Suicidi, poveri e senza fissa dimora: quando il carcere non è la soluzione
L’anno 2019 non si è concluso con 53 suicidi in carcere. L’ultimo suicidio, avvenuto al carcere di Venezia il 29 dicembre scorso, riguarda un ragazzo ( in attesa di giudizio) di 33 anni arrestato per furto, tra l’altro aggravato perché compiuto in un luogo pubblico. Era un senza fissa dimora. A darne notizia è il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, intervenuto durante una trasmissione di Radio Radicale condotta dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini.
Ma non è l’unico caso riguardante una persona che appartiene a una minorità sociale, ovvero povera. Sempre il garante ha sottolineato che nel mese di dicembre ci sono stati otto suicidi, tra i quali ben quattro erano dei senza fissa dimora. Un dato che fa emergere con chiarezza un problema devastante che riguarda la nostra società. Suicidi che dovrebbero porre interrogativi su quali presidi sociali il mondo esterno offra a tali disperate vite e su come implicitamente tale disinteresse non finisca col gettare tutta la responsabilità su quell’approdo tragico e finale rappresentato dalla reclusione in carcere. Come non dimenticare ciò che è avvenuto sempre nell’anno 2019 al carcere di Viterbo, quando un senza fissa dimora è stato ucciso da un altro disperato che, nonostante i suoi precedenti di aggressione in carcere a causa del suo disagio psichico, è stato messo nella stessa cella con lui. Oppure l’altro suicidio, sempre a Viterbo, avvenuto a novembre e riguardante un ventenne africano che stava scontando una pena di pochi mesi.
Mentre su alcuni giornali alcuni magistrati hanno scritto che in carcere non ci va quasi più nessuno, la realtà che emerge è ben diversa. Non solo c’è il problema del sovraffollamento che smentisce categoricamente qualsiasi tesi del genere, ma c’è anche il fatto che in carcere si finisce per scontare una pena di pochi mesi. Problema che riguarda soprattutto le persone povere. Sempre il garante nazionale delle persone private della libertà ha snocciolato dei dati che cristallizzano la dimensione del problema. Nelle patrie galere ci sono 1683 persone che stanno scontando una pena inferiore a un anno, mentre 3000 reclusi tra uno e i due anni. In totale ci sono circa 5000 persone che stanno scontando una pena tra zero e due anni.
Sono persone che potrebbero scontare la pena fuori dal carcere, ma non hanno gli strumenti per accedervi e, in mancanza di domicilio, il magistrato non può concedere una pena alternativa. Un problema che riguarda la fragilità sociale con un Paese che non riesce a farne fronte. Gli ultimi dati istat parlano chiaro: in Italia ci sono 1,8 milioni di famiglie in povertà, pari a circa 5 milioni di individui, concentrati nelle principali città metropolitane del Paese: in sette di esse risiede la metà di persone senza fissa dimora.
Se da una parte c’è un problema, enorme, di diseguaglianza, dall’altra c’è il carcere che rischia di diventare un contenitore di queste problematiche. In realtà nella riforma originaria dell’ordinamento penitenziario era contemplato un decreto, poi disatteso, sulle pene alternative dove non solo si valorizzava l’accesso, ma indicava anche una soluzione per le persone con problemi di dimora, incentivando l’implementazione degli alloggi. In particolare, la commissione presieduta dal professore Glauco Giostra, aveva inserito un nuovo comma affinché gli UEPE si adoperino per favorire il reperimento di alloggi per le persone ammesse alla semilibertà, in modo da favorire il loro accesso alla detenzione domiciliare e all’affidamento in prova. Ma il governo precedente legastellato l’ha cancellato.
Damiano Aliprandi
da il dubbio