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Sciascia e l’antimafia: trent’anni di polemiche

“A futura memoria (se la memoria ha un futuro)” è il titolo del libro in cui, nel dicembre del 1989, poco dopo la sua scomparsa, sono stati pubblicati alcuni scritti di Leonardo Sciascia, tra cui l’articolo del “Corriere della sera” del 10 gennaio 1987, con il titolo, redazionale, “I professionisti dell’antimafia”[1].

In quell’articolo Sciascia esordiva con una lunga citazione dal suo romanzo Il giorno della civetta, pubblicato nel 1961, in cui il protagonista, il capitano Bellodi, ripensa l’esperienza del prefetto Mori, durante il periodo fascista, disapprova la sua azione fondata sulla sospensione delle garanzie costituzionali in Sicilia e indica un’altra strada: “bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell’inadempienza fiscale, come in America… Bisognerebbe, di colpo, piombare nelle banche: mettere mani esperte nella contabilità… delle grandi e piccole aziende, revisionare i catasti… annusare intorno alle ville, le automobili fuori serie… e confrontare questi segni di ricchezza agli stipendi e tirarne il giusto senso”. E aggiungeva un’altra autocitazione, tratta dal romanzo A ciascuno il suo, del 1966: “Ma il fatto è… che l’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che se ne è stabilita una in lingua”[2].

Seguivano dei riferimenti al libro La mafia durante il fascismo dello storico Christopher Duggan, recentemente scomparso, e a una piéce teatrale, La Mafia, di Luigi Sturzo, il prete fondatore del Partito popolare, di cui si sono trovati solo gli abbozzi del quinto atto, che davano un’immagine inquietante della realtà della mafia[3]. Il riferimento centrale nel corpo dell’articolo era il libro di Duggan, considerato “un’accurata indagine e sensata analisi” su mafia e fascismo. In effetti il testo di Duggan era basato su una ricerca archivistica abbastanza attenta, ma arrivava a una conclusione inaccettabile: che il fascismo avesse inventato la mafia. Certamente il fascismo ha utilizzato la lotta alla mafia per risolvere i suoi conflitti interni, ma la mafia c’era, non era un’invenzione. Il prefetto Mori ha potuto agire solo fino a un certo punto; il tentativo di andare oltre quel punto, colpendo politici e grandi agrari collusi con la mafia, è stato arrestato con il suo precoce pensionamento. Sciascia utilizza il libro dello storico inglese per trarne un’indicazione: “l’antimafia come strumento di potere”. E avverte che quello che è accaduto con il fascismo può “accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito critico mancando”.

Per avallare questo assunto venivano fatti degli esempi: un sindaco, innominato, ma il riferimento era a Leoluca Orlando, che “per sentimento o per calcolo cominci ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso, anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministra”. L’altro esempio aveva nomi e cognome: il magistrato Paolo Emanuele Borsellino che, per avere svolto indagini sulla mafia, aveva scavalcato un magistrato più anziano ed era stato nominato procuratore a Marsala. La conclusione di Sciascia era tranchant: “i lettori prendano atto che nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso”. Era evidente che tutta l’analisi precedente, volta al passato, era solo una preparazione per questa sciabolata rivolta al presente.

Le reazioni al’articolo di Sciascia, Il Coordinamento antimafia

Le reazioni all’articolo di Sciascia, pubblicato con un titolo redazionale che appesantiva ancora di più il contenuto, furono furenti. Ta gli altri ci fu un comunicato dell’associazione Coordinamento antimafia che, utilizzando la classificazione antropologica del capomafia don Mariano, coprotagonista del romanzo Il giorno della civetta, che distingueva uomini, mezz’uomini, ominicchi, pigliainculo e quaquaracquà, definiva Sciascia un quaquaracquà, cioè una nullità, e lo relegava “ai margini della società civile”[4].

