Menu

Superare il carcere con la giustizia sociale

Intervista a Nicoletta Dosio. L’ingresso nella prigione delle Vallette a Torino due anni e mezzo fa è divenuto per la storica attivista del movimento No Tav l’occasione per riflettere da dentro su un’istituzione obsoleta e umiliante. Ne è nato un libro dedicato alle “detenute che ho incontrato”. E che punta a far rinascere le collettività e il mutuo aiuto

di Giuditta Pellegrini

A gennaio del 2020, mentre scoppiava la pandemia e il mondo si chiudeva in casa, Nicoletta Dosio è stata detenuta per la partecipazione pacifica a una manifestazione di protesta del movimento No Tav. Dopo aver infranto gli arresti domiciliari come gesto politico che intendeva ribadire le scelte fatte e il rifiuto a divenire la “carceriera di se stessa”, Nicoletta è stata imputata di 130 evasioni, inaugurando la scia di quella “sistematica e capillare azione di repressione penale”, come scrivono i suoi avvocati, che negli ultimi anni si è riversata sulla Val di Susa per sedarne il conflitto sociale.

nicoletta dosioL’ingresso nel carcere delle Vallette a Torino è divenuto però l’occasione per delle attente riflessioni da dentro su un’istituzione obsoleta e umiliante, ora raccolte nel libro “Fogli dal carcere, Il diario della prigionia di una militante No Tav”, uscito prima dell’estate per Redstar Press, con scritti di Haidi Gaggio Giuliani, Daniela Bezzi, Valentina Colletta, Emanuele D’Amico e Italo Di Sabato. Il carcere emerge nella sua cruda verità: un non luogo basato su un’idea vendicativa della giustizia, contro cui si infrange ogni diritto e la cui degenerazione ha portato alle rivolte durante il lockdown e allo sciopero della fame che da un mese le detenute delle Vallette portano avanti:

Nicoletta, ci puoi parlare del libro?

Il libro nasce perché sentivo di doverlo alle detenute che ho incontrato durante la reclusione. Scrivevo molto, per sentirmi viva, perché il carcere ti espropria da te stessa. Farne esperienza ti fa capire come sia inutile, anzi, controproducente, perché si matura soltanto rabbia e senso dell’ingiustizia. Ho imparato a mettere in discussione il carcere di per sé, perché lì dentro non esiste distinzione tra chi ci è finito per cause politiche e non, come se ci fossero ragioni più o meno buone. Ti rendi conto che lì si trovano le vittime di questa società, la maggior parte ha pene minime, ma senza supporto esterno per poter uscire. Inoltre il carcere oggi fa da surrogato all’Opg, il manicomio giudiziario. Molti si lasciano andare, non reagiscono, non mangiano ed è terribile capire che non puoi fare nulla, perché ciò che li salverebbe è la libertà e tu non gliela puoi dare.

Emerge una situazione critica, in cui l’unica speranza è rappresentata dalla resistenza del quotidiano che si crea tra le detenute.

Infatti. Io ho vissuto la detenzione con il supporto enorme dei tanti gesti di solidarietà e delle centinaia di lettere che mi arrivavano ogni giorno, ma c’è gente che non ha nessuno. Eppure li dentro se ho trovato umanità non è stato certo tra le guardie, ma proprio tra le detenute. Si crea una resistenza senza smancerie, fondamentale per la sopravvivenza a regole irrazionali che vengono applicate in maniera del tutto arbitraria. Per esempio contro l’assurdità che vieta di tenere delle piantine (perché anche il verde parla di libertà), le donne creano fiori con la carta di giornale, per cercare di abbellire la cella. Oppure c’è la regola per cui l’unica collana permessa è il rosario che porta il prete, così lo indossano tutte, a prescindere dal credo: per sentirsi vive, per conservare la propria dignità attraverso un piccolo abbellimento o la pulizia.
A me hanno fatto una relazione negativa per una doccia fuori orario, con un mezzo processo e l’intenzione di umiliarmi. Una volta ero in biblioteca, il mio rifugio, perché stare in mezzo ai libri era un po’ come sentire la voce di casa e avevo assistito a una lezione di musica organizzata da ragazzi esterni che poi mi hanno invitato a prendere un caffè alla macchinetta. Allora la guardia è intervenuta dicendo che io non potevo perché non ero una cittadina, cioè non avevo diritti, mentre il caffè è per le persone degne. Siccome ti sei macchiata di una colpa contro il sistema devono renderti buona e obbediente per il capitale, come se quella fosse la redenzione. È l’operaio ideale, che non protesta mai, è il soldato pronto ad ammazzare un altro senza pensare. È l’educazione che ti dà il carcere: imparare a dire sì senza chiederti perché.

