Poco dopo la mezzanotte, tra il 5 e il 6 dicembre 2007, un incendio scoppia alla linea 5 dello stabilimento siderurgico della ThyssenKrupp di Torino e causa la morte di sette operai. Sopravvive uno solo dei lavoratori del turno. La magistratura inquirente contesterà all’amministratore delegato, a un altro dirigente di nazionalità tedesca e a quattro dirigenti italiani, l’omissione dolosa dei sistemi antinfortunistici e di prevenzione antincendio.
Nel corso delle indagini, secondo quanto riporta «La Stampa» nel gennaio 2008, la Guardia di finanza sequestra un documento aziendale in cui si attribuisce la colpa dell’accaduto alla distrazione degli operai e si prospettano azioni legali contro il lavoratore sopravvissuto, che accusa a sua volta l’azienda in interviste sui mezzi di comunicazione. Nel 2008 i familiari delle vittime accettano un accordo di risarcimento, rinunciando a costituirsi parte civile. La sentenza di primo grado, nel 2011, considerando gli accusati colpevoli di omicidio volontario, commina condanne pesanti, ridotte in secondo grado, nel 2013, per l’imputazione del solo omicidio colposo. La Cassazione conferma le condanne pluriennali inflitte dalla Corte d’Appello, ma l’amministratore delegato e il manager tedesco, avendo ottenuto la semilibertà, evitano il carcere.
Subentrata nel 1994 nella proprietà delle storiche acciaierie Terni, fondate 110 anni prima, la ThyssenKrupp è accusata di aver trascurato la manutenzione degli impianti torinesi, le cui produzioni sono in procinto di essere trasferite a Terni. Gli operai del turno, oltretutto, sono al lavoro da 12 ore, avendo svolto quattro ore di straordinario. Si tratta di uno dei più gravi incidenti sul lavoro della storia italiana recente.
Una storia tragica e di lunga data, quella degli incidenti sul lavoro, che sta avendo una recrudescenza in questo 2021, con la ripresa delle attività produttive dopo la fase più acuta dell’epidemia di Covid-19. Trascurate per tutta la prima fase dell’industrializzazione, morti e menomazioni sul lavoro sono state considerate inizialmente un inevitabile sacrificio sull’altare del progresso economico. Suscitarono l’attenzione delle classi dirigenti italiane solo negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando vari disegni di legge non passarono per l’opposizione della maggioranza liberale all’impegno finanziario dello Stato nella spesa sociale. Alcuni di quei disegni prevedevano «l’inversione dell’onere della prova»: non doveva più toccare all’infortunato fornire la prova della colpa padronale, ma al datore di lavoro scagionarsi dimostrando l’accidentalità dell’infortunio o la colpa del lavoratore; altre proposte abbandonavano l’inversione della prova, troppo invisa ai datori di lavoro, per guardare al campo assicurativo, che pur comportando oneri liberava le imprese dal risarcimento. Dopo un lungo e accidentato percorso, si arrivò alla legge del 1898, che istituiva l’obbligo di assicurare gli operai delle industrie contro gli infortuni sul lavoro, con libera scelta dell’istituto assicuratore, ma con il mantenimento della responsabilità civile qualora l’incidente che dava titolo al pieno risarcimento fosse stato confermato dal magistrato per condanna in sede penale.
Trascurate per tutta la prima fase dell’industrializzazione, morti e menomazioni sul lavoro sono state considerate inizialmente un inevitabile sacrificio sull’altare del progresso economico
La secolare evoluzione successiva degli istituti assicurativi e della legislazione improntata alla sicurezza ha lentamente costruito un sistema di tutele per i lavoratori fino all’oggi, quando ha raggiunto un livello tanto ampio sul piano formale quanto ancora problematico nei riguardi dell’efficacia pratica.