Il Coordinamento antimafia era nato nel 1984 su proposta del Centro Impastato. Dopo una fase abbastanza travagliata di convivenza, in cui aveva tentato di collegare il variegato mondo dell’antimafia cittadina (aderirono 38 organizzazioni, tra associazioni, centri, comitati, sezioni di partito, frange di sindacato, ma alcune organizzazioni esistevano solo sulla carta), nel 1986 si era formata una singola associazione che aveva mantenuto quella denominazione ma in realtà coordinava solo se stessa e si configurerà sempre più come tifoseria del sindaco. Con l’aiuto di stampa e televisione si poneva come l’unico verbo antimafia. Agiva insieme come claque e come ordalia, ignorando tutto ciò che si muoveva al di fuori di essa e non era pronto a intrupparsi nelle sue file.

Il comunicato del Coordinamento suscitava la reazione di Sciascia che, si può dire, non aspettava altro per infierire. Definiva il Coordinamento “frangia fanatica e stupida di quel costituendo o costituito potere… un potere fondato sulla lotta alla mafia che non consente dubbio, dissenso, critica. Ne sono soddisfatto: si sono consegnati all’opinione di chi sa di avere un’opinione, nella loro vera immagine”. A dire di Sciascia esso coordinava “interessi politici e stupidità”[5]. E il “Giornale di Sicilia”, che plaudiva all’articolo di Sciascia, pensò bene di pubblicare i nomi dei componenti del Coordinamento, qualcosa che somigliava a una schedatura e a una gogna.

Tenendo conto dell’esperienza personale, il mio giudizio sul Coordinamento è ancora più duro di quello di Sciascia: bisogna mettere nel conto anche una sequela di scorrettezze, si potrebbe dire: la scorrettezza come regola, come modello relazionale e modo di essere. Qualche esempio: comunicati approvati e non dati alla stampa, poiché c’era una supervisione, occulta ma evidente, dei dirigenti del Pci e delle Acli, allora affiancati nella lotta contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso; il peso esercitato dalle appartenenze a partiti e organizzazioni nazionali, al limite dell’arroganza e della presunzione; la superficialità e la mancanza d’interesse di tanti, che pure godevano di credito e di pubblicità. Ma un conto è il giudizio politico un altro la gogna.

Alla testa del Coordinamento e suoi ispiratori erano personaggi che, a dimostrazione della tempra della loro fede e della loro coerenza, dopo sono passati nel centrodestra, in piena bufera di berlusconismo, come dire il picco dell’immoralità pubblica nella storia dell’Italia repubblicana. Sbocco non nuovo di trasversalismi teorizzati e praticati e di “estremismi” fasulli. Per esempio, il gesuita Ennio Pintacuda, punto di riferimento per l’antimafia più pubblicizzata e grande sostenitore di Orlando, fino allo scontro con il confratello Bartolomeo Sorge e l’abbandono della Compagnia di Gesù, si è riposizionato nell’area filoberlusconiana, avendone in cambio la direzione del Cerisdi, un centro studi che per molto tempo ha goduto di lauti finanziamenti pubblici e mirava a formare la classe dirigente della città[6]. Altri, tra cui gli estensori del comunicato antisciascia e allora in prima linea nel Coordinamento, sono letteralmente scomparsi.

Un buco nell’acqua: il comunicato del Centro Impastato

Nel tentativo di riportare la polemica a un confronto civile, mettendo al centro i problemi e lasciando da parte offese e insulti, come presidente del Centro Impastato scrivevo un comunicato pubblicato dal giornale “L’Ora”. Ecco il testo:

Abbiamo preferito non prendere la parola nel corso delle recenti polemiche perché il tono di esse ci è sembrato il meno adatto per una riflessione seria su alcuni problemi particolarmente gravi, che rischiano di aggravarsi ulteriormente. Ci limitiamo adesso ad alcune considerazioni molto sommarie su qualcuno di essi.

