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Il “sultanato” di Erdogan fabbrica della repressione

 

Talora l’autoritarismo di un regime lo si valuta appieno mettendo insieme grandi e piccoli casi, iniziative legislative ed iniziative giudiziarie, distorsioni delle pratiche amministrative e regolamenti, da quelli più importanti, a quelli apparentemente impolitici, solo amministrativi. Si tratta spesso di costellazioni di elementi, che magari fanno emergere qua e là punti di resistenza, perché una connotazione complessivamente autoritaria non riesce mai a impedire che si mostrino anche elementi di resistenza: soprattutto quando questo autoritarismo si connota per migliaia di processi contro altrettanti oppositori, per il solo fatto di avere mostrato e dimostrato le ragioni del proprio dissenso e per ciò stesso essere stati condannati ad anni ed anni di carcere. Qui vogliamo prendere in considerazione recenti fatti e “fatterelli” molto significativi nel dimostrare il clima che ancora e sempre più si vive in Turchia, anche al di là della crisi economica che sta impoverendo i ceti più bassi della società e dei due gravissimi interventi bellici: nel nord della Siria ed in Libia.

Il massacro di Sivas

Il 2 luglio 1993 a Sivas, una città dell’Anatolia centro settentrionale, una folla fanatica e inferocita di circa 20.000 persone appiccò fuoco all’Hotel Madimak, dove un folto gruppo di intellettuali di religione alevita ( una minoranza mussulmana) stava celebrando la loro più importante festa annuale, il Pir Sultan Abdal. Polizia e vigili del fuoco, pur presenti, non fecero assolutamente nulla. I morti nel rogo furono 37, fra cui 2 dipendenti dell’albergo e due fra gli attentatori: 33 gli intellettuali aleviti periti nelle fiamme. I feriti non si contarono nemmeno. Si celebrò poi il processo e 31 attentatori furono condannati a morte. Tale condanna fu poi commutata con l’ergastolo quando nel 2003 fu abolita la pena di morte. Il 20 gennaio di quest’anno Erdogan ha graziato uno dei 31 attentatori detenuti per ragioni di età ( 86 anni) e di salute, come prevede l’art. 104 della costituzione turca. Altri degli attentatori di allora sarebbe intenzionato a graziarne. Non sono mancate le proteste sui media, che notano come nelle carceri turche siano detenuti centinaia di ultraottantaseienni in pessime condizioni di salute e per reati molto più lievi e non si vede perché ad essi la norma costituzionale non si applichi.

Femminicidi

Si calcola che nel 2019 in Turchia siano stati consumati 479 femminicidi. Le statistiche in questo campo sono molto difficili e tendono sempre a dare numeri inferiori al reale, per ovvii motivi. Ma il numero è allucinante, sol che si pensi che in Italia annualmente vengono uccise, in media, 120 donne: anche qui, con conteggi che tendono a diminuire, ed in ogni modo in linea con gli anni precedenti.

Il fenomeno delle “spose bambine”, cioè delle ragazze o addirittura bambine che vengono fatte sposare utilizando il rito della sharia, laddove invece la legge nazionale considererebbe ciò violenza sessuale ( purché la donna rimanga incinta), ammonterebbe a circa mezzo milione negli ultimi dieci anni. In questo contesto il governo ha rilanciato il progetto di legge sul “matrimonio riparatore” della violenza perpetrata, purché la differenza di età fra la stuprata e lo stupratore non superi i dieci anni. Si dice: così si va a sanare il disagio di mille situazioni che soprattutto in zone rurali si vanno determinando. Agli occhi delle donne turche la legge non sarebbe altro che un via libera allo stupro delle minorenni. Non solo in campagna, si legga il meraviglioso romanzo “La Bastarda di Istanbul” di Elif Shafak.

