiegazioni. Aggiungo che quanto abbiamo denunciato non è una novità assoluta perché di maltrattamenti negli hotspot se ne sente parlare da tempo. Anzi, il nostro timore era che avendo fatto una ricerca tanto accurata, tanto attenta e tanto verificata fossimo arrivati per ultimi e che la notizia non ci fosse. Mi pare invece che non sia così. (Intevista a cura di Carlo Lania)

da il manifesto