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Si nega l’autorizzazione a chi rivendica il reato

Nei populisti, l’assenza dei limiti alla volontà popolare, a sua volta identificata con la loro volontà, è nella negazione della subordinazione della politica ai diritti

L’aspetto più minaccioso dell’ideologia populista, allorquando i populisti, come in Italia, sono al potere, risiede in una concezione elementare e tendenzialmente anti-rappresentativa e anti-costituzionale della democrazia, frutto di due mistificazioni ideologiche.

La prima mistificazione è l’identificazione dei vincitori delle elezioni con il popolo, degli eletti con gli elettori, della volontà del ceto politico con la volontà popolare.

La seconda è l’idea che la democrazia consista nell’onnipotenza della maggioranza in quanto espressione della sovranità popolare e, quindi, la negazione di quel tratto distintivo della democrazia costituzionale che è l’insieme di limiti e vincoli imposti dalla Costituzione alla legislazione e perciò ai poteri politici di maggioranza.

Questa tendenza dei rappresentanti a identificarsi con il popolo rappresentato e perciò a concepire la sovranità popolare come la loro sovranità, benché rifletta una tentazione diffusa in tutto il ceto politico, forma il tratto distintivo soprattutto dei populisti, la cui concezione primitiva della democrazia consiste nell’idea dell’assenza di limiti alla volontà popolare, a sua volta identificata con la loro volontà, e perciò nella rimozione di quella grande conquista del secolo scorso che è stata la subordinazione della politica ai diritti costituzionalmente stabiliti.

E’ precisamente questo il senso e la portata della probabile negazione dell’autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale di Catania contro Matteo Salvini per il sequestro di 177 migranti, privati per lunghi giorni della loro libertà personale sulla nave Diciotti. Il ministro Salvini ha costruito il consenso popolare e la sua fortuna politica mediante l’ostentazione di misure tanto disumane quanto illegali: non solo la privazione della libertà per la quale è stato incriminato, ma anche la preordinata omissione di soccorso, la chiusura dei porti oggi nuovamente ordinata contro la nave Mare Jonio che ha salvato la vita a 49 migranti, la violazione della convenzione di Amburgo sui salvataggi in mare e perfino del nostro Testo unico sull’immigrazione che vieta i respingimenti di quanti intendono chiedere asilo, delle donne incinte e dei minori non accompagnati.

Ebbene, la negazione dell’autorizzazione a procedere contro Salvini non viene motivata da questa maggioranza con la supposta esistenza, come nelle comuni autorizzazioni, di un qualche fumus persecutionis o comunque, come nel caso del famoso voto del Parlamento sulla minorenne Ruby nipote di Mubarak, con la tesi dell’inesistenza del reato contestato. In questi casi, con la negazione sia pure non credibile del reato, il vizio rendeva omaggio alla virtù.

Al contrario, la proposta di negare l’autorizzazione a procedere avanzata lo scorso febbraio dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato è stata basata sull’aperta rivendicazione del reato – e ovviamente di tutte le altre violazioni dei diritti umani, passate e future – da parte dell’intero governo in nome di un “preminente interesse pubblico”. Non dimentichiamo che Salvini, quando ricevette l’avviso di garanzia, dichiarò che l’avrebbe appeso al muro come una medaglia.

Si sta così dando vita a un precedente gravissimo, forse – è sperabile – nell’inconsapevolezza generale. Certamente la probabile negazione dell’autorizzazione a procedere sarebbe formalmente legittima. L’articolo 9, comma 3 della legge costituzionale n.1 del 1989 – una vera mina collocata alla base del nostro assetto costituzionale – prevede infatti che il Parlamento possa negare l’autorizzazione a procedere contro un ministro sulla base della “valutazione insindacabile” da parte della maggioranza, del cui sostegno i ministri godono per definizione, “che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”.

Tuttavia dovrebbe essere chiaro che la legittimità formale di tale negazione nulla toglierebbe alla sua enorme gravità politica. La negazione dell’autorizzazione a procedere – anche con il voto di quanti gridavano “onestà” e “legalità” e che evidentemente considerano assai più grave un fatto di corruzione che l’omissione di soccorso e le stragi in mare di centinaia di migranti – varrebbe ad avallare due tesi, l’una di merito e l’altra di metodo, equivalenti, di fatto, alla negazione dello stato costituzionale di diritto.

La prima è che è nell’interesse dello Stato la violazione dei diritti inviolabili dell’uomo e dei doveri di solidarietà stabiliti dalla nostra Costituzione; la seconda è l’affermazione dell’insindacabilità della politica e del potere di governo come potere assoluto, e perciò l’archiviazione del sistema di limiti, di vincoli e di controlli di legalità nel quale risiedono la Costituzione e il costituzionalismo.

