Se l’eccezione da Covid-19 poi diventa norma.
La più grande preoccupazione che attanaglia l’uomo durante le guerre, o in situazioni ad esse assimilabili, alla stregua dell’emergenza che stiamo vivendo è rappresentata dalla circostanza che le misure eccezionali adottate pro tempore possano sopravvivere allo stato di eccezione.
In generale, nel corso della storia, i sistemi di potere hanno in gran parte dei casi approfittato delle emergenze per legittimare la propria invasività, riducendo talvolta la privacy dei cittadini, rendendo l’onnipresenza dello Stato una regola dovuta, in danno di buona parte delle garanzie protette dagli ordinamenti.
Venendo all’Italia, ed ancora più nello specifico alla Giustizia del nostro Paese, non può non destare una certa perplessità ‘il balzo in avanti di dieci anni’ letto sui quotidiani napoletani di questi giorni[1].
Invero, con tale espressione il capo dei GIP partenopei avrebbe mostrato entusiasmo per il processo virtuale, introdotto per far fronte alle difficoltà che stiamo vivendo legate all’allarme epidemiologico.
Indi, già da qualche giorno, Giudice ed indagato non si guardano più negli occhi ma comunicano da remoto, come se si stessero videochiamando (tramite il sistema teams); pertanto, il relativo provvedimento giurisdizionale sarà inviato e letto via Pec.
Nell’ambito di tale sistema il difensore può anche rimanere in studio, essendo consentito all’arrestato di interloquire o soltanto rispondere alle domande sulle proprie generalità, direttamente dalla Caserma o dal Commissariato in cui si trova.
Il neointrodotto meccanismo della ‘telegiustizia’ reggerebbe su un presupposto apparentemente certo, che tale non può ritenersi per ciò che suggeriscono le massime esperienziali: la lealtà istituzionale delle forze dell’ordine.
Il primo interrogativo da porsi è se si può veramente prescindere dal contatto umano con un soggetto che – al di là della presunta commissione del reato – ha subìto la privazione della propria libertà.
Si può escludere ab origine che la coartazione fisica sia avvenuta conformemente alle regole minime indispensabili utili ad assicurare l’indagato alla giustizia?
E, ancora, nei casi in cui ciò non sia avvenuto in maniera legittima, la lontananza dell’indagato dal giudice lo lascia in una condizione tale da poter narrare la sua versione dei fatti libero da ogni condizionamento?
A queste domande dovremmo sforzarci di rispondere sin da ora per auspicare che il meccanismo della ‘telegiustizia’ sia un dispositivo passeggero; anche perché la storia recente ci ha allenati ad essere più ponderati nel vagliare le ricostruzioni processuali, pur se narrate da figure istituzionali.
Ulteriori osservazioni riguardano gli aspetti strettamente tecnici, che, per ovvie ragioni, non possono essere oggetto della presente disamina. Ma si è veramente sicuri che questa innovazione sia immune da eventuali interferenze?
E se invece nel corso dell’udienza dovessero sovrapporsi le ‘sacrosante’ conversazioni tra il ristretto ed il proprio difensore, con quelle delle altre parti, con che tipo di nullità si pensa di invalidare l’utilizzabilità delle stesse?
A fronte di una tale tragedia processuale, come si pensa di poter tutelare a quel punto le ‘confessioni’ dell’indagato che intendeva far sapere certe cose solo al proprio avvocato affinché potesse mettere in campo una strategia più efficace?
L’ermetizzazione del processo penale si estende ad ogni grado e fase del processo: dall’eventuale cautela all’esecuzione.
Si pensi ad un giudizio direttissimo per reati contro il patrimonio: è un momento giuridico relativamente al quale il rapporto diretto tra l’interessato ed il giudice consente al Tribunale di apprezzarne il comportamento processuale (es. la spontaneità di una condotta ammissiva) oppure di comprenderne le ragioni poste a fondamento (es. il disagio economico, un momento di sconforto, la condizione di tossicodipendenza, la ludopatia o il totale disprezzo per la proprietà altrui), al fine anche di poter valutare la concessione delle circostanze attenuanti generiche o per meglio parametrare la pena in base ai criteri dettati dal codice penale.
È fondamentale non tradire l’idea di una giustizia antropocentrica, caratterizzata dalla percezione del momento e dell’ambiente, pur nella consapevolezza che l’attuale metodologia codicistica già impone un calcolo della pena algoritmico, cioè legato ad un metodo sistematico valido per la soluzione di una certa classe di problemi.
Ad esempio è capitato che un GIP in sede di giudizio abbreviato condannasse un imputato alla pena di anni sei di reclusione per due rapine aggravate dalla mafiosità, al pari di un coimputato, nonostante il primo fosse infraventunenne ed avesse ricoperto un ruolo marginale, ai limiti con la connivenza non punibile.
Quest’ultimo è un caso tangibile di ermetismo processuale, connotato dal ricorso costante ai crismi probabilistici che governerebbero le azioni criminali.
In tale ottica, si veda su tutti, l’utilizzo della recidiva come circostanza volta ad orientare il giudice anche in ordine alla colpevolezza del soggetto imputato; aprendo le porte ad un equivoco grossolano tra la recidivanza come possibile indice di una più spiccata callidità criminale, quale è, ed il precedente penale come spia nell’ambito di una lettura pluriestensiva dei dati fattuali.
Ad oggi, quello che le autorità giudiziarie prediligono è l’incasellamento ‘culturale’ del soggetto attenzionato, per mezzo di ragionamenti congetturali, talvolta labirintici, che forniscono spiegazioni anche lontane delle condotte incriminate.