1) Valutazione dell’operato del sindaco Orlando e della giunta pentapartito. Il sindaco Orlando ha compiuto alcuni gesti (quali, per esempio, la costituzione di parte civile del Comune al maxiprocesso, le dichiarazioni fatte nel corso di esso, il tentativo di portare un minimo di trasparenza nella procedura di aggiudicazione degli appalti di opere pubbliche) che non possono non essere apprezzati, ma tutti i problemi di Palermo (la disoccupazione, il risanamento del centro storico, il funzionamento delle aziende municipalizzate etc. etc.) restano irrisolti per ragioni che non è difficile individuare: la Democrazia Cristiana rimane legata ai peggiori interessi, sotto la tutela di uomini come Lima, e il pentapartito è un pantano che non consente nessuna politica rinnovatrice. Ci sembra arrivato il momento di fare un bilancio di questa amministrazione comunale e di vedere se è possibile sbloccare una situazione di immobilismo, avvelenata da polemiche personalistiche.

2) Conformismo e anticonformismo. In una città in cui straripa l’assuefazione alla violenza, la stragrande maggioranza degli abitanti non si scuote neppure per l’assassinio di un bambino, si svolgono manifestazioni in cui s’inneggia alla mafia, dominano il conformismo filomafioso e l’indifferenza, parlare di “conformismo antimafioso” ci sembra un po’ troppo.

3) Antimafia: seria o da vetrina. È vero, c’è un’antimafia “da vetrina”, come qualcuno l’ha definita, ma vogliamo fare qualche esempio? Ci sembrano “antimafia da vetrina”: l’azione, abbastanza incolore, dei vari Alti Commissari contro la mafia; l’altrettanto incolore operato delle Commissioni antimafia, nazionale e regionale; le prediche con il morto davanti; le scoperte di grandi e piccoli inviati che hanno dovuto attendere l’uccisione di Dalla Chiesa per parlare di mafia come “questione nazionale” e lo hanno dimenticato il giorno dopo; i fumetti televisivi e cinematografici e le pubblicazioni di mafiologi improvvisati regolarmente prefate da firme “prestigiose”; buona parte delle attività svolte nelle scuole per utilizzare in qualche modo i finanziamenti regionali; i centri inesistenti che hanno finanziamenti pubblici per centinaia di milioni; le sigle fabbricate sulle ceneri di ipotesi più consistenti che si è fatto di tutto per non far maturare. Si collocano su un altro versante i pochissimi magistrati che, rischiando la vita, hanno svolto le inchieste più impegnative contro la mafia.

4) Problema della “giustizia giusta”. È il problema più grosso, e non è di facile soluzione. La mafia e la criminalità organizzata non sono una novità, ma le dimensioni e la complessità attuali lo sono, e gli attuali ordinamenti giuridici sono inadeguati per fronteggiare fenomeni che non sono un’”emergenza” ma un dato strutturale.

Ci chiediamo: ci può essere “giustizia giusta” con gli assassinii regolarmente impuniti? Si ritiene che, passata l’onda alta delle uccisioni, tutto si risolva con l’“uscita dall’emergenza” e il ristabilimento delle regole del “garantismo classico”? Non occorre piuttosto elaborare una riforma del processo penale e della normativa vigente che tenga conto di questi fatti nuovi? Come intervenire sui canali di accumulazione illegale? Come troncare il meccanismo di simbiosi tra capitale illegale e legale garantito dal segreto bancario? Non si tratta di decretare “stati d’assedio”, o di avallare “teoremi Buscetta”, ma di trovare soluzioni adeguate a problemi che non possono essere minimizzati o considerati con ottiche tradizionali.

Per affrontare seriamente questi temi non ci pare che siano utili le polemiche, soprattutto quando si risolvono in ingiurie e scomuniche. Occorrono: coraggio, studio, serenità[7].

Il comunicato cadeva nel vuoto. Commentavo: “Non è il momento adatto per discutere seriamente e serenamente. Bisogna schierarsi, come se si fosse nel pieno di un combattimento senza esclusione di colpi”[8].

La promozione di Borsellino e la bocciatura di Falcone

Successivamente alla pubblicazione dell’articolo, c’è stato un incontro tra Sciascia e Borsellino, in cui ci sarebbe stato un “chiarimento”. Sciascia ha ammesso di essere stato “mal consigliato” e non si può non osservare che uno come lui, maître-à-penser già da anni, non poteva non essere consapevole degli effetti che le sue parole avrebbero avuto. Avrebbe potuto e dovuto far attenzione a chi lo consigliava e a cosa consigliava.

