Sette rifugiati politici, militanti nell’estrema sinistra italiana degli anni Settanta, sono stati arrestati in Francia, pronti a essere estradati verso Roma. La persecuzione contro i cosiddetti «anni di piombo» continua a tormentare il nostro presente
Enzo Calvitti, Giovanni Alimonti, Roberta Cappelli, Marina Petrella, Sergio Tornaghi, Giorgio Pietrostefani e Narciso Manenti. Sono i nomi dei sette militanti di estrema sinistra arrestati ieri mattina in Francia su richiesta dell’Italia. I primi cinque hanno fatto parte delle Brigate Rosse, Pietrostefani di Lotta Continua (malato da tempo, controversamente condannato come mandante dell’omicidio Calabresi) e Manenti dei Nuclei Armati per il contropotere territoriale. Altri tre, Luigi Bergamin, Maurizio Di Marzio e Raffaele Ventura, sono sfuggiti all’arresto e tuttora irreperibili – latitanti, nel freddo gergo delle questure indistintamente adottato dai media.
Nei loro arresti e nelle dichiarazioni dei principali partiti si legge una cosa sola: la volontà di vendetta dello Stato italiano in complicità con quello francese, che su questo, nonostante le dichiarazioni di comodo del presidente Macron, ha compiuto una netta inversione.
Lo stesso Stato italiano che un anno dopo la fine della dittatura decretava l’amnistia per quasi tutti i fascisti e processava centinaia di partigiani; lo stesso Stato dei servizi deviati che mettevano le bombe nelle piazze, sui treni e nelle stazioni; che non si è mai dimostrato interessato a ricostruire genealogia e composizione del terrorismo neofascista; che non ha mai voluto fare i conti con gli anni Settanta per non riconoscere il carattere politico di quell’insorgenza, che fu anche armata. E infine, lo stesso Stato che nella sua lotta contro l’estrema sinistra, armata e no, negli anni Settanta e Ottanta mise in campo strumenti come la tortura (le testimonianze sono decine), esecuzioni mirate, teoremi come quello del 7 aprile. Nessuno o quasi degli apparati statali protagonisti di queste strategie ha spiegato o chiesto scusa.
Gli arresti di ieri mattina non servono a chiudere i conti con la lotta armata, finita da anni così come conclusa è la stagione di conflitto dentro cui è maturata quell’ipotesi politica.
Un’ipotesi di direzione armata del movimento che, per chi scrive, si è dimostrata del tutto fallimentare e che del resto è stata archiviata anche dalla stragrande maggioranza di chi prese le armi. Una scelta che contribuì a costringere l’insorgenza rivoluzionaria, di massa, radicata socialmente, nella strettoia tra repressione e clandestinità. Il giudizio politico è netto, ma un fenomeno storico di simile portata, che coinvolse decine di migliaia di persone, non può essere in alcun modo ridotto a una questione penale. Che qualcosa fosse cambiato era chiaro anche con l’assurda vicenda di Cesare Battisti, la passerella mediatica dopo il suo arresto, la bava alla bocca dei giustizialisti nostrani.
Gli arresti di Parigi colpiscono persone diverse da quelle che hanno commesso i fatti e arrivano in un mondo completamente trasformato. Propongono come unica soluzione la morte in carcere di chi già da anni non rappresenta un pericolo per nessuno. A che servono allora?
Nessuno discute il dolore dei parenti delle vittime, intervistati senza pietà e pudore in queste ore, si discute del ruolo dello Stato italiano. Il paradigma vittimario, ormai affermatosi, non può essere l’unica risposta di uno stato di diritto che prova a fare i conti con il proprio passato. L’accanimento dello Stato mostra infatti il carattere esclusivamente politico di questa lunga persecuzione. Non ha alcuna pietà per i parenti delle vittime, non ha alcun interesse verso presunte ragioni di sicurezza, ma soltanto il desiderio di chiudere i conti con un’intera stagione politica, che non è solo quella della lotta armata, ma riguarda tutti coloro che dalla fine degli anni Sessanta insorsero con la convinzione di poter arrivare al comunismo.
Gli arrestati, accolti in Francia da quarantanni per una decisione di Mitterand, sono diventati nel tempo gli ostaggi dei presidenti Sarkozy e Macron ogni volta che si sono trovati in difficoltà nei confronti delle destre conservatrici e fasciste locali e nell’imminenza di ballottaggi decisivi, in questo caso nel pieno di una campagna contro il terrorismo jihadista e contro un fantomatico islamo-gauchisme che ovviamente nulla hanno a che vedere con i tempi e le personalità degli attuali estradandi.
Gli ostaggi vengono offerti al governo italiano o come spettacolo circense (“Foffo” Bonafede e il Capitano in giubba da secondini sulla pista di Ciampino, per Battisti) o, più decorosamente, a Macron e Draghi in nome dell’Europa e a compensazione dei fallimenti nella campagna vaccinale. Una nuova Europa che si deve fondare, pare, sulla prigionia di sessanta-settantenni che da decine di anni fanno tutt’altro nella vita e per i quali stentiamo a intravvedere alcuna funzione rieducativa di un’eventuale pena.
Non è tuttavia detto che l’operazione, che deve passare per una magistratura francese non proprio amichevole verso Macron, fili così liscia come la nostra stampa prevede e incita. In ogni caso, il problema resta e ci ripropone la necessità di un’amnistia che chiuda quanto politicamente e militarmente è finito ormai da decenni.
In attesa che questo accada, ci auguriamo che tutti gli altri e le altre ancora in libertà (ma che libertà è poi, esiliati da casa propria?) sappiano correre veloce, nascondersi bene, o semplicemente che possano essere lasciati in pace.
da DINAMOpress