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Terrorista a chi?

E’ bastato un cilindretto di cartone che sprigionasse fumo rosa e un uovo davanti la sede della Cisl a Roma per far gridare a giornalisti e politici il pericolo del ritorno al terrorismo in Italia.
Questo coro infame e strumentale ha lo scopo di rovesciare integralmente il senso e la realtà della storia di questo paese.
Allora è necessario occuparsi di aggettivi. Terrorista è il bombardamento aereo di una città. Non ha altro scopo fuori di quello di procurare strage a casaccio e seminare terrore tra indifesi e inermi. Il terrorismo comincia a Guernica nel 1937, sotto le bombe sganciate dalle ondate di attacchi della divisione Condor della Luftwaffe sopra un obiettivo civile che non aveva nulla di strategico, in un giorno di mercato. Rispetto a questo terrorismo, tutto quello che va sotto questo nome è sfumatura.
In Italia c’è stato il terrorismo ed è stato di Stato. E’ stato di Stato: uno stato al quadrato. Alimentato da apparati interni alle pubbliche istituzioni, con esplosivo scoppiato sui treni, in piazze, dentro le banche: è rimasto impunito. Consiglio perciò questa facile distinzione: considerate terroristi gli impuniti di strage. La loro impunità garantisce l’aggettivo.
Un paese con interi apparati statali compromessi con lo stragismo (e che sono stati compromessi non lo dico io: lo ha affermato un ministro degli Interni democristiano dei tempi come Paolo Emilio Taviani, tra i fondatori di Gladio), dentro un sistema capitalistico di intenso sfruttamento e di stragi sul lavoro. Rappresentanti politici di governo, uomini di partito che hanno alimentato la strategia della tensione, che hanno tramato per costruire svolte autoritarie e golpiste in Italia, dalla Rosa dei venti alla P2, che in alcuni momenti della storia di questo paese sono state preponderanti. E anche chi non era in quella cabina di regia, ne è stato in molti tratti complice omertoso, per realismo politico e fedeltà al “sistema” se non per convinzione. Uomini e apparati che hanno gestito i risvolti sporchi della guerra fredda e il volto opaco della democrazia italiana. Non bisogna dimenticare che tutti gli allora responsabili dei servizi segreti, i vertici dei carabinieri, numerosi alti funzionari della polizia, magistrati, autorevoli esponenti di partito erano attivi nella loggia P2.
Giovanni Pellegrino – che nella seconda metà degli anni ’90 è stato presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo – ha cosi scritto: “ Nel periodo 1968-1974 settori del mondo politico, apparati istituzionali, gruppi e movimenti della destra radicale hanno elaborato e posto in essere una strategia della tensione […]; a tale strategia sono attribuibili tentativi di colpo di Stato […] tre grandi stragi impunite nel periodo 1969-1974 […] gli apparati di intelligence e di sicurezza, anche dopo il 1974, furono autori di attività di depistaggio e di copertura nei confronti di elementi della destra radicale individuati come possibili autori di fatti di strage”.
E’ questa una verità documentata negli atti parlamentari e che ha portato lo stesso Giovanni Pellegrino a dichiarare: “ La Commissione stragi deve avere il coraggio di dire agli italiani in forma ufficiale che le cose sono andate cosi: eravamo un Paese dove si è combattuta per molti anni una guerra, a bassa intensità, ma una guerra c’era” E ancora: “ In tutti i capoluoghi di regione, in uffici privati, erano dislocate tra il 1950 e il 1984 strutture miste di polizia da cui dipendevano dei civili, per lo più infiltrati, che operavano alla dipendenza diretta dell’Ufficio di sicurezza del Ministero dell’Interno e da quello che ne rappresentava il cuore e cioè l’Ufficio affari riservati. Queste strutture periferiche “parallele” raccoglievano notizie, infiltravano gruppi estremistici, operavano autonome indagini rispetto all’attività giudiziaria ufficiale
Una “guerra” che ha prodotto 147 vittime e 690 feriti per le bombe stragiste e 414 dimostranti uccisi dalle forze dell’ordine dal dopoguerra al 1980.