L’intervento in Siria

Non si hanno notizie precise su quanti possano essere i fermati per attività antistatali in occasione dell’aggressione turca nel nord della Siria nell’estate scorsa ( e ancora perdurante): Una prima ricognizione avrebbe individuato 186 fermati, di cui 24 poi arrestati per “propaganda al terrorismo” e “degrado dello stato”. Si tratterebbe soprattutto di bloggers o semplicemente di chi, sui social media, aveva criticato tale intervento. I processi non sono ancora cominciati. Nessuno parla dei 700.000 sfollati dalla zona di Idlib da dicembre ad oggi ( dati ONU), attualmente attendati alla meno peggio con una temperatura di – 11°: e sono in maggioranza donne e bambini: Men che meno si sa quale sia stata la reazione repressiva alle critiche al recente intervento in Libia. Basti pensare che filtrano con difficoltà anche le notizie sulla morte di soldati turchi in quell’area.

Le manifestazioni degli avvocati

Ogni giovedì mattina, dinnanzi al grande Tribunale di Istanbul si svolge una manifestazione di avvocati che protestano per gli innumerevoli arresti e per le condanne di altri colleghi. Si tratta di una manifestazione molto civile che si tiene da ormai molti mesi, intitolata Justice Watch, in cui qualche collega prende la parola in mezzo a una selva di foto e manifesti dei colleghi detenuti. Un autorevole e anziano collega è intervenuto uno degli ultimi giovedì ed è stato incriminato per propaganda al terrorismo per avere iniziato a parlare col megafono per raccogliere gli altri colleghi di fronte all’entrata.

Gezi Trial

Il “Processo Gezi”, che ormai sta muovendo verso la fine del primo grado, vede come imputati una decina di esponenti delle professioni ( c’è anche un avvocato, un architetto, alcuni imprenditori eccetera) e della Istanbul bene: per questo ha un’eco mediatica molto forte e non può essere “silenziato”, come invece accade normalmente per i processi contro tutti gli altri oppositori. Tutti gli imputati debbono rispondere di avere ispirato e istigato alla rivolta nei giorni della protesta di Gezi Park: eravamo nell’estate del 2013. Niente di più falso, naturalmente, perché se mai ci è stata una protesta del tutto spontanea, questa fu Gezi Park. Ciò non ha impedito al Pubblico Ministero di chiedere l’ergastolo per due imputati e pene severissime per gli altri.

La Corte Costituzionale

Sono interessanti i numeri riguardanti i ricorsi alla Corte Costituzionale dal 2012, data dell’inizio del funzionamento della Corte, alla fine del 2019. Di 254.00 ricorsi ne sono stati esaminati 211.000 con un 89% di inammissibilità; del restante 11% il 6% sono rigetti per motivi procedurali e solo il 4% ( pur sempre più di 8.000) investono violazione di almeno un diritto. Il 52% riguarda il diritto ad un giusto processo; il 30% il diritto di proprietà; il 7% la libertà di espressione e il 3% il diritto al rispetto della libertà privata. I numeri sono interessanti, tenendo presente che l’accesso alla Corte è diretto, e non mediato dall’accettazione di un giudice come avviene, per esempio, da noi. Essi ci danno l’idea di una Corte Costituzionale abbastanza attiva e relativamente slegata dai diktat governativi.

Da un lato la Corte ha rigettato proprio in questi giorni un ricorso contro il folle progetto ( ormai vicino all’inizio dei lavori) del Canale Istanbul ( quello noto come il secondo Bosforo) adducendo che si tratta di un progetto di competenza dei poteri legislativo ed esecutivo, ma sorvolando che esso ha implicato la modifica di 32 articoli di 20 leggi. Per non dire che la Valutazione di Impatto Ambientale è stata affidata ad una società il cui amministratore, pur avendo riportato condanne varie per un totale di 5 anni di prigione, è risultato vincitore di appalti per centinaia di milioni di euro.