Si rifletta sull’utilizzo dei fermi per controllo da parte della magistratura, sia innanzi al Tribunale del Riesame che in sede di giudizio abbreviato; sovente si legge sulle ordinanze e sulle sentenze di soggetti ritenuti gravemente indiziati in forza di un presunto inserimento nel crimine organizzato.
In altre parole, i comportamenti delittuosi vengono letti alla luce di fantomatici sistemi di tracciamento: gli spostamenti delle persone, i luoghi frequentati e le persone con cui in un passato non recente si è stati in contatto, i costumi e gli orientamenti politici e culturali.
Alla luce di ciò occorre liberarsi dalla convinzione che le misure prese durante lo stato di eccezione poi vengano sospese una volta terminata l’emergenza.
Quanto detto sopra spiega come la virtualizzazione del processo penale sia stata introiettata gradualmente, partendo dall’istituzione del Trattamento Informatico degli Atti Processuali penali. Ebbene il TIAP, con l’informatizzazione del carteggio processuale ha introdotto in maniera indolore l’intelligenza artificiale alla delicatissima operazione di selezione degli atti effettuata dagli avvocati in vista delle udienze oppure all’esito della conclusione delle indagini preliminari.
Al di là della soluzione, più o meno pratica, per l’ingombro dei faldoni da spostare nelle cancellerie dei tribunali e delle procure, ci si è mai chiesti se le spunte dei difensori alle parti del fascicolo interessate fossero visibili ad altri?
Come ogni piattaforma informatica, il TIAP è accessibile ad uno qualsiasi dei tecnici che lavorano secondo un rapporto di somministrazione presso la Procura o il Tribunale. Non poteva e doveva già essere questo un serio motivo di analisi delle dinamiche processualistiche in via di smaterializzazione?
Ora, tornando allo stato di emergenza, vale osservare che per quanto sia vero che tale situazione legittimi interventi extra ordinem, saranno altrettanto inevitabili le resistenze di alcuni operatori del diritto nel ‘ritorno al passato’, quando tutto sarà finito determinando un’istèresi giuridica in forza della quale anche in assenza di condizionamenti esterni la ‘telegiustizia’ conserverà alcuni suoi aspetti tecnici ed inevitabilmente anche giuridici.
Si legga sul punto la missiva inoltrata dal Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane, Avv. Gian Domenico Caiazza, al Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, in cui si fa riferimento proprio all’intenzione del Governo, con un emendamento già pronto per la conversione in legge del decreto Cura Italia, di estendere ‘le già eccezionali disposizioni in tema di celebrazione a distanza dei procedimenti penali con gli imputati detenuti che ne facciano richiesta, ora anche ai procedimenti con imputati liberi’.
Ciò che rileva in questa sede è comprendere quali sono i principi cristallizzati nel nostro ordinamento che collidono – o colliderebbero in un futuro prossimo dove l’epidemia sarà un lontano ricordo – con i collegamenti da remoto tramite gli applicativi messi a disposizione dalla DGSIA.
Tenendo comunque conto della circostanza che il Consiglio Superiore della Magistratura ha ben evidenziato la provvisorietà di tali ultimi espedienti, specificando che il relativo utilizzo sarà limitato ‘esclusivamente in questa fase emergenziale’ (Cfr. pag. 5 Prat. n. 186/VV/2020).
Il nostro processo è una sequela di atti che tendono ad un risultato, coerentemente con i parametri imposti dal legislatore, col fine precipuo di formare una struttura che sia simulacro di garanzia della civiltà giuridica.
L’art. 3 della Costituzione proclama l’uguaglianza formale e sostanziale davanti alla legge di tutti i cittadini indipendentemente dal sesso, dalla razza e dalla lingua. Siamo veramente certi che l’utilizzo di strumentazioni altamente tecnologiche sia percepito allo stesso modo da tutti? La maggiore o minore dimestichezza con la virtualizzazione delle dinamiche processuali non incide sulla capacità dell’individuo di partecipare libero al processo?
Si è già affrontata la delicatissima questione dell’inviolabilità dei colloqui tra l’avvocato ed i propri assistiti, non essendo possibile escludere graniticamente l’intercettazione involontaria del flusso di comunicazioni nel corso del ‘nuovo’ processo da remoto. Queste annose problematiche lasciano intendere che questa concatenazione di atti non può trascendere dai rapporti umani che ne costituiscono la fiamma primordiale. In fondo le risposte sono nella lettura dei principi che lo governano, molto meno fantascientifica di quanto lo sia la realtà in questo momento.
Nella lettera summenzionata, il Presidente delle Camere Penali ha mostrato disappunto rispetto alla possibilità che la smaterializzazione del processo possa protrarsi fino al 30 giugno. ‘Nessuno aveva osato neppure immaginare’ che un giorno fosse possibile la celebrazione di udienze nelle quali non sono presenti in aula gli imputati (ora appunto anche liberi), gli avvocati, i pubblici ministeri ed i giudici, ‘che potrebbero dunque ascoltare ed esaminare consulenti e parti processuali da casa propria’.
La giustizia – nel senso più stretto del suo significato – deve continuare a sviscerare la sua (a volte in)capacità di dare e riconoscere a ciascuno ciò che è dovuto. E perché ciò sia possibile occorre che ci si continui a guardare negli occhi.
È una fase storica in cui bisogna fare attenzione affinché l’epidemia in corso non legittimi oltre tempo la già avviata ‘algoritmizzazione’ del processo penale, surrogando il ricorso agli aspetti psico-sociologici, connaturati specialmente alle dinamiche del cosiddetto ‘penale carcerario’, con un calcolo delle probabilità dell’agire criminale.
Giuseppe Milazzo
da Opinio Juris
Note:
[1] Cfr. articolo de Il Mattino del 24.3.2020, pag. 30