E’ questa una storia d’Italia, rimasta sepolta nelle montagne di carte e documenti e nei tanti “armadi della vergogna” che trova nell’assoluta continuità degli apparati statali e polizieschi dell’Italia repubblicana con quelli del fascismo. Basti pensare che ancora nel 1960, 62 dei 64 prefetti di prima classe provenivano dai ranghi dell’amministrazione dello Stato nel regime mussoliniano E cosi pure tutti i 241 viceprefetti, i 135 questori e i 139 vicequestori.
Paradigmatica di questa continuità è la figura di Marcello Guida, questore a Milano: città cardine e laboratorio privilegiato di quella strategia nel periodo della strage di Piazza Fontana e della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuta nei locali della questura dove era sottoposto a interrogatorio. Laboratorio anche dei pervicaci depistaggi delle indagini e delle coperture e impunità assicurate ai gruppi eversivi e terroristi della destra. Marcello Guida, funzionario della Stato fascista, era stato direttore del carcere-confino di Ventotene, dove erano rinchiusi militanti e dirigenti dell’opposizione al regime, comprese figure di riferimento del PCI, PSI. Tra di loro anche Sandro Pertini, che secondo alcuni nel giorno dei funerali delle vittime della strage di piazza fontana rifiutò di stringere la mano all’ex direttore del carcere-confino.
Quella della strategia della tensione è una storia parallela e nascosta, che è ormai trascorsa senza lasciare alcuna traccia nella pubblica opinione e nella società civile – e lasciandone invece di inevitabili e persistenti, in termini di continuità fisiche e culturali e di vincoli omertosi negli apparati statali – ma che pure dovrebbero porre qualche riflessione in più su quegli anni, sullo Stato democratico e sulle risposte che poi date al fenomeno della lotta armata.
Lo Stato ha vinto, quello che Pellegrino ha chiamato, la “guerra civile” con le organizzazioni armate, ma i vincitori hanno pervicacemente negato, negli anni,alle insorgenze armate, ogni radice sociale e politica, ogni motivazione di reazione ai profondi deficit di democrazia e di giustizia sociale di cui è stata intessuta la storia italiana del dopoguerra, con la particolare accentuazione del crinale tra gli anni ’60 e ’70, con la strategia della tensione e le stragi. Sconfitte quelle insorgenze, processati e schiacciati da un destino di carcere si è consegnata alla storia e alle nuove generazioni una lettura e un giudizio di quei fenomeni come puramente criminali o, addirittura, psicopatologici. Ma dovrebbero bastare le cifre a svelare quanto si sia piuttosto trattato di un ampio fenomeno di radicalità sociale: 40.000 denunciati, 20.000 “passati” dalle carceri, 4.200 condannati, spesso senza nessuna garanzia del diritto di difendersi. Dietro queste aride cifre, le “carceri speciali”, la tortura, l’isolamento, la parte migliore di due generazioni ricondotta all’esilio, o “restituita” alla società dopo essere stata umiliata nella sua identità.
Negli ultimi 20 anni c’è stata una enorme maturazione e trasformazione dei movimenti sociali e antagonisti, con un abbandono generalizzato delle pratiche violente e un trasferimento dello scontro sul piano simbolico o su quello della disobbedienza di massa. Dall’altra parte, lo Stato ha continuato con le armi della repressione e della legislazione emergenziale.
Dalle giornate di Genova 2001 alle numerose cariche gratuite contro ogni genere di manifestazione e vertenza sociale e territoriale, dalle persecuzioni e umiliazioni dei migranti, al ricatto imposto ai lavoratori, al ricorso alla violenza fisica. Per non parlare di Stefano Cucchi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi e tanti altri usciti malconci dalle mani delle forze dell’ordine. Depistaggi, insabbiamenti, promozione dei responsabili sono state le risposte ottenute dai cittadini, senza parlare poi dei 15 mila denunciati per le lotte sociali dal G8 di Genova ad oggi. Una ulteriore dimostrazione di come lo Stato cerca scientificamente di trasformare le lotte politiche e sociali in azioni puramente delinquenziali.
Coloro che hanno in mano le redini sociali e di garanzia dello Stato, hanno dimostrato e dimostrano coi fatti, che della democrazia, dei diritti dei cittadini se ne infischiano. Dispiace e inquieta, invece, che anche nella sinistra cosiddetta radicale c’è chi pensa che un uovo o un fumogeno possa creare terrore. Personalmente a Lor Signori ho una gran voglia di tirare un uovo.


Italo Di Sabatoosservatorio sulla repressione