Dall’altro però è lei che ha giudicato come diritto di espressione quello esercitato da più di 2000 Accademici per la Pace che firmarono un manifesto contro l’aggressione militare ad Affrin. Sempre lei ha statuito, ad inizio 2018, in linea con quanto affermato dalla CEDU, che il noto intellettuale Mehmet Altan doveva essere rilasciato per avere esercitato il proprio diritto di espressione e stampa, anche se due corti di merito si sono rifiutate di ordinare il rilascio sostenendo che “adempiere automaticamente all’ordine emesso dalla Corte Costituzionale viola il diritto all’indipendenza dei giudici”, finché non intervenne la Corte di Cassazione che nel novembre 2019 assolse e conseguentemente liberò l’intellettuale. Proprio in questi giorni la stessa Corte Costituzionale si è pronunciata sui possibili conflitti fra se’ e i giudici di merito, statuendo che le sue pronunce valgono di fronte ad ogni giudice del processo. Insomma una Corte non del tutto succube dei voleri dell’esecutivo.

Ezio Menzione – Osservatore Internazionale per l’UCPI

Fonte “Il Dubbio”

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Il “sultanato” di Erdogan fabbrica della repressione.

 

Comments ( 2 )

  • Gianni Sartori

    Turchia. I musicisti di Grup Yorum ancora sotto processo e in sciopero della fame
    (di Gianni Sartori )

