Testimonianze: a Lampedusa abusi e violenze
- agosto 04, 2011
- in emergenza, migranti cie, testimonianze
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Di ritorno da Lampedusa, pervasa di impotenza. Nelle orecchie ancora le urla di un ragazzino che tenta di ribellarsi ad una perquisizione. Eravamo a Contrada Imbriacola a salutare i ragazzi e Tracy, una bellissima minore nigeriana che, quando mi abbraccia, prende la rincorsa e poi si stringe con la testa sulle spalle, sorride e abbassa lo sguardo un po’ vergognosa.
Angelina (un nome, una garanzia) di Msf le ha portato “il piccolo principe” in inglese e lei se l’è divorato in una notte. Vorrebbe leggere ancora e ancora ma sull’isola in inglese c’è solo la bibbia (che il prete distribuisce a larghe mani insieme a rosari colorati) e lei la sta studiando a memoria.. Da una stanza accanto ai bagni sentiamo urlare, la porta è accostata, mi avvicino vedo M. il parrucchiere filosofo, come lo abbiamo ribattezzato.
Lui parla spesso con noi, è sveglio e parla un buon francese. In Tunisia faceva il barbiere ed è scappato non per problemi economici ma per l’instabilità del suo paese (dove gli scontri non sono mai cessati ma si è solo smesso di parlarne) per questo motivo ha già manifestato la sua volontà di chiedere asilo. Cionostante si trova rinchiuso insieme agli altri da settimane a Contrada Imbriacola. Neanche a lui come agli altri è stato notificato alcun provvedimento di trattenimento: trattenuto di fatto ma non di diritto. In attesa di non si sa cosa, M. non si perde d’animo. Come molti altri rifiuta il cibo definito immangiabile distribuito dalla Lampedusa Accoglienza. Lui però a differenza degli altri ha qualche soldo in tasca che è riuscito a portare con sé e proteggere nel viaggio. Per questo appena può cerca di uscire dal Cpsa per andare a comprarsi cibo e sigarette e poi torna.
Lui è sveglio, sa che la sua detenzione è illegittima e comunque non vuole scappare (e dove potrebbe andare, si trova su un’isola peraltro presidiata da ogni tipo di forza armata, compreso l’esercito) vuole solo per mezz’ora sentirsi “normale” mangiare cibo vero, tipo un panino bere una coca e fumarsi una sigaretta. Vuole per mezz’ora non sentirsi un criminale in gabbia. Gli spieghiamo ogni giorno che non può uscire, che deve resistere, che tra poco verrà trasferito in un centro per richiedenti asilo (Cara) e chi lì andrà meglio. Ma lui non ci ascolta, scuote la testa.
M. crede che le persone abbiano il diritto di essere felici o almeno di provarci, e si preoccupa per noi. Dice che ogni giorno ci vede più stanche, vede i nostri visi provati e gli occhi tristi. Scherza con noi e si preoccupa dei nostri di diritti, dice che non è normale che tre ragazze (beh io non lo sono più da un po’ di anni ma lui è galante) su un’isola bellissima passino il loro tempo in quel posto schifoso anziché su una spiaggia. Mi domanda se dormo abbastanza perché effettivamente ho le occhiaie dopo qualche notte insonne, gli spiego che ho troppi pensieri e non riesco a dormire. Ha una soluzione: mi dice di passare al Centro prima di coricarmi: mi terrà da parte il cibo che l’ente gestore distribuisce e mi assicura che dopo averlo ingerito si prende subito sonno. Quel cibo fa schifo ma fa dormire.
Ora M. è rinchiuso in una stanza e sta subendo una perquisizione fin troppo approfondita a giudicare dalle urla e dai guanti di lattice che fasciano le mani dei poliziotti e degli agenti della guardia di finanza che si affollano nella stanza. Vorrei fare qualcosa per lui ma questa non è una perquisizione normale. Non credo sia stato avvertito del diritto di nominare un avvocato perché assista alla perquisizione (né che alla fine gli verrà consegnato un verbale che ne specifichi l’esito) e quindi non ho diritto ad assisterlo non essendo stata da lui nominata.
Mi avvicino più che posso, chiedo informazioni ma l’unica risposta che ottengo é che la perquisizione è necessaria perché questi ragazzi quando escono dal centro magari comprano le lamette (per poi inghiottirle quando la depressione e la rabbia prendono il sopravvento) e se le nascondono “ovunque” e quindi spetta a loro, alla polizia, frugare “ovunque” per scovare queste eventuali lamette.
E così quella che sembra un’arbitraria punizione sarebbe un legittimo atto dovuto. Peccato che viola qualunque regola procedurale in materia e che si svolge su di un ragazzo richiedente asilo privato da settimane illegittimamente della libertà personale. Ma soprattutto perché nessuno si domanda come mai dei ragazzini che hanno rischiato la vita per tentare di avere un futuro, una volta rinchiusi nelle gabbie di Contrada Imbriacola (o negli altri centri) coltivino tutta questa voglia di morire? E perché nessuno fa nulla per evitarlo?