Se la ferita sembrava rimarginata, e i rapporti tra Sciascia e Borsellino erano diventati quasi amichevoli e cordiali, in realtà nel profondo essa rimaneva aperta e sanguinante. Dopo la strage di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani, in un incontro pubblico Borsellino, già consapevole di un destino che si avvicinava, in un accorato intervento, in cui ricostruiva le difficoltà e le inimicizie che avevano segnato la vita e l’attività di Falcone, diceva: “Tutto cominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia”[9].

Falcone era stato ostacolato più volte e in vari modi: bocciata la sua candidatura a Consigliere istruttore, al posto di Rocco Chinnici, fondatore del pool antimafia, assassinato il 29 luglio 1983; bocciata la sua candidatura al Consiglio superiore della magistratura. Si potrebbe dire che, dopo la mafia, i principali nemici di Falcone siano stati i suoi colleghi. Per invidia, per il peso della sua personalità, non ostentato ma effettivo, per la sua visibilità.

Si è detto e scritto che la bocciatura della candidatura di Falcone a capo del’Ufficio istruzione, allora strategico nella attività giudiziaria antimafia e successivamente abolito, sia stata il frutto dell’applicazione del criterio dell’anzianità, che portò a favorire un magistrato come Antonino Meli, che mai si era occupato di mafia e che smantellerà il pool antimafia, portando indietro di anni l’attività giudiziaria contro la mafia. E siccome il rispetto del criterio fondato sull’anzianità era proprio quello che voleva Sciascia, la colpa sarebbe sua. Accusa che gli si è rivolta in passato ed è ritornata nel giorni scorsi, in occasione del trentennale dell’articolo sul “Corriere”.

Sciascia aveva già risposto a quell’accusa. In un articolo sulla “Stampa” del 6 agosto 1988, scriveva: nel promuovere Borsellino il CSM si era “sottratto alla regola vigente senza però stabilirne un’altra. Se l’avesse in quel momento stabilita, il caso del dottor Falcone, con tutto quel che oggi importa, non ci sarebbe stato. Adottando un criterio per promuovere Borsellino e tornando invece alla vecchia regola per non promuovere Falcone, ecco il nodo che presto o tardi sarebbe venuto al pettine. La situazione di oggi, insomma, non l’ho inventata io con quel mio articolo sul ‘Corriere’: c’era, e non poteva che esplodere. Io non ho fatto che avvertirla, e tempestivamente”[10]. Non si può non dargli ragione.

Trent’anni dopo

Perché a trent’anni dall’articolo di Sciascia quelle parole vengono ricordate e riesplodono le polemiche? Tornano a confrontarsi, senza dialogare, due schieramenti. C’è chi considera Sciascia un maestro di pensiero e di vita, un profeta, e invita al pentimento, all’autocritica, chi sta dall’altro lato e allora e ancor’oggi lo considera un bastian contrario che ha fatto danni all’antimafia, provocando l’isolamento dei magistrati più impegnati ed esponendoli alle critiche e all’avversione di coloro che hanno usato le sue parole per condannare ed autoassolversi. Possiamo definirli i “professionisti della mafia”, a cominciare dai politici, dagli imprenditori, più o meno collusi, che, facendosi scudo del prestigio dello scrittore, passavano dal silenzio e dalla difensiva al contrattacco, nel momento in cui erano in difficoltà e il maxiprocesso veniva percepito come un inizio e più d’uno pensava che prima o poi sarebbe toccato a lui. Da ciò nascerà, dopo il successo del maxiprocesso in tutti i tre gradi di giudizio, lo smantellamento del pool antimafia. Ma questo non c’entra con il parere di Sciascia. Però la sua polemica, sbagliata nel tono, nella scelta degli esempi e del tempo, si prestava a quel tipo di uso strumentale.

