Da una settimana in Kazakhstan ci sono proteste, scontri e assalti ai palazzi governativi a cui le autorità hanno risposto con lo stato di emergenza e la richiesta di truppe straniere
Dentro alla confusione che regna in questi giorni in Kazakhstan – fra scioperi e tumulti, palazzi governativi dati alle fiamme, deposizioni e arresti della vecchia classe dirigente e l’intervento delle truppe russe e armene – c’è forse un punto fermo: le condizioni materiali di lavoratori e lavoratrici, di cittadine e cittadini del paese. Sono ancora poco chiari le dinamiche e gli sviluppi di quella che rappresenta la prima sollevazione popolare del 2022, visto che è molto probabile che si siano verificati tentativi di etero-direzione e strumentalizzazione della protesta. Ma la miccia della rivolta, al di là di cosa le abbia fatto prendere fuoco nello specifico degli ultimi giorni, va ricercata in un intreccio di sfruttamento economico, autoritarismo politico e repressione del dissenso che non sono certo fenomeni nuovi nel contesto della repubblica centro-asiatica.
Gli scontri di Almaty (seconda città più popolosa del Kazakhstan, situata a sud-est), dove la folla scesa in piazza nelle giornate fra il quattro e il sei gennaio è riuscita a respingere l’intervento della polizia, ad assaltare e bruciare il palazzo della regione nonché ad attaccare l’aeroporto cittadino nel tentativo di “prendere controllo dell’area”, seguivano infatti altri momenti di protesta che si erano già sparsi in diverse zone del paese.
In particolare, i primi dell’anno sono entrati in mobilitazione gli operai attivi a Zhanaozen, nella ragione sud-occidentale del Mangistau affacciata sul Mar Caspio, in cui sono presenti numerosi impianti di estrazione petrolifera. L’insofferenza per l’annuncio da parte governativa di un aumento dei prezzi del carburante (dai 60 ai 120 tenge per litro) si univa a rivendicazioni salariali che – in un paese dove il salario medio si aggira attorno ai trecento euro mensili – sono costantemente all’ordine del giorno.
Da lì, la protesta si è diffusa a livello geografico così come si è ampliato lo spettro delle richieste: le persone hanno iniziato a pretendere riduzioni dei prezzi sul cibo, misure per contrastare la disoccupazione (stimata attorno al 6%), soluzioni alle carenze di acqua corrente (un problema particolarmente acuto proprio nell’area del Mangistau), dimissioni del governo e delle autorità locali.
Nel frattempo sono scoppiate mobilitazioni anche nella capitale regionale di Aktau mentre i minatori di Karaganda e Zhezkazgan sono entrati in sciopero.
Si sono verificati numerosi blocchi stradali e ferroviari, mentre nella cittadina di Taldykorgan (in prossimità di Almaty) è stata abbattuta la statua dell’ex-presidente Nazarbaev (alla guida del paese sin dai tempi sovietici fino al 2019, per poi diventare Capo della Sicurezza e ora misteriosamente scomparso dalla scena). Stando a una mappa elaborata da gruppo anarco-sindacalista russo “Kras-mat”, questa era lo stato delle mobilitazioni al sei gennaio lungo il territorio del paese:
Una situazione di scontri e proteste praticamente in ogni centro maggiore e “sensibile” del Kazakhstan (a eccezione della capitale dove, parrebbe, le forze a difesa del regime si sono mosse preventivamente).
Ma, appunto, una tale estensione e diffusione va letta anche in senso cronologico: le mobilitazioni di lavoratori e lavoratrici di inizio 2022 non sono che la prosecuzione di un’ondata di malcontento che è stata ben attiva negli ultimi tempi.
