Sorveglianza e carcere per chi lotta: quando la magistratura si fa apparato repressivo
- gennaio 25, 2022
- in Editoriale
- Edit
La gestione dell’ordine pubblico, le politiche di controllo sociale e la criminalizzazione dei movimenti rappresentano, in questo particolare contesto storico, un tema particolarmente attuale che crediamo vada analizzato con molta attenzione.
di Gloria Ferrari
Le proteste che si sono susseguite nel corso degli anni, seppur mutando la propria forma o modo di manifestarsi, sono spesso state espressione di malcontento e insoddisfazione nei confronti di qualche tassello o aspetto della società. È capitato che a prendere parte per primi a cortei o iniziative di piazza siano stati i giovani, notoriamente abbandonati e inascoltati da una politica che volge lo sguardo sempre troppo in alto. Dall’altra parte, però, non è scontato trovare dialogo, comprensione e confronto. E soprattutto, non è facile trovare una visione d’insieme che non ometta alcune parti del racconto.
Nei notiziari, negli articoli di giornale, sui social succede che il sensazionalismo prenda il sopravvento sulla verità, e che le cariche, i lacrimogeni, gli sgomberi forzati ci sembrino degli interventi di cui la polizia si è dovuta obbligatoriamente servire per difendersi dagli attacchi dei manifestanti. È lo stesso meccanismo che si presenta anche nelle aule dei tribunali, quando l’unico obiettivo è stroncare le proteste prima che prendano del tutto piede, con mezzi apparentemente legittimi.
Soprattutto negli ultimi 20 anni, infatti, per tenere a bada le tensioni sociali – e reprimerle – “si utilizzano dispositivi di legge che in qualche modo sarebbero stati pensati per contrastare il terrorismo e che permettono di utilizzare anche strumenti investigativi particolarmente aggressivi nonché l’applicazione di misure cautelari in maniera molto estesa”. Sono le parole con cui Enrico Zucca, pubblico ministero all’epoca del processo per le torture alla scuola Diaz del 2001, ha descritto all’Indipendente gli strumenti di cui lo Stato si serve per reprimere il dissenso. Tra questi il “reato di devastazione e saccheggio”, il “principio di sorveglianza speciale” e il “concorso morale”. Di cosa si tratta?
Devastazione e saccheggio
L’origine del reato di devastazione e saccheggio risale al codice penale fascista chiamato Rocco – dal nome del suo principale estensore -. Nonostante il passare degli anni, da allora non ha subito significative trasformazioni, neppure nel nome. Anche se parlare di “devastazione e saccheggio” evoca epoche barbare, la stessa pena – descritta dall’articolo 419 del codice penale – viene inflitta ai giorni nostri a persone di ogni sesso ed età che si ritrovano a manifestare. Chi ne viene accusato può subire dagli 8 ai 15 anni di carcere. Dagli anni 2000 il reato è servito principalmente a sanzionare gli ultras e i partecipanti alle proteste di piazza, come è accaduto nel caso del processo del G8 di Genova.
Ma l’articolo non dà una spiegazione univoca del reato né fornisce chiarimenti sulla sua attuazione. I giudici, per questo, finiscono per dare una propria libera interpretazione, sempre diversa, a volte paradossale. Presi singolarmente i due termini – devastazione e saccheggio – hanno già una normativa che li regola: il reato di danneggiamento è disciplinato dall’art. 635 del codice penale, mentre quello di furto è punito dall’art. 624 con la reclusione da sei mesi a tre anni. Una bella differenza temporale con i 15 anni previsti dal 419. Per questo succede sempre più spesso che quello di “Devastazione e saccheggio” è un reato “all’occorrenza”, che si plasma a seconda di chi l’ha commesso, delle situazioni e dell’interpretazione soggettiva del giudice di turno.
Ci sono alcuni esempi passati alla storia come simbolo dell’utilizzo scorretto dell’articolo 419, in molti casi dei quali l’accusa poi non non ha retto fino alla fine. Primo fra tutti l’accanimento giudiziario nei confronti del movimento No Tav e a seguire il processo per devastazione e saccheggio intentato dalla procura di Genova nei confronti dei partecipanti alle proteste per il G8.
E ancora, 31 agosto 2002: durante un’amichevole Lazio-Juve i tifosi protestano contro la cessione della Lazio di due giocatori; la protesta si trasforma in scontro con la polizia. 20 settembre 2003: in seguito ad una carica dei poliziotti ai cancelli dello stadio di Avellino, il tifoso Sergio Ercolano precipita dagli spalti e muore. Nei momenti successivi si susseguono invasioni di campo e scontri. Negli esempi precedenti le incriminazioni per “devastazione e saccheggio” non sono mai arrivate fino alla fine. Negli accadimenti del 2003, invece, per la prima volta il processo per 5 ultras incriminati termina con la Cassazione nel 2008. E per la prima volta l’articolo 419 arriva fino all’ultimo grado di giudizio. E non sarà l’ultima.
