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Stato di tortura

I fatti di Verona dimostrano quanto la tortura sia pratica abituale tra le forze dell’ordine e riportano in auge il dibattito su un reato che l’attuale governo vuole eliminare.

di Rossella Puca

Sono passati pochi mesi (marzo 2023) da quando diversi deputati di Fratelli d’Italia presentavano in commissione Giustizia un disegno di legge volto ad abrogare il reato di tortura introdotto – dopo diverse violazioni e condanne da parte della Corte Europea (vedi Caso Cestaro) – solo nel 2017.

Quel medesimo reato di tortura che, sin dalla sua introduzione, sta permettendo di incriminare alcune condotte che prima dell’art. 613-bis, venivano imputate a fattispecie incriminatrici più lievi, come accaduto nel caso della Scuola Diaz durante il G8 di Genova 2001, per la quale, all’epoca, furono accertati plurimi e gravissimi atti di tortura imputati a reati generici.

La norma apparve fin da subito più una soluzione di compromesso politico che una semplice applicazione normativa di un obbligo sovranazionale.

Sono esattamente sei anni che la destra di questo Paese si trincea dietro ignobili proposte di legge volte alla sua eliminazione perché, a detta loro, non consentirebbe alle forze di polizia di “fare il proprio lavoro”, sostenuti a man bassa dal sindacato della Polizia di Stato, il cui presidente Tiani ha sottolineato recentemente come «il reato di tortura, così come attualmente in vigore, incide direttamente sull’efficacia del mantenimento della sicurezza dei cittadini».

A riaffermare l’importanza di avere una legge penale che, per una volta, tutela i cittadini dallo Stato e non viceversa, sono le torture e le violenze perpetuate a danno di stranieri e senzatetto in stato di fermo dalla Questura di Verona, per la quale sono stati arrestati cinque poliziotti e sono almeno altri 17 (21 secondo Repubblica) i poliziotti sotto indagine, intanto trasferiti e cambiati di mansione.

Dalle indagini sono emerse ben 8 casi di abusi e dalle intercettazioni si è scoperto come i sottoposti a fermo venivano minacciati di morte, picchiati brutalmente, spruzzati con spray urticante e sottoposti ad indicibili torture.

Proprio in questi giorni sono state pubblicate anche le annesse prove fotografiche. In quei fotogrammi si vede un uomo prima messo all’angolo da un poliziotto poi costretto ad urinare per terra, per poi essere trascinato sulla propria urina come uno straccio per pulire il pavimento. In un altro fotogramma si vede un uomo svenuto, che viene svegliato da un poliziotto che gli urina in faccia. Ancora, due poliziotti che colpiscono un uomo inerme, seduto. Fino alle mattanze, alle foto delle grosse ferite riportate dagli arrestati.

Quanto commesso dai “tutori dell’ordine” fa ancora più ribrezzo dato che quelle vittime di soprusi erano particolarmente deboli, perché senza fissa dimora o magari affetti da gravi dipendenze da alcool o stupefacenti. Per i poliziotti, a quanto pare, erano le perfette vittime per assicurarsi “divertimento” impunito, dato che considerati “figli di nessuno”, incapaci di difendersi con la forza o mediante la giustizia, poiché fuori da circuiti legali, abbandonati probabilmente dalla famiglia, sicuramente dallo Stato.

Il Gip ha convalidato gli arresti sulla base di una motivazione dura, dalla quale si legge: «Si tratta di una pluralità di condotte integranti reiterate violenze foriere di “acute sofferenze fisiche”, che si desumono non solo dalle parole della persona offesa», ma «dai filmati acquisiti, che immortalano» la vittima «in preda a spasmi e contrazioni, lasciato al suo destino». Il Gip non ha risparmiato neppure coloro rimasti impassibili a guardare. «Come già sottolineato, questo atto denigratorio e sminuente ha incontrato l’approvazione e suscitato l’ilarità degli altri poliziotti presenti – si legge – tant’è che nessuno ha dato il minimo segnale di disappunto, portando avanti anche in seguito un coerente atteggiamento di scherno nei confronti della persona offesa, dovendosi rammentare che gli operanti, ai quali» la vittima «si rivolgeva manifestando sofferenza e chiedendo aiuto… facevano gesti che significavano che a loro non interessava il suo stato». Inoltre «uno degli operanti si divertiva ad accecare con la torcia» la vittima.

Nonostante emersioni probatorie dal contenuto chiaro ed incontestabile c’è chi ha invocato la presunzione di innocenza per le forze dell’ordine, un principio cardine dell’ordinamento, che sempre più diviene scudo per ricchi e detentori del potere politico, senza mai effettivamente applicarsi per gli ordinari cittadini, per gli stranieri, finanche per gli oppositori politici (vd. vicenda di Bibbiano). Dinanzi a “nemici” sociali o politici che siano tale principio si annacqua senza sosta, creando un doppio binario antidemocratico per la quale, a tutti gli effetti, la legge non è uguale per tutti e tutte.

Altro spunto retorico di non poco conto è la narrazione di tali fatti come meramente episodici, e cioè appartenenti a casi sporadici, quelle “mele marce” che inquinerebbero un intero raccolto sano “che lavora onestamente per i cittadini”. Eppure, non dovendo per forza scomodare la statistica, tanti sono i casi in cui emergono contesti di violenza e di soprusi che si mischiano in una spirale di omertà, silenzio e connivenza.

Basti pensare come qualche settimana fa è stato diffuso un video in cui una donna inerme veniva manganellata violentemente da quattro agenti, scene degne di una violenza fascista.

O ancora, sono addirittura 105 gli imputati per le torture avvenute durante la maxi perquisizione del 6 aprile 2020 presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove agenti penitenziari di diversa provenienza picchiarono selvaggiamente o procurarono violenze fisiche e psicologiche a ben 92 detenuti, con lo scopo di “abbatterli come vitelli” in una situazione complicata e sensibile come quella della prima pandemia del 2020, quando il pericolo del Covid in carcere avrebbe potuto decimare la popolazione detenuta.

Servirebbero invece ancora più garanzie: codice identificativo per il personale di polizia, body-cam da apporre su caschi e divise, strumenti che – strano a dirsi – potrebbero rappresentare anche un mezzo di tutela per i membri delle forze dell’ordine che svolgono ordinariamente il loro lavoro.

Eppure, in un contesto di tale stregua, indegno di uno Stato democratico, le forze politiche capitaneggiate dalla Premier Giorgia Meloni, continuano imperterriti ad invocare l’eliminazione di una norma che – seppur monca – rappresenta un baluardo di giustizia.

da GlobalProject

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