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Schedature e discriminazioni: la Fiat, i lavoratori, il sindacato

C’è un filo rosso che lega le schedature dei dipendenti Fiat fino agli anni ’60 e le politiche dell’azienda nei decenni scorsi: annientare il potere di controllo e intervento diretto degli operai sulle condizioni di lavoro in fabbrica. Da qui, dal ripristino di questo potere dal basso deve muovere ogni processo di rinnovamento del sindacato.

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A 50 anni dall’assemblea pubblica indetta da CGIL CISL UIL e FIM FIOM UILM di Torino al teatro Alfieri intitolata “La città deve sapere” avente in oggetto le schedature illegali compiute dalla Fiat, la mia riflessione mira a proporre un collegamento con la storia recente del gruppo automobilistico.

1.

Inizio con una domanda che è utile appunto, a sviluppare la riflessione: perché la Fiat schedava le lavoratrici e i lavoratori, che scopo perseguiva? La risposta a questa domanda è che lo faceva per conoscere in modo approfondito le idee, gli orientamenti politici, i comportamenti delle lavoratrici e dei lavoratori con l’intento di individuare coloro che potevano essere portatori di modelli, di azioni, in grado di costituire una forza organizzata insieme al sindacato all’interno della fabbrica e per quella via fornire rappresentanza al lavoro con la conseguenza di avere potere di intervento nel migliorare le condizioni oggettive di lavoro, avere un controllo dei processi produttivi e rivendicare incrementi salariali. In estrema sintesi le schedature servivano per individuare quel tipo di soggetti, per isolarli e neutralizzare la loro azione all’interno della fabbrica. Pensiamo ai reparti confino costituiti dalla Fiat e tra loro quello più “famoso” dell’Officina Sussidiaria Ricambi, ribattezzato Officina Stella Rossa dove venivano relegati gli ex partigiani, i comunisti, i sindacalisti più combattivi che poi, nella maggioranza dei casi, venivano licenziati con qualche pretesto. L’intento principale della Fiat era quindi tenere un ferreo controllo della fabbrica discriminando tutti coloro che venivano considerati “pericolosi”, che avevano idee differenti dai canoni che la stessa Fiat esigeva dai suoi addetti.

2.