Come ha ricostruito Yurii Colombo (rifacendosi sempre alle informazioni riportate da “Kras-mat”), «forme di resistenza semiclandestina» non sono mai cessate e l’anno scorso «il processo di ricomposizione delle lotte ha poi accelerato»: il 30 giugno, sempre a Zhanaozen, una fermata “a gatto selvaggio” degli operai dei servizi petroliferi Kezbi Llp strappava un raddoppio dei salari; il 13 luglio altre proteste nel settore della sicurezza e in quello dei trasporti ottenevano vittorie simili; il 20 luglio, decine di dipendenti del servizio delle ambulanze sono scesi in strada per il ritardo nei pagamenti delle indennità Covid. E ancora: scioperi e mobilitazioni da parte delle donne (in particolare, il 28 giugno, davanti al ministero dell’industria di Astana), blocco della circolazione dei treni a Shymkent, eccetera eccetera.
Insomma, un crescendo di insofferenza per le condizioni lavorative e di vita, aggravate probabilmente anche dall’ondata pandemica. Tuttavia l’agitazione e la lotta anche “dura “da parte di alcuni settori della popolazione è un dato quasi “strutturale” nella storia della repubblica centro-asiatica, nonostante il regime di Nazarbaev e del suo successore Tokaev abbia spesso fornito l’impressione di grande stabilità e di scarsa conflittualità sociale. Eppure, come stanno ricordando in molti, è proprio in un tale contesto che nel si è verificato uno degli episodi più cruenti di repressione del dissenso operaio nello spazio post-sovietico: in seguito a controversie già iniziate da alcuni mesi fra proteste e scioperi della fame per salari al di sotto della soglia minima, il 16 e il 17 dicembre 2011 la polizia aprì il fuoco sui lavoratori delle compagnie petrolifere uccidendone almeno sedici (ma c’è chi sostiene fossero ben di più) e ferendone centinaia.
Oppure, andando più indietro nel tempo, fra il 1997 e il 1998 ci furono altre ondate di mobilitazioni, che interessarono per esempio la riforma delle pensioni e che videro le persone non ricevere alcun contributo per quasi un anno di seguito.
In generale, sperequazione delle risorse, attitudine “cleptocratica” e clientelare della classe dirigente, grandi interessi sia locali che internazionali nel trarre profitto da petrolio e uranio (di cui il Kazakhstan è molto ricco) nonché da sistemi tassativi spesso favorevoli ad attività para-legali (come è il caso del trasferimento nel paese di numerose compagnie dedite all’estrazione delle criptovalute, attività che pare aver causato costanti sovraccarichi nella rete elettrica) rendono la vita difficile a lavoratori e lavoratrici e alla popolazione.
Stando ai dati relativi all’anno scorso del World Inequality Database, il 10% più ricco della nazione detiene circa il 60% della ricchezza totale mentre più del 4% dei cittadini e delle cittadine del paese vive al di sotto della soglia di povertà. Inoltre, il difficile “equilibrio” fra controllo delle risorse soprattutto petrolifere da parte del regime di Nazarbaev e la necessità di attrarre capitale straniero – che ha di fatto strutturato nel corso degli anni le dinamiche di potere, con (sintetizzando brutalmente) un primo periodo di conflitto e negoziazione da parte dell’ex-dirigente sovietico con i gruppi di interessi locali (ai quali si mischiava un fattore etnico e di appartenenza a clan), una successiva campagna di privatizzazioni e di “svendita” delle attività estrattive ad aziende esterne durante gli anni ‘90, infine un ri-accentramento e ri-statalizzazione delle compagnie che ha fatto leva sul rialzo del prezzo del greggio dei primi 2000 – non hanno certo giocato a favore di una crescita progressiva dei diritti, né lavorativi né politici.
Per dare un’idea dell’entità dei conflitti che si verificano a livello occupazionale: sempre nel 1997, nella regione di Karaganda, persero il lavoro ben 13mila minatori e si verificarono ritardi nelle paghe di mesi e mesi. Più o meno nello stesso periodo, la compagnia canadese Hurricane Hydrocarbons Ltd (oggi PetroKazakshtan) ridusse il proprio personale da 5100 a 1900 unità nel giro di soli quattro anni.
