La procura di Firenze ha aperto un fascicolo su Barbara Balzerani rea di lesa maestà delle vittime. Uno stormo di avvoltoi in questi giorni si è divertito a gareggiare in indignazione.
40 anni fa Barbara Balzerani ha partecipato, insieme ad altri nove brigatisti, al sequestro di Aldo Moro, negli anni in cui in Italia, secondo i dati ministeriali, operavano 269 sigle armate alla fine del 1979, 36.000 cittadini furono inquisiti per banda armata di cui 6.000 condannati a decenni di carcere, e si registrarono 7.866 attentati alle cose e 4.290 alle persone. Arrestata e condannata, ha interamente scontato la propria pena, come tantissimi altri che presero parte a quel fenomeno insurrezionale. Negli anni successivi ha pubblicato sei libri, alcuni dei quali tradotti in Francia e Spagna, e le presentazioni degli stessi sono state le sue uniche apparizioni “pubbliche”, avendo sempre evitato di rilasciare interviste sul proprio passato da brigatista, eccezion fatta per un documentario di tanti anni fa curato da Loredana Bianconi su alcune donne che ai tempi presero parte alla lotta armata.
In coerenza di ciò ha evitato, come altri, e nonostante le fosse stato ovviamente richiesto da più parti, di rilasciare interviste o quant’altro destinato a riempire i maggiori palinsesti mediatici nell’approssimarsi dell’anniversario dei 40 anni della strage di Via Fani e del sequestro Moro.
Un post pubblicato il 9 gennaio sulla propria bacheca del social FB, e che sostanzialmente ribadiva la volontà di non partecipare ai vari special che sarebbero stati dedicati a un evento che, secondo costume italico, viene ricordato esclusivamente in occasione delle ricorrenze (per poi puntualmente ricadere nel più assoluto oblio), ha tuttavia improvvisamente riportato su di lei la dimenticata attenzione dei media, interessati da una lettera molto polemica inviata a un noto giornale da un ex brigatista che le augurava di ritrovarsi insieme all’inferno. Il post incriminato recitava la seguente frase “Chi mi ospita oltre confine per i fasti del quarantennale ?”.
Da quel momento Barbara Balzerani è diventata di colpo per tutti i principali commentatori della più diversa provenienza l’emblema della feroce assassina che si fa beffe delle vittime dei suoi crimini, chiedendo di “andare ai caraibi” (sic !) mentre i parenti delle vittime piangono i loro morti. Anche se il significato di quel post era ben diverso, come avrebbe dovuto risultare evidente a chiunque, ha prevalso la voglia di ricreare a distanza di 40 anni il “mostro” e la Balzerani ha evitato ulteriori commenti, riprendendo a girare per l’Italia per presentare il suo ultimo romanzo, che peraltro, a differenza di altri, tratta una tematica che non ha nulla a che vedere con la passata esperienza brigatista. All’approssimarsi del 16 marzo si scatena la celebrazione mediatica del quarantennale cui lei, come altri, si guarda bene di partecipare o di dire la sua.
Domenica 11 marzo il giornalista Purgatori batte tutti sul tempo mandando in onda su La 7 uno speciale in due puntate che in realtà riproduce integralmente le interviste rilasciate parecchi anni fa per un documentario francese da quattro ex brigatisti che presero parte al sequestro di Moro, uno dei quali, peraltro, morto da 5 anni. Il programma scatena l’indignazione generale di alcuni parenti delle vittime, ma non solo, per i brigatisti che vanno in TV proprio in occasione del quarantennale, anche se a nessuno di quei quattro era stato chiesto il permesso di utilizzare quelle loro vecchie interviste rilasciate per ben altra occasione. Anzi uno di loro, espressamente invitato a rilasciarne una nuova da altro importante giornalista rifiutò cortesemente l’invito, proprio per evitare di scatenare le prevedibili e solite polemiche.
Contemporaneamente e da più parti gli ex brigatisti venivano tuttavia rimproverati, non senza una certa dose di apparente incoerenza argomentativa, di essere reticenti e persino omertosi in senso mafioso.
Nuovamente la Balzerani, come altri, evita di esprimere alcun pubblico pensiero sul punto, ma quando il CPA di Firenze la invita a presentare, peraltro come tutti gli anni accadeva, il suo libro il 16 marzo, data evidentemente non scelta da lei, si scatena una ridda di polemiche per il solo fatto che venga invitata seppure a presentare un libro che parla di tutt’altro.