Luigi Ferrajoli

da il manifesto

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I porti italiani sono aperti perché chiuderli è illegale

Due giorni fa la nave italiana Mare Jonio dell’organizzazione Mediterranea Save Humans, ha soccorso 50 persone in fuga dalla Nigeria, dal Gambia, dal Camerun, dalla Guinea e dal Senegal. Mentre scriviamo l’imbarcazione ha raggiunto il porto di Lampedusa dove è iniziato lo sbarco dei naufraghi; e si ipotizza il sequestro della Mare Jonio e, per l’equipaggio, quello che viene definito pudicamente il «restare a disposizione delle autorità». Un esito tutt’altro che scontato, dal momento che l’intera giornata era stata attraversata dalle dichiarazioni tonitruanti dei due Vicepremier. Il ministro dell’InternoSalvini ha dichiarato che i nostri porti «erano e restano chiusi»; e Di Maio ha affermato (Dio lo perdoni) che «una Ong italiana non può permettersi di disobbedire alla Guardia Costiera Libica».

Resta il fatto che non esiste alcun provvedimento del Consiglio dei Ministri che abbia disposto una misura di chiusura dei porti. Misura che sarebbe, in ogni caso, illegale sotto il profilo normativo e costituzionale. Di conseguenza, i porti italiani erano e restano aperti. Poi intervengono spericolate decisioni politiche come la «Direttiva per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto all’immigrazione illegale», resa pubblica nella notte di lunedì scorso. Secondo quel testo, tra i 50 naufraghi soccorsi dalla Mare Jonio (minori compresi), potrebbero «celarsi soggetti coinvolti in attività terroristiche o comunque pericolosi per la sicurezza o l’ordine pubblico». Dunque, invece di accertare rigorosamente l’eventuale ed effettiva pericolosità di ognuno, si sarebbe voluto tenerli a mollo tutti.

Per una volta non è andata così. Nella giornata di ieri, l’imbarcazione era rimasta a qualche centinaio di metri al largo delle coste di Lampedusa, scortata da tre navi della Guardia Costiera italiana. E aveva ricevuto un’ispezione da parte della Guardia di Finanza che, al termine dei controlli durati sei ore, dichiarava di non aver rilevato alcunché di critico: a parte le condizioni delle persone tratte in salvo, evidentemente «provate». Non c’è da stupirsi, dal momento che le stesse sono transitate dalla Libia – non certo un paese sicuro – e dai suoi centri di detenzione in cui avvengono «orrori inimmaginabili» (da un recente rapporto delle Nazioni Unite).

Dopodiché, per ragioni al momento difficilmente decifrabili e in una prospettiva che attualmente sfugge, è stato consentito l’approdo a Lampedusa. Ciò che c’è ancora da temere è – rispetto a futuri episodi simili – un comportamento ondivago da parte del Governo, lacerato al proprio interno da contrasti insanabili e soggetto a mille pressioni, oltre che a una vocazione sciaguratamente propagandistica e demagogica, tesa di volta in volta a intercettare gli umori che ribollono nel corpo profondo del paese. Non si tratta di una circostanza inedita, e non si deve pensare esclusivamente agli ultimi quattro-cinque anni. La tentazione al respingimento di migranti e richiedenti asilo ha una storia antica e meschina, che ha conosciuto un episodio, oggi totalmente dimenticato, già quindici anni fa.

Era il 2004 quando la nave Cap Anamur, dell’omonima Ong di Colonia, dopo aver tratto in salvo dalle acque del Canale di Sicilia 36 profughi sudanesi, venne bloccata in mare per ben tre settimane. Stefan Schimdt, il capitano, racconta «li soccorremmo avvisando le autorità italiane e li salvammo. Poi per tre settimane ci bloccarono in mare aperto perché non ci volevano fare sbarcare sulle coste siciliane e quando finalmente ci fecero attraccare a Porto Empedocle ci arrestarono per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fummo arrestati». E prosegue: «solo dopo cinque anni, dopo il processo, ci assolsero. Non avevamo compiuto nessun reato, avevamo salvato soltanto delle vite umane che stavano per affondare” (La Repubblica, 29 aprile 2017).
Questa volta, e provvidenzialmente, la storia non si è ripetuta negli stessi identici termini. Resta un elemento costante, pur a distanza di tanti anni e che addirittura sembra precipitare: un crescente spregio verso la tutela dell’incolumità degli esseri umani, soggetta alle oscillazioni degli interessi politici.

Valentina Brinis, Luigi Manconi

da il manifesto