    La prima udienza del maxi processo contro una trentina di musicisti di Grup Yorum si è svolta il 14 febbraio. Al momento, alcuni sono in carcere, due latitanti e altri due in sciopero della fame ormai da oltre 240 giorni.
    Su questa questione sgombriamo il campo dagli equivoci. Al solito, qualcuno farà confronti con lo sciopero della fame del 1981 costato al vita a dieci Repubblicani irlandesi. I sette militanti dell’IRA e i tre dell’INLA morirono mediamente dopo un paio di mesi di astensione dal cibo. Bisogna però precisare che l’incredibile durata di questi scioperi nelle prigioni turche (così come di quelli in cui persero la vita oltre un centinaio di militanti della sinistra rivoluzionaria turca ormai venti anni fa) è dovuta ad alcuni accorgimenti, come l’utilizzo preventivo di vitamine. In realtà quella che si prolunga è soprattutto l’agonia, la sofferenza per i militanti che comunque, anche in caso di eventuale sospensione, rischiano danni irreparabili, sia fisici che mentali.
    Detto questo, diventa prioritario “agire prima che qualcuno di loro perda la vita” come sostengono da tempo varie organizzazioni. In particolare, l’Associazione del foro di Istanbul, un’Associazione di medici di Istanbul, l’Iniziativa degli artisti e l’Assemblea artistica che hanno pubblicato una dichiarazione congiunta, un appello rivolto alle autorità affinché si comportino in maniera responsabile nei confronti degli imputati. E in particolare di chi è in sciopero della fame (ora diventato digiuno fino alla morte) ormai da oltre 240 giorni per protestare contro le restrizioni (proibizione dei loro concerti per il carattere politico delle canzoni) e la continua repressione a cui i membri di Grup Yorum vengono sottoposti da anni. Prima del processo iniziato il 14 febbraio, per molti di loro la “detenzione provvisoria” era durata due anni.
    La cantante Helin Bölek e il chitarrista Ibrahim Gökcek non si alimentano dal 16 maggio 2019 rivendicando il diritto alla libera espressione artistica. Trattati dal governo turco alla stregua di delinquenti, musicisti e cantanti sono stati arrestati per “appartenenza a una organizzazione terrorista”. Per la precisione, sono accusati di far parte del DHKC-P (Devrimci Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi) o comunque di fare propaganda per questa organizzazione armata. Insieme ad altri cinque membri del gruppo, Ibrahim Gökcek era stato inserito nella lista dei “terroristi più ricercati” con una ricompensa di 300mila lire turche (46mila euri) per ciascuno di loro.
    Gökcek – per il quale viene richiesto l’ergastolo – venne imprigionato in base a una “testimonianza segreta” e senza un preciso atto d’accusa. Dopo 200 giorni di digiuno Gökcek decideva di entrare in sciopero della fame fino alla morte. E con lui anche Helim Bölek (uscita dal carcere alla fine del 2019) ha voluto radicalizzare ulteriormente la sua azione di protesta. Gökcek – che ormai pesa solo 46 chili – porta avanti la sua battaglia nonviolenta nella casa di Grup Yorum ad Armutlu (Istanbul). Nell’ultima lettera lamenta bruciori ai piedi, problemi di respirazione, di vista e di pressione. Inoltre comincia ad avere le mani livide, la pelle si fa sempre più sottile e secca cambiando di colore (inevitabile ricordare come apparve Bobby Sands nell’ultima visita che fu concessa a un suo compagno di prigionia). Altri esponenti di Grup Yorum sono ugualmente in sciopero della fame e così – dal 3 gennaio – alcuni “avvocati del popolo” incarcerati a loro volta. Le piattaforme Freemuse, Susma (Piattaforma non tacere) e P24 (Bagimsiz Gazetecilik Platformu, Piattaforma per un giornalismo indip detenuti, di mettere fine alle illegittime restrizioni della libertà di espressione del gruppo e di accettare le richieste degli artisti in sciopero della fame. In realtà le vere e proprie persecuzioni nei confronti di Grup Yorum sono di antica data. Solo negli ultimi due anni il Centro culturale Idil, dove questi musicisti avevano il loro studio e tenevano le prove, ha subito una dozzina di irruzioni da parte della polizia. Oltre ad arrestare chi si trovava nel Centro, la polizia aveva raccolto presunte prove poi utilizzate contro gli attuali imputati.
    Ma quali “prove”?
    Elencando con ordine: giornali, documenti, scritte, poster di colore rosso e giallo (colori che rimandano a quelli utilizzati anche dal DHKC-P), magliette, testimonianze di persone anonime, un martello, qualche casco. Un’aggravante poi il fatto che alcuni imputati(sottoposti a una “detenzione provvisoria” durata due anni prima del 14 febbraio 2020) si fossero rifiutati di mangiare. Agli occhi del Procuratore, un’ulteriore prova di appartenenza all’organizzazione terrorista.
    Quali le vere “colpe” del Grup Yorum? Cantare le canzoni degli oppressi e sfruttati, di tutti gli oppressi e sfruttati del pianeta; dar voce ai lavoratori in sciopero e alle persone che hanno perso i loro cari per la violenza dello Stato; diffondere le canzoni della resistenza dei popoli. Le pene richieste dal Procuratore sono alquanto pesanti e per alcuni musicisti si profila addirittura la condanna all’ergastolo. Grup Yorum invece chiede l’immediata scarcerazione per i musicisti in carcere e l’annullamento del mandato di cattura per tutti i membri del gruppo. Chiede inoltre la fine delle irruzioni nel Centro Culturale Idil e l’annullamento del divieto di tenere concerti.
    Nato nel 1985, Grup Yorum – che esegue le sue canzoni, oltre che in turco, anche in curdo, arabo, kazako e armeno (da brividi una loro versione di “Bella ciao”)- ha tenuto centinaia di concerti, spesso gratuiti, sia in Turchia che in ogni angolo del pianeta (molto amato in America Latina e nei Paesi Baschi). Ma da due anni, con l’entrata in vigore delle leggi di emergenza, non può più esibirsi in Turchia e anche in Germania viene sottoposto a pesanti restrizioni. Ben differente la situazione in epoca precedente se pensiamo che un concerto – questo a pagamento – del 2010 nello Stadio BJK İnönü aveva riunito oltre 60mila persone. Addirittura un milione di spettatori in piazza a Istanbul nel 2012 e – ancora a Istanbul – 500mila nel 2013. A Izmir, nel 2015, circa 750mila.
    Dati significativi che forse aiutano a comprendere quali siano le vere ragioni del maxi processo. Un processo squisitamente politico con cui si vorrebbe cancellare, annichilire gran parte della memoria storica delle classi subalterne e delle lotte popolari e intellettuali di questo paese.
    In sciopero della fame da 240 giorni (e ugualmente con gravi problemi di salute) anche Mustafa Koçak, già condannato all’ergastolo nel luglio dell’anno scorso. Era stato accusato di aver fornito le armi utilizzate nel rapimento del procuratore Kiraz che si stava occupando del caso di Berkin Elvan (il quindicenne colpito da un lacrimogeno mentre andava a comprare il pane all’epoca degli scontri di Gezi Park e morto dopo nove mesi di coma). Il procuratore era rimasto ucciso, insieme ai suoi rapitori, durante il tentativo della polizia di liberarlo. A suo carico, soltanto la testimonianza di qualcuno che in un bar avrebbe sentito dire che Kocak era implicato.*
    Senza dimenticare gli Avvocati del popolo In un comunicato stampa del 3 febbraio gli avvocati dell’Ufficio di Halkin Hukuk Burosu (Ufficio legale del popolo – HHB) e quelli dell’Associazione degli avvocati progressisti (Cagdas Hukukcular Dernegi – CHD) annunciavano di aver iniziato uno sciopero della fame (in solidarietà sia con Grup Yorum che con Mustafa Koçak).