Restiamo lì finché le urlano non cessano, poi lo vediamo uscire, lo spingono verso il cancello, verso la gabbia degli adulti: chiede una sigaretta, gliela danno ma gli impongono di dire grazie. Glielo urlano, devi dire grazie! Lui allora urla grazie ad ognuno dei poliziotti che l’ha perquisito, con aria di sfida, con l’orgoglio di chi può essere spogliato e perquisito ma non sottomesso. I poliziotti non la prendono bene e mentre lo strascinano al cancello gli urlano: vedrai il grazie che ti diremo noi tra poco.
Il mio aereo parte tra 50 minuti e comunque lì sono totalmente inutile. E così frustrata e nauseata lascio M., il centro e l’isola. Sull’aereo sento addosso, appiccicata sulla pelle e negli occhi tutta la violenza che, impotente, ho visto e sentito in questi giorni.
Avvilita, mi aggrappo allora, per non essere sopraffatta dalla nausea e dalla disperazione, ad un pensiero felice. Ad una speranza. Un miracolo di cui sono stata spettatrice. A Lampedusa per una settimana una cinquantina di ragazzi (ma anche qualche adulto) ha partecipato al campeggio organizzato da Amnesty International per i diritti umani. Hanno sostato fuori dai centri, salutato sbracciandosi i giovani prigionieri, hanno parlato di leggi e di diritti, hanno fatto domande e cercato risposte. Con curiosità, purezza ed intelligenza. Accoglienti, preparati e partecipi. Volevano portare il loro saluto ai migranti detenuti nei centri ma non gli è stato concesso. Volevano trasmettere la loro vicinanza ai loro coetanei migranti. Le hanno provate tutte. Si sono ingegnati e poi hanno scritto questa lettera perché la leggessimo ai minorenni rinchiusi alla Loran.
“Siamo arrivati da diverse parti di Italia e d’Europa, siamo giovani e meno giovani, abbiamo provato a portarvi un sorriso, abbiamo provato a raggiungervi per conoscere il Vostro sorriso abbiamo provato ad incontrarvi per ascoltare i vostri nomi e per darvi il nostro benvenuto, abbiamo guardato da lontano i vostri saluti e abbiamo risposto salutandovi: Volevamo correre, saltare il cancello e con un pallone conoscervi per condividere qualche istante sereno… ma non cel’abbiamo fatta a far sii che il nostro sorriso potesse diventare anche il vostro… Noi, e tanti altri con noi, continueremo a sperare di ascoltare i vostri racconti, non smetteremo mai di chiedere i vostri sorrisi, continueremo a cercare il vostro abbraccio e non finiremo mai di chiedere di farci incontrare… Non possiamo venire lì, ma di certo non smetteremo mai di aspettarvi qui!”
C’era un silenzio irreale nel centro: 101 ragazzi muti, raccolti intorno a noi, ad ascoltare questa testimonianza di empatia. Hanno applaudito due volte e alla fine con gli occhi umidi mi hanno chiesto di ringraziare questi amici sconosciuti. Hanno pensato a tutti i ragazzi di Amnesty. Anche ai lampedusani che sanno di essere stati accoglienti quando lo Stato latitava. Così hanno deciso di scriverla questa riconoscenza tracciando sulla sabbia della spiaggia la scritta Grazie rivolta verso il paese, verso gli isolani, e poi immortalando l’immagine in tante cartoline distribuite nella festa serale nella via principale dell’Isola. Nella piazza di fronte alla chiesa hanno predisposto un piccolo percorso di candele e scritte.
Trovo, tra le altre, questa versione geniale e commuovente del Padre Nostro. Gian Marco, l’autore, è uno dei “campeggiatori” di Amnesty, un giovane poeta.
Migrante Nostro. Migrante Nostro, Che sei nei centri, Sia rispettato il tuo nome Venga il giorno in cui ovunque la terra ti accolga, Ti sia restituita la tua Dignità, Come in mare Così in terra. Che non ti sia negato il pane quotidiano Perdona a noi la violazione dei tuoi diritti Come noi ci impegniamo a non esserti più debitori. E non ricorriamo ingiustamente alla detenzione ma liberiamoti dal mare… Amin
(Gian Marco Giuliana con l’inestimabile aiuto di Helena Caruso).
Questi ragazzi così belli e creativi sono la nostra Italia migliore, da difendere e far crescere. Penso a loro sull’aereo. E ricomincio a sperare.
Alessandra Ballerini @valigia blu – riproduzione consigliata
Nel decimo anniversario del G8 di Genova, Amnesty International chiede all’Italia di introdurre il reato di tortura, gli strumenti per prevenire e punire gli abusi di funzionari e agenti delle forze di polizia e le misure per identificare gli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico. Firma l’appello di Amnesty International Operazione trasparenza, diritti umani e polizia in Italia
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