Concorso morale e sicurezza nazionale
Ma c’è un altro primato. È l’11 marzo del 2006. Una folla di persone scende in piazza per impedire una manifestazione fascista che si sarebbe dovuta svolgere in Porta Venezia. In seguito alle cariche delle Forze dell’Ordine vengono fermate 45 persone. La Cassazione, nel 2009, conferma 16 condanne a 4 anni. Per la prima volta la giurisprudenza si è servita del reato di concorso morale. Da quel momento, per essere accusato ed eventualmente condannato per devastazione e saccheggio, sarebbe bastato esserci, essere lì in quella piazza, in quella strada, anche senza agire. La sola presenza, secondo i giudici, darebbe forza agli altri individui e li spingerebbe a creare scompiglio. La gravità dell’introduzione del reato è che l’accusa è potenzialmente estendibile nei confronti di tutti quelli che si trovano in un determinato luogo, fisicamente, in quel momento.
Dal 2011 in poi, l’utilizzo dell’articolo 419 e degli altri strumenti come capo d’imputazione per giornate di proteste, è decisamente aumentato. Un altro caso abbastanza recente è quello avvenuto a Cremona nel 2015, quando in seguito all’aggressione di Casapound ai danni del centro culturale Dordoni un uomo finisce in coma. Per questo motivo, nei giorni a seguire viene indetto un corteo antifascista il cui obiettivo è quello di chiudere la sede dei fascisti. Nel corso della giornata avvengono diversi scontri con le forze dell’ordine e il corteo non riesce a raggiungere la sede di Casapound. Il risultato è: 8 arresti. Tutti gli imputati sono accusati di devastazione e saccheggio.
Possiamo davvero definirlo tale? In realtà con l’aumentare dei movimenti di protesta, lo Stato ha tentato di rafforzare il suo potere centrale, legittimando normative discutibili e applicate arbitrariamente in nome della sicurezza nazionale. Creando, quindi, un enorme strumento politico a sua disposizione per intimidire e criminalizzare per dimostrare chi sono i buoni e chi sono i cattivi.
Criminalizzare ogni opposizione sociale
Il reato di devastazione e saccheggio è stato introdotto in origine per essere utilizzato in casi estremi di messa in pericolo dello Stato e dell’intera società. Sono sufficienti pochi individui per attuare piani di così vasta portata? “Stiamo assistendo a una crescente criminalizzazione della protesta nei regimi “ibridi”, ma anche nei Paesi democratici. Siamo di fronte a una strumentalizzazione da parte di alcuni”, ha detto Donatella Della Porta, professoressa di Sociologia Politica alla Scuola Normale Superiore di Firenze.
Secondo la studiosa la criminalizzazione delle proteste potrebbe avere due tipi di effetti, entrambi pericolosi per il sistema politico. “Anzitutto, la criminalizzazione potrebbe concludersi con successo, diffondendo la paura tra le persone. E quando le persone sono spaventate da un regime, generalmente le proteste si fanno più radicali, perché giustamente i cittadini intuiscono che è venuto meno lo spazio per la resistenza pacifica. Allo stesso tempo, il processo di criminalizzazione riduce la capacità dei governi di raccogliere informazioni sulle varie istanze e di trovare nuove alleanze per risolvere i problemi”.
La sorveglianza speciale
C’è un altro strumento in mano alla magistratura che si presta facilmente a libera interpretazione e arbitrario utilizzo. È la sorveglianza speciale, per cui se una persona viene identificata come potenzialmente pericolosa, la si limita della sua libertà per prevenire ed evitare che il pensiero criminoso si trasformi in atto. Anche se ufficialmente se ne è cominciato a parlare nel decreto legislativo 159/2011, le sue origini, anche in questo caso sono un po’ più antiche.
Prima che l’Italia proclamasse la sua unità, a subire una sorveglianza di questo tipo erano i vagabondi e i briganti. Lo stesso metodo utilizzato dal regime fascista per contenere il dissenso – confinando i manifestanti – senza dover passare prima da ulteriori iter giudiziari. Tutto il contrario di quello che si legge nell’art. 11 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, secondo cui si “Ogni individuo accusato di un reato è presunto innocente sino a che la sua colpevolezza non sia stata provata legalmente in un pubblico processo”. Anche in questo caso esistono degli esempi. Quello più significativo, senza dubbio, riguarda una cittadina genovese di 49 anni, nei confronti della quale la sezione “misure di prevenzione” del tribunale di Genova ha previsto il provvedimento di sorveglianza speciale. Per quale motivo? A causa del suo attivismo, che l’aveva vista protagonista di molte manifestazioni in piazza e occupazioni. Secondo il sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia (Dda) Federico Manotti la misura doveva “contrastare una pericolosità sociale generica”.
Gli esempi e le testimonianze non finiscono qui ma, a prescindere dall’elenco dei fatti che potrebbe durare all’infinito, c’è una necessità che sorge e accomuna tutte le vicende: creare leggi per riformare o abolire del tutto questi strumenti, perché come ha detto Enrico Zucca a l’Indipendente, “in Italia vi è una mancata attitudine da parte delle istituzioni nel saper gestire le tensioni sociali e di piazza. In Italia la repressione giudiziaria dei fenomeni di piazza è sproporzionata. Si è verificato un cortocircuito perverso in cui lo Stato, che contestava ai manifestanti di non rispettare le regole democratiche, le ha violate a sua volta. Ma la violazione delle regole da parte dello Stato, si badi bene, è molto più grave”.