I problemi che lo scrittore poneva erano reali: il pericolo della strumentalizzazione dell’antimafia, il rispetto delle regole, la democrazia come unica strada per lottare la mafia, poiché ha “tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia”[11]. Il tema di fondo del discorso di Sciascia era il sistema di garanzie, cioè il garantismo. Ne aveva un’idea che sapeva di religioso, come se si trattasse di una sorta di depositum fidei. Partendo da alcuni esempi concreti, aveva intravisto una sua violazione, che si era ritenuto in dovere di denunciare come un vulnus all’ordinamento democratico, ma per molti anni il culto del garantismo più che la certezza del diritto aveva assicurato la certezza dell’impunità.

Sciascia ha per molti anni esercitato una sorta di magistero civile: come abbiamo visto, aveva indicato, nei primi anni ’60, le banche come il terreno su cui sondare l’accumulazione mafiosa; precedendo di quasi trent’anni il mio saggio La mafia finanziaria scritto e pubblicato quando imperversava lo stereotipo della mafia imprenditrice, per giunta disorganizzata[12]. Il maestro di Racalmuto, dopo aver raccontato la provincia siciliana[13], ha percorso una linea narrativa che mischiava i generi letterari, con ampio spazio per la trattazione saggistica, l’analisi sociologica e il compte philosophique. Il costante ancoraggio alla tradizione illuministica più che un vezzo letterario era un modello di scrittura e un metodo di indagine. I suoi apologhi su una società mafiosizzata nei suoi centri di potere, nei suoi codici culturali, nella sua pratica quotidiana, costituiscono una variazione sul tema del potere e delle sue implicazioni criminali, e questo è un patrimonio ormai consegnato alla storia della letteratura e alla cultura, non solo italiana.

Trent’anni dopo possiamo chiederci se le sue parole sono state una profezia. Certo, con quel che è accaduto negli ultimi anni, siamo portati a pensarlo. Un breve elenco: imprenditori che si mostravano in prima fila nella lotta alla mafia incriminati per i loro rapporti con Cosa nostra; uno di essi, che passava per promotore del movimento antiracket, colto in flagrante mentre intascava una mazzetta; un telegiornalista, insignito di award internazionali, che ha fatto passare una faccenda di corna per aggressione mafiosa; una magistrata, dirigente dell’ufficio che gestisce i beni confiscati, che ne aveva fatto un’azienda privata, assegnandoli ai suoi amici e ricevendone favori, in un classico do ut des; una prefetta che le teneva bordone. Con questo campionario di “buoni esempi” si deve riconoscere che la realtà ha superato le rappresentazioni dello scrittore, ma potremmo dire che non ci troviamo di fronte a “professionisti dell’antimafia” (i professionisti, cioè persone capaci e competenti, ci vogliono, per l’antimafia come per qualsiasi altro tema, arduo e complesso, quelli che fanno danno sono i dilettanti e i cialtroni) ma a dei cattivi attori che hanno recitato la commedia dell’antimafia. La cosa grave, e che ci induce a una impietosa riflessione, è che tanti ci hanno creduto.

Ma quel che ci interessa oggi è lo “stato dell’arte” dell’antimafia. Cos’è accaduto dopo le polemiche del 1987, a parte gli episodi già richiamati? Sono sorti comitati, centri, associazioni e fondazioni, quasi tutti vanno avanti con finanziamenti ottenuti con metodi personalistici e clientelari. La proposta del Centro Impastato che la regione siciliana si doti di una legge che fissi dei criteri oggettivi per l’erogazione dei fondi pubblici è stata isolata, come se fosse una stranezza, la trovata eccentrica di chi non conosce le regole del gioco. In realtà, le conosce ma non le accetta.