I media si appostano con microfoni e telecamere nascoste confidando nello scoop e al termine della presentazione del libro qualcuno le chiede di esprimersi sulla polemica in corso da parte delle vittime sul diritto di parola anche agli ex brigatisti.
A domanda risponde che fermo restando il diritto delle vittime di esprimere il proprio pensiero, la narrazione di una storia collettiva non può essere monopolio neppure di loro, e per esprimere un concetto, sul merito del quale direi che nessuno potrebbe obiettare alcunché, usa un espressione che scatena ancor di più l’indignazione collettiva nei di lei confronti. «C’è una figura, la vittima, che è diventato un mestiere, questa figura stramba per cui la vittima ha il monopolio della parola. Io non dico che non abbiano il diritto a dire la loro, figuriamoci, ma non ce l’hai solo te il diritto, non è che la storia la puoi fare solo te».
Da quel momento si legge contro di lei di tutto e di più, cui peraltro l’interessata non replica in alcun modo, le vengono dedicate intere pagine sul Corriere e puntate di Matrix ed è di queste ore la notizia che la Procura di Firenze avrebbe “aperto un fascicolo” nei di lei confronti anche se, specificano, in assenza di reato, che il Comune di Firenze ha deciso lo sgombero del centro sociale che l’ha ospitata e che il figlio dell’ex sindaco Conti ha preannunciato una querela per diffamazione contro di lei.
Questi sono i fatti, i giudizi come sempre ognuno potrà farseli secondo i propri diversi intendimenti.
Davide Steccanella
da facebook
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Sui fasti e sul potere vittimario
“La vittima è l’eroe del nostro tempo. Essere vittime dà prestigio, impone ascolto, promette e promuove riconoscimento, attiva un potente generatore di identità, diritto, autostima. Immunizza da ogni critica, garantisce innocenza al di là di ogni ragionevole dubbio. Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce. Nella vittima si articolano mancanza e rivendicazione, debolezza e pretesa, desiderio di avere e desiderio di essere. Non siamo ciò che facciamo, ma ciò che abbiamo subíto, ciò che possiamo perdere, ciò che ci hanno tolto”. (Daniele Giglioli, Critica della vittima)
Carnefici assoluti e vittime assolute orchestrati da un sistema mediatico cui è stata delegata la direzione della retorica della memoria condivisa, collaudata ormai da almeno un decennio attraverso la “televisione del dolore”, come l’ha ben definita De Luna, e nel contesto di un diffuso senso comune dominato dal populismo penale che attraversa la società toccando destra e sinistra ormai indistintamente. Si commemora in questo contesto, secondo i meccanismi del paradigma vittimario, e del complottismo, suo parente stretto, il quarantennale della morte di Moro e della sua scorta, con ricadute non indifferenti nel campo storiografico, ma soprattutto nella costruzione della memoria pubblica, e cioè dell’uso del passato nella costruzione del presente. Fasti – celebrazioni – che certo non aiutano a comprendere il passato, che sostituiscono la memoria alla Storia e che in fondo paiono anche molto poco rispettosi degli stessi che le istituzioni vorrebbero celebrare.
La Storia letta sempre più in un´ottica giudiziaria – dove gli attori incarnano i ruoli di carnefici e vittime – e complottista – dove pochi burattinai tengono in mano i destini del mondo tramando contro ignare ed innocenti masse – non sono un fenomeno solo italiano. L’ascesa del paradigma vittimario corrisponde all’affermarsi ed al consolidarsi del neoliberismo e della post-modernità, ne costituisce la sua base ideologica, espungendo progressivamente dall’orizzonte politico contemporaneo e dalla Storia, il concetto di conflittualità, depoliticizzandola e passivizzandola. Pur non trattandosi di un fenomeno solo italiano, l’Italia ne ha, in certo modo, precorso i tempi e le tappe, mettendolo a punto proprio con quei due decenni di passato che vanno dalla metà degli anni 60 alla metà degli anni 80, che non si riesce a storicizzare, ed in particolare con la lotta armata, il vero oggetto delle permanenti esorcizzazioni.
A narrare, una memoria, dominante su tutte le altre. Una memoria trasformata impropriamente ma non a caso in sinonimo di Storia e sostituita ad essa. Fino ad annullarla, a dissolverla nel dolore privato, nella dimensione intimista e familiare, che occupa la scena ed egemonizza lo spazio pubblico, occultando i grandi processi politici e sociali, e con essi le conflittualità che li muovono, che sono la parte costitutiva della Storia.