Si ha l’impressione che dentro finisca ogni tipo di valore.

Il carcere è un mondo di sbarre e di plastica. La raccolta differenziata è proibita, i piatti sono usa e getta e te li devi comprare, come tutto il resto. Nel periodo del lockdown non poteva entrare nulla da fuori e i prezzi del mercato interno sono cresciuti. La mia famiglia mi aveva mandato un pacco, perché da vegetariana avevo poco da mangiare, ma mi hanno detto che non me lo potevano dare perché veniva dall’esterno (come se la roba che compravamo in carcere venisse dall’interno) e che dovevo scegliere se darlo ai poveri o buttarlo. Ho provato ad obiettare che di poveri dentro ce sono parecchi. Come si può pensare che questa richiesta avesse finalità terapeutico-preventive?

Al carcere delle Vallette di Torino è in corso uno sciopero della fame delle detenute per portare attenzione sulle condizioni dei carceri durante la campagna elettorale

Nel periodo del lockdown in alcune carceri sono scoppiate le proteste per denunciare sovraffollamento e inesistenza di tutele, come hai vissuto quel momento?

Avevamo visto in televisione le proteste di Modena, poi è arrivato un telegramma che diceva che i parenti volevano fare una manifestazione davanti al carcere di Torino. Dalla mattina però il cortile ha cominciato a essere pieno di blindati, le guardie presidiavano i camminamenti e hanno tolto la possibilità dell’ora d’aria. Io aspettavo di sentire i manifestanti per fare la battitura delle sbarre, ma non sono stati fatti avvicinare: hanno fermato tutto prima che anche a Torino scoppiasse la rivolta. Inoltre sono arrivate alcune guardie dicendoci che stava per uscire un comunicato secondo il quale si poteva fare domanda per l’uscita anticipata a causa della pandemia, e che il giorno dopo si sarebbero scelte delle portavoce per partecipare ad un’assemblea su questo tema, che di fatto c’è stata, ma poi il decreto non è mai stato applicato e non è cambiato nulla. Hanno usato questa cosa per scoraggiare le detenute a protestare, dicendo che se avessero fatto qualcosa del genere poi non ci sarebbero rientrate. Poi è arrivata la notizia degli 11 detenuti che sono morti a Modena: hanno detto che era stato per overdose, che hanno preso d’assalto l’infermeria, ma nessuno ci ha creduto, perché le porte sono blindate e tutti conoscono la violenza delle guardie. Adesso è nata una commissione di verità e giustizia per capire che cosa sia successo veramente.

Sei arrivata a parlare di abolizione del carcere, come sarebbe possibile secondo te?

L’abolizione del carcere non solo è possibile ma doverosa e l’alternativa è la giustizia sociale. Io ho vissuto il periodo in cui si metteva in discussione il manicomio e ricordo che Basaglia era visto come un idealista senza speranza, invece la riforma si è realizzata, creando le strutture alternative. E lo stesso può avvenire per il carcere. Ci sono molte persone con pene inferiori ai due anni che non possono accedere alle misure alternative perché non hanno un posto fisso in cui vivere. Quindi bisogna garantire una casa e la possibilità di un lavoro decente a tutti, perché il carcere va prevenuto eliminando la povertà. Questo può succedere solo facendo rinascere le collettività, in cui ritrovare la propria collocazione e ricevere un aiuto materiale, ma anche costruire qualcosa di diverso. È incredibile ma quando sono uscita mi sono sentita in colpa. Quando sono partite le battiture dei blindi per salutarmi mi sono girata, sarei tornata indietro, ho sentito che la libertà è un bene collettivo, che non puoi essere libera quando sai che gli altri non lo sono e che potevo essere felice solo aprendo quei cancelli, per portare tutte fuori con me.

da altreconomia