Da Saipov ai fratelli Tsarnaev, gli attentatori della maratona di Boston: «la possibilità che le loro azioni fossero motivate da semplici idee acquisite senza alcun contributo esterno» indica in maniera ancor più evidente il percorso che può portare alla violenza, vicende individuali a cui lo jihadismo vorrebbe offrire una sinistra legittimità
Dopo che il 29enne di origine uzbeka Sayfullo Saipov ha seminato morte e terrore nel Lower West Side di Manhattan, il presidente Trump è tornato ad agitare lo spettro di un terrorismo «straniero» che nulla avrebbe a che fare con la società americana.
L’inchiesta condotta dalla giornalista moscovita, da tempo trasferitasi a New York, Masha Gessen, – “I fratelli Tsarnaev. Una tragedia moderna” (Carbonio, pp. 300, euro 18,50) – in seguito all’attentato alla maratona di Boston, compiuto il 15 aprile del 2013 da due fratelli ceceni, ma cresciuti nella città del Massachusetts, Tamerlan e Jahar Tsarnaev, offre più di uno spunto per replicare a queste invettive xenofobe e che mal illustrano la realtà degli Stati Uniti.
Se la domanda che accompagna ogni nuovo atto di terrore riguarda le forme della «radicalizzazione» che conducono spesso dei «signor nessuno», a divenire dei potenziali assassini di massa, Gessen predilige invece il contesto in cui tutto ciò si compie.
Perché a differenza delle tesi che rimandano all’esistenza esclusiva di reti organizzate e centralizzate, «la possibilità che le loro azioni fossero motivate da semplici idee acquisite senza alcun contributo esterno», indica in maniera ancor più evidente il percorso che può portare alla violenza. Un percorso che a seconda dei casi può essere iscritto nella storia o nelle vicende individuali e cui lo jihadismo vorrebbe offrire una sinistra legittimità.
Storia e vicende che nel caso dei fratelli Tsarnaev affondano le proprie radici in una sorta di doppia narrazione: da un lato le guerre scatenatesi nel Caucaso e in Asia centrale dopo la fine dell’Unione sovietica, nel corso delle quali la repressione dei russi ha finito per indirizzare gli indipendentisti locali verso il fondamentalismo, dall’altro il rapido venir meno del sogno americano tentato dalla famiglia dei due giovani.
Giunti nella zona di Boston nel 2001, solo pochi mesi dopo l’attentato alle Twin Towers, mentre l’orizzonte della War on Terror comincia a dominare la scena dentro e fuori il paese, i Tsarnaev erano una famiglia laica in cui l’interesse per la religione crescerà parallelamente allo sfumare della aspettative che erano state riposte in quel viaggio e nella promessa di un nuovo inizio lontano dalla guerra.
Come sottolinea Gessen, «il momento era il peggiore tra quelli possibili: approdarono in America proprio quando quelli come loro erano visti con molto sospetto».
Malgrado gli sforzi iniziali, nello studio come nello sport, per crescere da giovani americani che guardano al modello del ceto medio, i soldi non bastavano mai e le difficoltà montavano giorno dopo giorno. Tamerlan lascerà gli studi dopo aver tentato fortuna con la boxe, le sue due sorelle molleranno ancora prima, una in seguito ad un matrimonio affrettato con un marito violento; solo Jahar sembrerà conservare fino ai giorni dell’attentato una patina di serenità, malgrado frequenti dei piccoli delinquenti.
In ogni caso, circa un decennio dopo il loro arrivo, «ogni membro della famiglia Tsarnaev stava sprofondando in un suo inferno personale e distinto». Un inferno dal quale i due fratelli sbucheranno direttamente, Tamerlan dopo un breve soggiorno in Daghestan, Jahar attraverso internet, in un fondamentalismo rabbioso, privo di consapevolezza religiosa, ma nitido nel suo odio per gli Stati Uniti.
Da questo punto di vista, senza fare alcuno sconto alla predicazione di morte degli jihadisti, e alla eventuale imperizia dell’Fbi che ha controllato in questi anni migliaia di immigrati musulmani, già prima di Trump, ma non è riuscita a fermare due ragazzi e le loro micidiali bombe fatte in casa, Masha Gessen sottolinea come la storia dei fratelli Tsarnaev sia prima di tutto una storia americana: «Bastava essere nati nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, come capita a molte persone, non sentirsi mai inseriti, vedere sfumare tutte le occasioni, anche quelle apparentemente a portata di mano, finché l’occasione di essere qualcuno finalmente, quasi casualmente si presenta». Più che chiudere le frontiere si tratta perciò di capire cosa sta accadendo all’interno del paese.
Guido Caldiron
da il manifesto