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Stadio e controllo sociale

Lo stadio negli ultimi dieci anni è diventato sempre di più un luogo dove sperimentare controllo sociale e nuove forme di repressione, un laboratorio per testare e affinare leggi sempre più rigide. Opposta al duro controllo sui tifosi, si è però sempre più diffusa una totale libertà di utilizzo della violenza da parte delle forze dell’ordine. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Luca, ultras della Sambenedettese, picchiato selvaggiamente a Vicenza lo scorso 5 novembre.

Dopo dieci anni di Daspo, arresti preventivi, controllo di striscioni e materiale introdotto negli stadi, anche nelle strade e nelle piazze abbiamo vissuto sulla nostra pelle queste nuove forme di controllo. L’anno passato è stato quello che ha visto l’introduzione del Daspo urbano, dei controlli e dei fermi preventivi prima di qualsiasi tipo di manifestazione. Hanno lavorato in modo tale da rendere vuoti gli stadi e adesso stanno provando a svuotare anche le strade e gli spazi di espressione del dissenso.

Un laboratorio deve sperimentare in continuazione e l’ultimo mese è stato molto attivo in questo senso. A metà dicembre la commissione antimafia ha pubblicato un documento in cui si sottolinea la crescente osmosi tra la criminalità organizzata, la criminalità comune e le frange violente del tifo organizzato, «nelle quali si annida anche il germe dell’estremismo politico».

Per contrastare i fenomeni di violenza e limitare gli interessi della criminalità il comitato ha proposto l’introduzione delle celle negli stadi, il divieto di effettuare scommesse in Lega Pro e serie D, l’inasprimento del Daspo e una guerra contro i bagarini con multe salatissime.  Di celle negli stadi si parla da anni ormai: è il famoso modello inglese. L’introduzione nel 2007 del Daspo e nel 2009 della tessera del tifoso hanno avuto come unico risultato quello di far allontanare la gente dallo stadio. Trasferte vietate, partite a porte chiuse, controlli sempre più rigidi per quei pochi che resistono ancora sulle gradinate. Una riprova del fatto che le misure Amato-Maroni puntavano soprattutto a colpire la cultura del mondo ultras per “ripopolare” gli stadi.

L’introduzione della famigerata tessera del tifoso era, nei loro piani, un progetto più vasto e globale che prevedeva la costruzione di stadi nuovi ed aree ad uso sportivo-commerciale in tutte le città italiane. Condizione necessaria avrebbe dovuto essere una radicale mutazione antropologica degli occupanti degli spalti, in nome del Dio denaro e di una nuova concezione del calcio come spettacolo.

Nello scorso agosto gli stessi attori che firmarono per l’introduzione della tessera del tifoso hanno sottoscritto un protocollo in cui si legge testualmente che il sistema della tessera del tifoso «ha comportato una serie di effetti collaterali quali una oggettiva complessità della disciplina del ticketing, la difficoltà di accesso agli impianti, la suggestione dell’utente circa il reale pericolo di andare allo stadio, alcune situazioni di manifesta disparità di trattamento». Conseguentemente il Ministro dell’Interno, di concerto con gli altri firmatari del Protocollo, ha affidato al Presidente dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive l’incarico di «realizzare un rinnovato modello di gestione degli eventi calcistici, in grado di realizzare le finalità Calcio=Passione, Divertimento=Partecipazione».  Ciò mediante il «recupero della dimensione sociale del calcio, il ritorno delle famiglie allo stadio, il contenimento dei costi sociali, il conseguimento di una sostenibilità economica-gestionale del sistema».

Ma la cosa più preoccupante è rappresentata dalla facoltà concessa alle società calcistiche di «condizionare l’acquisto del titolo di ammissione alla competizione e la sottoscrizione di carte di fidelizzazione da parte dell’utente, ad una accettazione tacita di condizioni generali di contratto, contenute in un codice etico predeterminato». Entro tre anni  si abolirà totalmente la tessera del tifoso, utilizzando l’ormai famoso mantra di riportare le famiglie allo stadio. A tre mesi dal cambio di rotta, il controllo all’interno degli stadi non è diminuito; al rientro dei tamburi nelle curve non è coincisa una totale libertà d’espressione per i gruppi ultras.

Un controllo così esasperato che ha rasentato il ridicolo con la questione della bandiera della Spal. Da diversi anni i tifosi della Spal, la squadra di calcio di Ferrara che da quest’anno gioca in Serie A, sventolano ad ogni partita una grande bandiera su cui è dipinto il volto di Federico Aldrovandi, il ragazzo ferrarese che la mattina del 25 settembre 2005  venne ucciso da quattro agenti di polizia che lo fermarono per un controllo non lontano da casa sua.

Da alcune settimane di quella bandiera si discute aspramente: lo scorso primo dicembre è stato vietato ai tifosi della Spal di esporla in occasione della partita di campionato contro la Roma allo Stadio Olimpico, in quanto mancavano le autorizzazioni. Si tratta di un atto che non ha alcuna giustificazione, è un gesto di prepotenza e arroganza. Dopo questo sequestro tanti gruppi ultras e non solo hanno accolto l’appello dell’Associazione Contro gli Abusi in Divisa (ACAD) di portare l’immagine di Federico in tutti gli stadi.

Secondo il giudice sportivo Pasquale Marino «esporre il volto di Federico Aldrovandi negli spalti è provocatorio nei confronti delle forze dell’ordine» e con queste motivazioni sono state sanzionate le tifoserie della Robur Siena e del Prato. Da qui è partita una vera e propria caccia all’immagine di Federico. Diversi tifosi del Parma, del Viareggio, del Torino hanno ricevuto multe e diffide. Il 17 dicembre, in occasione di Atalanta-Lazio, uno striscione con la scritta «Federico Aldrovandi ovunque» non è stato fatto entrare allo stadio. I tifosi della Sampdoria durante l’incontro con la Spal della scorsa settimana, sono riusciti ad esporre uno striscione con scritto «Per qualcuno una provocazione, per noi solo un ragazzo».

Se per l’immagine di Federico si è scatenato un controllo esasperato di striscioni e stendardi, la stessa cosa non si può dire per quello che è accaduto martedì scorso durante la partita Napoli-Atalanta. Alcuni tifosi bergamaschi sono andati oltre i soliti cori e i classici striscioni offensivi contro i napoletani: hanno voluto provocatoriamente esporre una bandiera con l’immagine dello scienziato Marco Ezechia Lombroso, detto Cesare. Lombroso fu l’ideatore di teorie razziste anti-calabresi e anti-meridionali durante il periodo del cosiddetto brigantaggio. Da costui partì la teoria dei «meridionali nati per delinquere», di una razza impossibile da redimere e salvare e che meritava i massacri avvenuti durante l’unificazione e le mancate risoluzione delle questioni meridionali, da oltre 150 anni.

Quell’immagine orribile dell’inventore del razzismo contro i meridionali dimostra che sugli spalti non si tratta solo di calcio; che i “razzisti da coro”, come qualcuno li ha definiti, esistono davvero e non solo allo stadio. Viviamo in un paese in cui l’immagine di un ragazzo ucciso da quattro poliziotti è vista come una provocazione, mentre la faccia di una persona che ha sostenuto che l’alta delinquenza di alcuni paesi, specialmente di alcune regioni d’Italia, si deve a un a un fattore irriducibile come la razza, può benissimo sventolare liberamente.

Davide Drago

da GlobalProject