La seconda domanda è: quel tipo di azioni è cessato? Che cosa è successo negli ultimi anni della storia della Fiat? So benissimo che questo argomento può essere divisivo, soprattutto tra le organizzazioni sindacali, ma in questa sede, in cui parliamo di schedature e quindi di discriminazioni, può aiutare ad aprire un dibattito su ciò che è accaduto nel recente passato i cui effetti si dispiegano ancora ai nostri giorni.
Ovviamente la Fiat oggi non scheda nessuno, mentre per quanto riguarda le azioni finalizzate a mantenere il controllo del processo produttivo, per dare una risposta bisogna analizzare alcuni comportamenti che sono stati messi in atto nella storia contemporanea della Fiat, soprattutto per quanto concerne la vicenda del Contrato Collettivo Specifico di Lavoro (CCSL), avviata una decina di anni fa, dove il gruppo è uscito dal sistema di Confindustria e dal Contratto Nazionale dei Metalmeccanici applicando un suo peculiare contratto collettivo di lavoro.
Tutti ricordano il referendum di Pomigliano prima e quello di Mirafiori poi, l’attenzione mediatica che c’era stata, la presenza ai cancelli di centinaia di persone che seguivano da vicino l’evolversi della situazione. Due momenti emblematici che resero plastico lo scontro in atto tra la Fiat, i lavoratori e una parte del sindacato sull’impostazione e sui contenuti del CCSL. Quella vicenda in realtà iniziò proprio a Torino, alle Carrozzerie di Mirafiori. Circa un anno prima del referendum di Pomigliano, in Carrozzeria scoppiò in un reparto uno sciopero spontaneo sui carichi di lavoro. I lavoratori non ce la facevano a tenere il ritmo troppo elevato della linea di montaggio. Era uno degli scioperi più frequenti, sulle reali condizioni di lavoro, sul richiedere più persone in catena di montaggio per diminuire le operazioni e i tempi di assemblaggio assegnati, per il controllo della cadenza e così via. Come frequenti erano quelli per il caldo, o il freddo, o per protestare contro atteggiamenti della gerarchia aziendale non consoni ai normali rapporti che ci dovrebbero essere negli uffici e nelle officine. Insomma, tutte proteste legittime, finalizzate a migliorare le condizioni più gravose di lavoro e i rapporti in azienda. I lavoratori in sciopero bloccarono il reparto e a cascata tutte le altre unità della catena di montaggio furono costrette a fermarsi poiché venne interrotto il flusso produttivo. Due giorni dopo tre delegati della FIOM-CGIL ricevettero una contestazione disciplinare con sospensione cautelativa, ovvero l’anticamera del licenziamento. Ovviamente andammo a discutere con l’azienda per evitare che i nostri delegati fossero licenziati e ci riuscimmo con un compromesso. Mi restano però impresse le parole che il capo del personale della Carrozzeria ci disse: «Il dott. Marchionne non tollererà più in alcun modo che un nucleo ristretto di lavoratori in sciopero blocchi l’intera produzione della fabbrica». Embrionalmente lo scontro era iniziato. La Fiat con a capo Sergio Marchionne aveva deciso che tutto doveva cambiare, che bisognava trovare un modo per avere il totale controllo della fabbrica e togliere ai lavoratori la possibilità di contrattare, esercitando i rapporti di forza, migliori condizioni di lavoro.
Un anno dopo scoppiò la vicenda di Pomigliano e del CCSL. Dopo il referendum, svolto sotto il diktat della Fiat che non sarebbero state assegnate nuove produzioni necessarie a mantenere la fabbrica aperta se avesse vinto il no, il percorso prevedeva la cassa integrazione a zero ore per i 4.000 addetti e successivamente il graduale rientro al lavoro nella nuova società di tutte le maestranze. Bisognava però licenziare i lavoratori dalla “vecchia” società per poi riassumerli ex novo in quella neocostituita dove veniva applicato il contratto di lavoro specifico che la FIOM decise di non firmare. La scelta di non sottoscrivere l’accordo costò alla FIOM la possibilità di avere rappresentanti sindacali interni eletti democraticamente dai lavoratori e il diritto a ricevere le quote tessera da parte dei suoi iscritti. Dopo qualche mese i primi 2.000 lavoratori, quindi la metà degli addetti, vennero riassunti e rientrarono in fabbrica. Guarda caso, tra loro non c’era nessun iscritto alla FIOM. Sei mesi dopo ci fu il referendum di Mirafiori con le stesse caratteristiche di quello di Pomigliano (diktat compreso) e, in seguito, l’estensione automatica del nuovo contratto di lavoro a tutti i dipendenti del Gruppo Fiat, della Magneti Marelli e dell’Iveco/CNH.
Alla FIOM non restò che ricorrere alla magistratura, per due ragioni: la prima su Pomigliano per la discriminazione attuata nei confronti dei suoi iscritti che non venivano riassorbiti nella nuova società. Per dimostrare che l’esclusione degli iscritti alla FIOM non era frutto di una casualità, come sosteneva la Fiat, avevamo commissionato uno studio a degli accademici di statistica inglesi che dimostrarono, appunto tramite la statistica, che c’era una possibilità – non ricordo esattamente su quante decine di migliaia – che tra i neoassunti non ci fosse nessuno iscritto alla FIOM. I calcoli dimostrarono che non era affatto possibile il verificarsi di un evento simile e quindi che c’era una manifesta volontà da parte della Fiat nel discriminare gli iscritti alla FIOM. La seconda per l’estromissione dei delegati della FIOM. Secondo la Fiat, alla luce del fatto che la FIOM non aveva sottoscritto il CCSL e tutti gli accordi storici erano stati disdettati, non essendo firmataria di nessun accordo collettivo applicato alla società neocostituita, non aveva il diritto ad avere una rappresentanza interna. Com’è noto la magistratura e la Corte costituzionale, su entrambe le questioni diedero torto alla Fiat e ragione alla FIOM. Sulla discriminazione degli iscritti il calcolo statistico non lasciava dubbi interpretativi, mentre sull’esclusione dei delegati della FIOM venne sancito che la Fiat aveva forzato l’interpretazione dell’articolo 19 dello statuto dei lavoratori.