Nel 1995 è nata Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, sulla base di associazioni nazionali come le Acli, l’Arci, la Sinistra giovanile del Pds, legate direttamente o indirettamente ai partiti, e il primo, consistente, nucleo di adesioni si è costituito con l’elenco dalle loro sezioni locali, a prescindere se fossero o meno impegnate in attività antimafia. I referenti regionali sono stati nominati sulla base della loro appartenenze a queste associazioni. In Sicilia è toccato a una rappresentante dell’Arci, che mai si era vista in iniziative antimafia.. Successivamente la referente si è candidata con Forza Italia ed è stata “dimissionata”. Dimissionati due vicepresidenti e i responsabili per il lavoro nelle scuole e per i beni confiscati, senza nessuna discussione. Chi scrive è stato sospeso, e si è dimesso, dopo aver posto problemi di democrazia interna, dovuti al leaderismo carismatico del fondatore, il sacerdote Luigi Ciotti. Recentemente è stato “licenziato” con un messaggino il figlio di Pio La Torre, protagonista delle lotte contadine, dirigente comunista e parlamentare nazionale, ucciso il 30 aprile del 1982.

Le attività continuative sono quelle nelle scuole, del movimento antiracket, per l’uso sociale dei beni confiscati. Nelle scuole l’educazione alla legalità si riduce troppo spesso a prediche senza analisi, al richiamo al rispetto delle leggi, ignorando che ancora più grave dell’illegalità mafiosa è quella delle istituzioni, che hanno troppi scheletri negli armadi e nessuna volontà di aprirli. Le associazioni antiracket, con esempi significativi, si limitano alle regioni meridionali, nonostante che le estorsioni siano ormai presenti sul territorio nazionale; l’uso sociale dei beni confiscati si limita a una decina di cooperative in tutta l’Italia.

Sul terreno della giustizia accanto a magistrati seriamente impegnati ci sono altri in vetrina o in giro con un personaggio come il direttore della rivista “Antimafia duemila”, che dice di avere ricevuto dalla Madonna di Fatima la mission di lottare la mafia, anticristo del nostro tempo, di avere le stimmate e di essere il maggiore esperto di Ufo! Qualche altro magistrato, smessa temporaneamente o definitivamente la toga, fa da foglia di fico a potenti in cerca di credenziali o si candida come salvatore della patria, andando incontro a patetici insuccessi. Sulla stampa e alla televisione qualcuno si atteggia a monopolista del pensiero unico antimafioso.

Il processo in corso sulla “trattativa” Stato-mafia rischia di delegare al potere giudiziario problemi, come il rapporto tra mafia, politica e istituzioni, che dovrebbero essere affrontati e risolti dall’intera società. Viviamo una crisi della democrazia, all’interno di una crisi più generale frutto del dominio del capitalismo finanziario e della dittatura del mercato globalizzato, che aggravano squilibri territoriali e divari sociali. In Italia, dopo vent’anni di Berlusconi, andato al potere con milioni di voti, sembrava che ci si potesse rialzare, con uno scatto di dignità. Ma i giovani “rottamatori” hanno fatto, o tentato di fare, quello che non è riuscito al patriarca di Arcore, abolendo l’art 18 dello Statuto dei lavoratori, che tutela i licenziati senza giusta causa, e progettando una riforma costituzionale impresentabile. Per fortuna il 4 dicembre c’è stato il referendum, ma non possiamo campare solo di referendum. Bisogna ripensare e ricostruire i fondamenti del vivere quotidiano. Su questa strada la lezione di Sciascia (considerato per tutta la sua opera, e non per un singolo episodio, che può essere criticabile) con i suoi meriti e le sue contraddizioni, può essere un buon bagaglio di viaggio e le sue pagine, lette con attenzione e non con devozione, ci servono ancora per capire in che mondo viviamo, anche se la realtà è andata al di là delle sue più pessimistiche previsioni.

Umberto Santino

da Centro Impastato

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[1] L. Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989. Le citazioni successive sono tratte da questo libro.

[2] L. Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1961; A ciascuno il suo, Einaudi, Torino 1966.

[3] C. Duggan, La mafia durante il fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1986; L. Sturzo, La Mafia, in Scritti inediti 1890-1924, Cinque Lune, Roma 1974.

[4] Cfr. U. Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile, Editori Runiti University Press, Roma 2009, terza edizione, pp. 325 ss. Anche per le successive considerazioni si rimanda a questo testo.

[5] L. Sciascia, A futura memoria, cit., pp. 131 ss.

[6] U: Santino, Storia del movimento antimafia, cit., p. 395.