    Per chi volesse poi dare un segnale concreto di solidarietà, esistono alcune possibilità:

    * FARE UN BREVE VIDEO DI SOLIDARIETÀ! Per favore, fate un video molto breve e semplice con un messaggio di solidarietà per i resistenti e inviatelo a antiemperyalistresist@yandex.com Sarà pubblicato in varie reti di solidarietà e potrà essere condiviso da molti altri gruppi di amici per essere ascoltato a livello internazionale.
    *ORGANIZZARE PROTESTE DAVANTI ALL’AMBASCIATA O AI CONSOLATI
    *SCRIVERE FAX TUTTI I GIORNI Presidency Of The Republic Of Turkey : Adres: Cumhurbaşkanlığı Külliyesi 06560 Beştepe-Ankara-Turkey Tel : (+90 312) 525 55 55. Fax : (+90 312) 525 58 31. E-MAIL: contact@tccb.gov.tr. Ministry of Justice Of The Republic Of Turkey: Telefon : 90 (0312) 417 77 70. Faks : 90 (0312) 419 33 70. E-MAIL: info@adalet.gov.tr. Adres : 06659 KIZILAY / ANKARA Ministry of Internal Affairs of Turkey Adres: Çamlıca Mahallesi 122. Sokak No:2 Yenimahalle/ Ankara Telefon: (0312) 387 60 84 – Faks: (0312) 387 60 91

    “Per rimanere in vita non c’è altro modo che dare voce alla resistenza”

    *Nota 1: va ricordato che Mustafa Kocak è stato accusato da un testimone che in realtà non ha fornito prove concrete. E infatti nessuna prova reale è stata portata in tribunale o scritta nell’accusa a carico. Gli hanno dato l’ergastolo in base a quella che ragionevolmente si potrebbe definire come una falsa testimonianza. Oltretutto proveniente dallo stesso ambiguo personaggio usato anche in precedenza per mandare in galera decine e decine di dissidenti. Il processo era avvenuto senza la possibilità di un contraddittorio e ora Kocak chiede solo un processo equo, chiede giustizia. Quanto al procuratore ucciso, le indagini avrebbero stabilito che era stato colpito dal “fuoco amico” della polizia.

