La vicenda giudiziaria che vede coinvolto il centro sociale torinese Askatasuna non è solo cittadina o nazionale, fa parte di una deriva autoritaria globale
di Alessandra Algostino da il manifesto
Il processo a Torino per associazione per delinquere contro 28 militanti del centro sociale Askatasuna va oltre la valutazione di eventuali responsabilità penali individuali e colpisce in sé la democrazia come conflitto, come libero dibattito anche quando le posizioni urtano o inquietano (Cedu, 2005).
È il progetto politico, è l’autorganizzazione dal basso di attività sociali e culturali che sono sotto processo con la stigmatizzazione e criminalizzazione per associazione per delinquere. Agire conflitto sociale è associazione per delinquere, rappresentare e praticare visioni politiche e culturali alternative è associazione per delinquere, ricostruire dal basso legami sociali sul territorio è associazione per delinquere.
Ad essere ricondotta alla «delinquenza» e al correlato richiamo alla violenza è l’idea di alternativa radicale rappresentata dal centro sociale, ovvero quel dissenso e pluralismo che della democrazia costituiscono l’anima. Askatasuna, e tutti coloro che sono ad esso riconducibili o accomunati, sono stigmatizzati ed espulsi dallo spazio democratico. È la costruzione della figura del nemico: non a caso allo strumento penale si associa la denigrazione mediatica.
Come ha scritto nel 2015 il Tribunale permanente dei popoli a proposito del movimento No Tav, oggetto paradigmatico del modus operandi della repressione, si registrano: la «trasformazione delle questioni politiche inerenti le grandi opere in problemi di ordine pubblico demandati a polizia e magistratura (anche a mezzo di appositi provvedimenti legislativi o amministrativi di carattere generale)»; «interventi di polizia e giudiziari assai pesanti da molti interpretati come metodi diretti a disincentivare e/o bloccare sul nascere opposizione e protesta»; con i mezzi di comunicazione che «si convertono in agenti di disinformazione e spesso di contaminazione».
E siamo tutti avvisati: si parte dai margini, da coloro che sono etichettati come «violenti», «indesiderati» ed «eccedenti» (pensiamo al decreto rave e alla criminalizzazione del disagio sociale e dei migranti) e si restringe progressivamente l’orizzonte della democrazia. Per tutti. Si muove dalle condotte più urticanti e quindi si punisce la resistenza passiva (il disegno di legge sicurezza insegna).
La sovradeterminazione delle fattispecie penali, l’abuso di misure cautelari e di sicurezza, si accompagnano a richieste di risarcimento milionarie e assurde, come le spese per gli agenti a presidio del cantiere Tav in Val Susa. Il diritto civile e quello amministrativo, dalle ordinanze prefettizie che creano le zone rosse al daspo urbano, sono impiegati e piegati al compito di imporre un ordine pubblico che espelle e reprime la divergenza sociale e politica.
Torino come laboratorio di repressione non è un’eccezione, ma una sperimentazione, coerente con la cappa autoritaria che sta avvolgendo le democrazie. Anticipa il ddl sicurezza, in coerenza con i provvedimenti in materia adottati da governi di diverso colore politico nel corso degli anni.
È il neoliberismo autoritario che non tollera l’alternativa (There Is No Alternative), si salda con l’omogeneizzazione forzata e la repressione della dissidenza, accompagna la «vertigine della guerra» e l’involuzione di democrazie neutralizzate, svuotate e infine smembrate apertamente.
Askatasuna associazione per delinquere non è una vicenda solo torinese e nemmeno nazionale: «associati per delinquere» sono gli universitari della Columbia perquisiti e perseguiti, è il candidato alla presidenza turca Imamoglu arrestato con l’accusa di «aver fondato un’organizzazione criminale finalizzata alla corruzione», è il popolo palestinese oggetto di una – questa sì, criminale – punizione collettiva.
«Associazione a resistere», come strumento di resistenza dal basso e progetti come il patto di collaborazione con il comune di Torino nella prospettiva del bene comune sono segnali controcorrente, che testimoniano la vitalità e la necessaria complessità della democrazia conflittuale.
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