Vittima e familiare della vittima, sacralizzati nel rito ufficiale della giornata della memoria, istituzionalizzati dal discorso pubblico, spettacolarizzati mediaticamente, sono arrivati ad incarnare una superiore moralità. La loro parola, indipendentemente dal fatto di essere corretta rispetto ai fatti o alle persone di cui parla, e la loro posizione che esprime sofferenza assoluta, diventa inattaccabile, la critica diventa ingiuria. Basta molto meno della critica, basta il solo porre un discorso altro che si sottragga alla retorica del dolore perché scatti la censura e la riprovazione pubblica mediaticamente indotta, che prenda avvio il processo di mostrificazione dei cinici carnefici. La loro parola diventa valore assoluto, e assoluto il potere di veto sulle altre voci. È comprensibile, umano soprattutto, da parte di chi abbia subito lutti o sofferenze personali, una reazione di indignazione e di protesta di fronte al responsabile della morte di un suo familiare. L’espressione di odio, vendetta, rancore si comprendono ed hanno la loro ragion d’essere in quanto manifestazioni personali e private del dolore di ciascuno.
Di diversa natura e di diverso significato, invece, l’operazione, sotto i nostri occhi in questi giorni, che sul piano istituzionale e mediatico ha reso centrale il ruolo di una tipologia di vittima in particolare, quella della lotta armata degli anni 70-80, posta come figura centrale per l’interpretazione del conflitto sociale e politico di quel periodo, finendo per incarnarne il senso e divenirne la sua principale chiave di narrazione e di lettura, costruendo e cristallizzando attorno alla sua identità la memoria di stato, riempiendo con il dolore privato il vuoto della politica istituzionale – di classi dirigenti ingessate ed immobili, ieri come oggi – ponendola al centro dello spazio pubblico, assegnandole il monopolio della parola sulla Storia.
Non tutte le vittime sono uguali, ed è dai rapporti di forza politici, dai ruoli sociali, da chi ha vinto e da chi ha perso, che dipende la differenziazione tra vittime deboli e vittime forti, e di conseguenza tra memorie deboli e memorie forti. Dalla prospettiva che si assume può risultare difficile dimenticare, nello specifico del discorso che qui ci interessa, per esempio, i tanti eccidi proletari che costellano la storia repubblicana (gli oltre due chili di bossoli sparati in pochi minuti, il 2 dicembre 1968, contro i braccianti di Avola che chiedevano un aumento salariale e che fecero due morti, solo per fare un esempio, chi li ricorda? E i 17 morti e 88 feriti di Piazza Fontana appena un anno dopo, ad inaugurare lo stragismo contro un movimento di classe in ascesa? Come dimenticare che lo Stato ha fatto pagare ai familiari di quelle vittime le spese processuali senza fornirgli nemmeno una verità giudiziaria?)
Il peso, la visibilità e il rispetto dovuto alle vittime cadute in uno scontro sociale durato circa due decenni dipende dalla posizione che esse hanno occupato in quello scontro, dal peso e dall’interpretazione che si attribuisce alla storia complessiva di quegli anni.
Dall’altro lato le vittime forti, che occupano posizioni di rilievo nel mondo politico e giornalistico, che dispongono di associazioni, che hanno svolto e svolgono un ruolo preponderante nella costruzione della narrazione degli “anni di piombo”, proprio in virtù della loro identità di vittime. In questi anni quasi quotidianamente sono apparse interviste, dichiarazioni, prese di posizione dalle pagine dei maggiori quotidiani contro gli ex militanti della lotta armata, ogni qualvolta si presentassero libri, film, per protestare contro la loro presenza in convegni di studio o altre iniziative pubbliche, e contro chi semplicemente proponesse chiavi di lettura diverse rispetto all’unico discorso autorizzato sul tema. Curiosamente si parla dai principali mezzi di informazione, e al tempo stesso si reitera la formula rituale “parlano solo i terroristi, per noi il silenzio”.
Quanto sia presente e forte il condizionamento delle vittime “forti” e quanto necessaria la cultura del pubblico pentimento rispetto al proprio passato per poter vedere riconosciuto e legittimato il diritto di parola nel presente, lo mostra in modo nitido la pubblica abiura richiesta, ed immediatamente ottenuta, da una buona parte della numerosa schiera degli allora firmatari del manifesto contro il commissario Calabresi del 13 giugno 1971, divenuti nel frattempo membri integranti dell’establishment e dell’intellighenzia. Un buon esempio del funzionamento del paradigma vittimario e dei suoi effetti sulla scrittura della storia e sulla costruzione della memoria pubblica.