3.

Arriviamo al parallelismo storico: le schedature servivano a discriminare e la Fiat fu condannata con sentenza nel febbraio 1978 per corruzione e violazione del segreto di ufficio. Il CCSL è stato utilizzato per un’altra forma di discriminazione e la Corte costituzionale con sentenza del luglio 2013 ha dichiarato l’illegittimità della norma dell’articolo 19 statuto dei lavoratori nell’interpretazione fornita dal gruppo Fiat.
Oltre al parallelismo storico, che mi viene da riassumere con la battuta che «il lupo perde il pelo ma non il vizio», è utile porsi l’interrogativo del perché la Fiat ha iniziato uno scontro così duro che ancora oggi porta i segni e le conseguenze. In parte è già stato accennato. L’intento generale della Fiat era quello di annientare definitivamente il potere contrattuale rimasto ai delegati interni nell’intervenire sulle condizioni di lavoro. Non a caso vengono disdettati tutti gli accordi storici, compreso quello dell’agosto 1971, una pietra miliare che dava regole e diritti di intervento, di controllo della prestazione lavorativa da parte dei delegati interni, da chi rappresentava direttamente le lavoratrici e i lavoratori . Dal mio punto di vista è stata la chiusura del cerchio di ciò che era accaduto nel 1980 con la vertenza dei 35 giorni. Non analizzerò qui quella vertenza: è sufficiente richiamarla ricordando che anche in quell’occasione lo scontro è stato sul potere in fabbrica dei delegati interni di contrattare le condizioni di lavoro e salariali. Com’è noto molti delegati non rientrarono sul loro posto di lavoro e quel “contropotere” operaio non fu mai più ricostituito con le stesse caratteristiche. Ma rimasero in piedi gli accordi, compreso quello del 1971, che hanno permesso ai delegati, ancora per trent’anni, di avere strumenti di intervento, di esercitare un ruolo di rappresentanza fattiva in fabbrica. Così la Fiat, con il CCSL, ha deciso che quel protagonismo dei delegati, seppur già fortemente ridimensionato, doveva scomparire definitivamente e per farlo scomparire bisognava cancellare tutti gli accordi che lo garantivano. Ecco la chiusura del cerchio.
In sostanza le schedature, le discriminazioni, il 1980, il CCSL sono un filo di Arianna che tiene insieme l’intento che da sempre la Fiat ha portato avanti: quello di mantenere il controllo della fabbrica, di limitare l’intervento sulle condizioni di lavoro, sui ritmi produttivi, sul salario da parte dei rappresentanti diretti dei lavoratori, di coloro che agiscono all’interno della fabbrica, che conoscono i cicli di lavoro, che sono consapevoli di quello che accade dentro gli uffici e le officine.
Non a caso adesso si contratta una sola volta ogni quattro anni in occasione del rinnovo del CCSL e quella contrattazione la fanno i sindacalisti esterni, la “burocrazia” sindacale. Il protagonismo dei delegati, la loro capacità di rappresentare direttamente le condizioni di lavoro e di intervenire per migliorarla è stata completamente spazzata via dall’impianto del CCSL. Anche i rapporti di forza, determinanti nell’ottenere dei risultati, sono stati praticamente annientati dalle regole dello stesso CCSL che prevede sanzioni per chi dichiara lo sciopero fuori dalle procedure previste, con il risultato che scioperi indetti dai firmatari non ce ne sono praticamente più stati.