Oppure ancora, nel 1999, i dirigenti della cinese Amg con il pretesto di una “ristrutturazione” diedero il benservito a 2mila impiegati in un colpo solo. Il tutto in un contesto di sostanziale “complicità” fra la volontà di Nazarbaev di accaparrarsi buona parte dei profitti e gli interessi del capitale straniero di investire in un territorio ricco di risorse, “garantendosi” la possibilità di farlo con un costo del lavoro molto basso e scarse, se non nulle, tutele sindacali.
Quando giustamente si punta il dito sul carattere autoritario dei diversi regimi centro-asiatici, in alcuni casi al limite dell’assolutismo, è bene ricordarsi anche le reti di interesse che hanno tutti i vantaggi affinché permanga una condizione siffatta: come riassume l’accademico Wojciech Ostrowski nel suo pur datato Politics and Oil in Kazakhstan, «dalla prospettiva di un investitore straniero, la grossa concentrazione del potere nelle mani di pochi leader del paese rappresenta una cosa buona». Che viene prontamente ricambiata: forse non tutti rammentano il cosiddetto “Kazakhgate”, un grosso scandalo finanziario che coinvolse il presidente kazako e l’uomo d’affari statunitense Giffen in un complicato schema di riciclaggio e di ripartizione dei profitti petroliferi fra l’élite di Astana, compagnie estere e vecchi dirigenti sovietici.
Insomma, al netto degli avvicendamenti storici, un meccanismo di do ut des parecchio oliato in cui le vite di lavoratori e lavoratrici (comprese, se vogliamo, quelle dei “miner” di criptovalute) rappresentano il punto di collegamento fra materiale e immateriale, fra estrazione di risorse ed estrazione di (plus-)valore.
Si potrebbe dunque dire che gli avvenimenti di questi giorni “arrivano da lontano” ma anche che, in certo senso, prefigurano scenari di un futuro prossimo: si producono all’intersezione fra sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitalismo estrattivista, nuovi modi di speculazione finanziaria, “crolli” strutturali delle vecchie concentrazioni di potere post-sovietiche e perturbazioni nei prezzi di mercato dovuti alla gestione di risorse che contribuiscono all’avanzamento della crisi climatica.
Certo, come accennavamo in apertura, se questa è la “miccia” da cui si è accesa la sollevazione, le fiamme divampano in direzioni quanto mai confuse: se le dichiarazioni di Tokayev che in merito agli scontro di Almaty ha parlato fin da subito di “infiltrazioni straniere” sono da derubricare a classica propaganda per giustificare la repressione, l’attivista per i diritti umani (molto impegnato peraltro nella ricerca di giustizia per la repressione dei lavoratori del 2011) Galym Ageleuov, presente alle proteste, ha testimoniato di un “gruppo di circa 200 persone” che si è unito all’improvviso alla folla per guidarla negli assalti successivi; l’arresto del capo dell’intelligence kazaka Karim Másimov e le incerte sorti di Nazarbaev fanno a tutti gli effetti pensare che sia in corso anche un definitivo “regolamento dei conti” fra quest’ultimo e il suo entourage e l’attuale presidente deciso a prendere completamente le redini del paese; la testimonianza della decapitazione di almeno due membri delle forze dell’ordine fa inoltre presupporre che nel caos della situazione siano all’opera anche gruppi fondamentalisti islamici (cosa che non sarebbe del tutto strana nel contesto kazako), mentre durante i giorni scorsi l’ex-rivale di Nazarbaev e tycoon “in esilio” Abljazov si è auto-dichiarato a capo delle proteste.
A far fronte a una tale situazione incendiaria sono arrivati, sulla scorta del Trattato di difesa collettiva Ctso, contingenti russi e bielorussi, mentre Tokaev ha ordinato ai suoi di «sparare senza preavviso» proclamando lo stato di emergenza. È notizia di ieri sera che le autorità avrebbero ripreso il controllo di Almaty. Come purtroppo accade in questi casi, per “spegnere le fiamme” sarà stato versato molto sangue.