  • Gianni Sartori

    TURCHIA: LIBERARE TUTTI!
    Gianni Sartori
    Il 24 febbraio il prigioniero politico comunista Ibrahim Gökçek (bassista della band Grup Yorum), in sciopero della fame dal 17 maggio 2019, è stato rilasciato. Secondo i medici dell’Istituto di Medicina Forense che lo avevano visitato, il suo stato di salute, le sue condizioni fisiche sono incompatibili con la carcerazione.
    E finalmente, dopo mesi, i due membri della band Helin Bolek (in data 25 febbraio in sciopero della fame da 253 giorni) e Ibrahim (da 253) hanno potuto abbracciarsi di nuovo. Insieme nella Casa della Resistenza di Grup Yorum nel quartiere di Küçük Armatlu (Istanbul) continueranno la loro battaglia per la libertà artistica e di espressione. Infatti, com’era del resto prevedibile conoscendo la determinazione di tali militanti, Ibrahim intende proseguire nella sua radicale, estrema per certi versi, azione di protesta. Continuerà quindi lo sciopero della fame con Helin. Entrambi attualmente pesano poco più di 40 chilogrammi, con i piedi che iniziano a farsi lividi. Segnale preoccupante del peggiorare implacabile delle loro condizioni di salute.
    E non cambiano le loro richieste:
    Liberazione per tutti i membri del Grup Yorum (quattro sono ancora in carcere) e proscioglimento delle imputazioni nei loro confronti
    Fine dei raid della polizia nel loro Centro Culturale
    Rimozione della taglie nei confronti dei membri della band e cancellazione del mandato di arresto
    Rimozione del divieto per i loro concerti
    Da quando lo sciopero della fame è iniziato quattro prigionieri sono stati rilasciati, ma altri due sono stati arrestati durante un raid della polizia contro il Centro culturale di Idil.
    In totale quindi sono quattro i membri di Grup Yorum ancora dietro le sbarre e sei quelli ancora inseriti nelle liste dei presunti terroristi.
    A conti fatti, questa piccola vittoria (il rilascio di Ibrahim) costituisce soltanto un rinvio, un palliativo. Permane gravissima la situazione complessiva dei prigionieri e la repressione non accenna a scemare.
    Emblematico il caso di un’altra musicista, la cantante curda Nuden Durak in prigione ormai da cinque anni. Soltanto per aver cantato e insegnato musica in curdo, la sua lingua madre.
    Attualmente detenuta nella prigione chiusa di Mardin, in base alla condanna subita (19 anni) dovrebbe tornare in libertà nel 2034.

    Nata a Cizre, Nuden Durak insegnava ai bambini della sua città i canti tradizionali. Ovviamente in lingua curda.
    Arrestata nel 2015, era stata condannata in un primo tempo a dieci anni (per aver “promosso propaganda curda”).
    L’anno successivo, senza nemmeno nuove accuse, la sua pena venne praticamente raddoppiata.

    Ricordo che fino a non molti anni fa (almeno ai novanta del secolo scorso) perfino la parola “Curdo” era proibita. Cantare in curdo poi, assolutamente impensabile.

    E proprio negli anni novanta avevo intervistato Hevi Dilara (il suo nome curdo, ma sui documenti risultava turchizzato – forzatamente – come “Bengin Aksun”) ugualmente arrestata perché cantava in curdo. Ma non solo, venne anche ripetutamente torturata. “Mi portavano davanti a mio padre svestito e con gli occhi bendati – raccontò – torturavano me e minacciavano di ucciderlo; poi torturavano lui davanti ai miei occhi e dicevano che dovevamo pentirci perché avevamo cantato in curdo. Poi, viceversa, svestivano me, bendavano i miei occhi quando c’era mio padre davanti a me, mi torturavano con il manganello facendo cose molto brutte, delle cose che non si possono nemmeno raccontare…Soprattutto quando mio padre era davanti a me, mi torturavano con getti d’acqua intensa o corrente elettrica alle dita e alle parti intime del corpo; tutto questo è durato quindici giorni…”.

    Gianni Sartori