In questi giorni si sono riproposti, in maniera del tutto paradossale, gli argomenti usati da decenni sul diritto o meno di parola degli ex-militanti delle BR. L’obbligo al silenzio dei “carnefici” è stato veicolato dai media a mo’ di mantra: i terroristi non pentiti e non dissociati devono tacere. Il paradosso sta nell’aver creato una polemica su un fatto non avvenuto, e cioè sulla presenza in Tv degli ex brigatisti non pentiti e non dissociati. Chiamati da tutti i mezzi di informazione, nessuno di loro ha rilasciato interviste né accettato di partecipare ai numerosissimi programmi televisivi, tanto che si è fatto ricorso a materiale documentario già edito da tempo e non italiano per esibire la loro presenza. Eppure si grida contro il loro protagonismo. Si cercano per farli parlare e per poi gridare per il fatto che parlano. Tra l’altro, chi si scaglia contro i non pentiti e non dissociati, omette di dire che si riferisce a chi ha scontato più anni di carcere (e qualcuno, una ventina circa di persone, ancora sta scontando).
Coloro che vorrebbero mettere a tacere i terroristi non pentiti né dissociati, infatti, sanno sicuramente che queste due categorie, al di là della carica religioso-morale che i termini evocano per il senso comune, sono prima di tutto categorie giuridiche, da cui, sempre giuridicamente ne discende una terza, quella degli irriducibili – che raccoglie, al di là delle diverse posizioni assunte poi dai singoli, tutti quelli che non rientrano nelle prime due – con le quali lo Stato italiano attraverso la legislazione d’eccezione ha risolto, sul piano giudiziario, il conflitto sociale degli anni 70 distribuendo condanne, elargendo sconti e assoluzioni secondo il grado di collaborazione. I non pentiti e non dissociati sono dunque coloro che non hanno usufruito dei benefici previsti dalle leggi su pentimento e dissociazione.
Quelli cioè che hanno pagato senza sconto! Dovrebbero saperlo i giustizialisti oltranzisti che vorrebbero l’applicazione di una sorta di ergastolo politico e sociale, la permanente esclusione dagli spazi pubblici. In ogni caso, le vittime delle BR non possono dire di non aver avuto giustizia. Non si può dire lo stesso per le altre vittime di quella stagione, prime fra tutte quelle dello stragismo, fenomeno per natura ed origine non assimilabile alla lotta armata ma che viene associato indistintamente ad essa come si trattasse della stessa cosa, che ha mietuto indiscriminatamente centinaia di morti rimasti senza responsabili. Basterebbe, visto il tempo ormai intercorso, se non una verità giudiziaria, almeno un po’ di verità storica, ma pare non premere alle istituzioni indignate contro gli ex-BR.
Rimane da chiedersi, se i conti con la giustizia sono stati regolati, e le vittime, in questo caso i vincitori, hanno avuto ragione, perché il rancore istituzionalizzato? Da dove nasce e qual è la funzione del rancore dei vincitori che si presentano, o sono presentati, in veste di vittime? Il paradigma vittimario e la memoria condivisa che con esso si vorrebbe far passare, rappresentano la più recente formula per liberarsi dal peso ingombrante di una storia che non è mai stata digerita, che si cerca di liquidare come follia omicida e ideologica, esaltando l’innocenza assoluta da una parte ed il male assoluto dall’altra, in una sorta di infantilizzazione della Storia, e che ha bisogno del complottismo perché si mantenga cronaca.
Come scrisse Agamben ormai 20 anni fa, il mancato riconoscimento del carattere genuinamente politico del conflitto di quegli anni da parte delle classi dirigenti di allora e delle attuali, lascia quel periodo come un problema aperto, che non può farsi passato. Questo è il vero nocciolo della questione. I parenti delle vittime, di alcune vittime, non detengono il monopolio della Storia, non possono agire, come ha efficacemente sintetizzato Giglioli, come “corte di cassazione della Storia”. Non possono zittire chi ha fatto parte della storia, imponendogli una pena aggiuntiva oltre a quella scontata. Perché insieme a loro zittiscono anche chi quella storia cerca di comprenderla e di darne letture diverse da quella posta dalla memoria condivisa, avendo tutto il diritto di farlo.
Silvia De Bernardinis
da facebook