4.

A questo punto mi collego con le riflessioni sulla situazione del sindacato di Loris Campetti  e Fulvio Perini  in cui, oltre all’analisi della difficoltà sindacale odierna, si parla della possibile via di uscita.
La tesi principale è che, per costruire un sindacato adeguato alle nuove sfide, bisogna ripartire dal basso. Sono totalmente d’accordo. Per me ripartire dal basso vuol dire anche ridare strumenti di intervento ai delegati interni ai luoghi di lavoro, strumenti efficaci per essere incisivi attraverso l’implementazione dei rapporti di forza determinanti nell’ottenere dei risultati. Rapporti di forza che sono stati molto indeboliti dalle leggi che hanno scardinato le tutele contro i licenziamenti e reso precari milioni di lavoratrici e lavoratori. Quando sei precario sei sotto ricatto, difficilmente decidi di organizzarti e di lottare. Ecco perché servirebbe ricostruire un quadro legislativo e contrattuale. A livello legislativo, come suggerisce Campetti, servirebbe avere una sponda politica che oggi non esiste e quindi bisognerebbe interrogarsi su come crearla. Su quello contrattuale servirebbe un sindacato esterno meno autoreferenziale, più autonomo e davvero unitario con un’impostazione che metta al centro i delegati e la loro capacità di intervento. Le leggi, la contrattazione nazionale e quella interconfederale devono trovare regole adatte a ridare potere di intervento nei luoghi di lavoro ai delegati sindacali e poi c’è un disperato bisogno di tutelare i “nuovi lavori”, pensiamo alla logistica, all’edilizia, all’agricoltura, alle finte partite iva. Lavoratori totalmente esclusi dalle tutele basilari, che il sindacato non riesce a rappresentare, che addirittura si pone poco il problema di come rappresentarli, di come entrare in contatto con loro, di come conquistarne la fiducia.

5.

Per finire dobbiamo porci il problema di un’altra discriminazione presente in ogni luogo di lavoro, ovvero la discriminazione di genere. A Torino la crisi economica ha determinato migliaia di licenziamenti e le donne sono tra coloro che hanno pagato il prezzo più alto. Sono state licenziate e dopo il licenziamento hanno avuto maggiori difficoltà rispetto agli uomini nel trovare una nuova occupazione. Quando ci sono riuscite, nella stragrande maggioranza dei casi hanno visto peggiorare la loro condizione lavorativa e salariale: alcune testimonianze esemplari si possono leggere in E. Lazzi, Buongiorno lei è licenziata. Storie di lavoratrici nella crisi industriale (Edizioni Gruppo Abele, 2021). Siamo inoltre un Paese dove a parità di mansione le donne guadagnano meno degli uomini e difficilmente si trovano all’apice delle aziende in ruoli dirigenziali di primo livello. È un problema da affrontare con determinazione. Anche in questo caso sarà determinante come la politica e il sindacato affronteranno questa problematica con leggi e contratti che mirino a cancellare una vera e propria discriminazione che si fa fatica a capire essere tale.
La strada è lunga e tortuosa, non ci sono scorciatoie. Sono convinto che «cambiare è possibile» non è solo uno slogan ma qualcosa che davvero può accadere: alla condizione di ripartire dal lavoro e dai valori portanti di uguaglianza e di solidarietà avendo capacità di pensare criticamente. Ripartire dal basso lavorando con umiltà e determinazione è il primo passo che dobbiamo compiere.

L’articolo riprende e sviluppa l’intervento svolto nel convegno “La città deve sapere” organizzato a Torino il 13 dicembre 2021 dal Comitato per il centenario della nascita di Bianca Guidetti Serra.

da Volere la Luna