La prevenzione è gradualmente divenuta il faro guida dell’azione delle istituzioni sotto la spinta delle organizzazioni del movimento operaio. Tuttavia, in tema di cultura della sicurezza e di controlli sulla effettiva implementazione delle misure, molto resta ancora da fare. Gli ispettorati del lavoro hanno organici ridotti per poter svolgere un’adeguata azione preventiva. Il moltiplicarsi delle strategie di outsourcing da parte delle imprese medio-grandi e la capillare diffusione delle pratiche di subappalto moltiplicano l’attività di una miriade di piccole imprese non sempre avvezze all’osservanza delle norme. I tempi di consegna e il perseguimento delle occasioni di mercato inducono ad anteporre la spinta alla produzione alle ragioni della prudenza. Troppo spesso si sacrifica la formazione dei lavoratori alla sicurezza, mettendo così a rischio specialmente i neo-assunti.
Troppo spesso si sacrifica la formazione dei lavoratori alla sicurezza, mettendo così a rischio specialmente i neo-assunti
A volte sono caratteri radicati nelle subculture del lavoro a costituire ostacoli alla piena adozione dei dispositivi di sicurezza, quando questi possono risultare fastidiosi: alcune tradizioni maschili, ad esempio, mitizzando mestieri quali il fonditore demiurgo che forgia il ferro con il fuoco, il minatore che va, quale guerriero, all’assalto della vena, o il lavoratore delle costruzioni capace di stare in equilibrio su tetti e ponteggi e di sopportare la fatica sotto il sole, hanno inopinatamente contribuito all’assunzione di atteggiamenti di sprezzo del pericolo.
L’anti-infortunistica, d’altra parte, va coniugata alla salute dei lavoratori sul lungo periodo, per l’esposizione a condizioni ambientali, polveri, sostanze nocive o attività prolungate che possono avere conseguenze a carico dell’apparato muscolo-scheletrico. La prevenzione infortunistica è stata per lo più assegnata a professioni tecnico-ingegneristiche, tanto che, sin dalla nascita nel 1906, il Corpo degli ispettori del lavoro era composto prevalentemente da ingegneri, con scarsa presenza di medici. Nonostante l’insufficiente attenzione istituzionale per la salute sul lavoro, la medicina del lavoro italiana ha storicamente svolto un ruolo di avanguardia nel confronto internazionale, a partire dagli studi tardo-ottocenteschi di Angelo Mosso sulla fatica e dalle esperienze della Clinica del lavoro, fondata a Milano nel 1910 e animata da Luigi Devoto. La Società italiana di medicina del lavoro ha svolto sin dalla sua nascita, nel 1931, un ruolo promozionale nell’organizzazione dei congressi internazionali di medicina del lavoro, tanto che furono italiani i medici incaricati di dirigere la sezione dell’Ufficio internazionale del lavoro dedicata al tema (Luigi Carozzi negli anni tra le due guerre mondiali e Luigi Parmeggiani nel secondo dopoguerra).
Le conseguenze pratiche della mole degli studi furono tuttavia limitate, per il prevalere delle ragioni del profitto, ma anche della produzione. Permaneva la convinzione che il primato toccasse al maggior benessere sociale complessivo garantito dal dinamismo economico, cui si potevano sacrificare rischi futuri, accettati del resto dai lavoratori e dalle lavoratrici pur di conservare attraverso l’occupazione la capacità di provvedere a sé stessi e alle proprie famiglie. Così, in anni non lontani, ai posti di lavoro esposti alla nocività erano riconosciute indennità particolari, e solo nell’ondata di conflittualità esplosa alla fine del miracolo economico, con l’autunno caldo del 1969 e i suoi riflessi nel decennio successivo, le organizzazioni dei lavoratori rivendicarono la fine della «monetizzazione della salute». Proprio in quella fase, ci furono esperienze d’avanguardia nella rilevazione dei disagi e dei rischi, grazie a iniziative dei sindacati e di medici in tema di prevenzione nel campo della salute, che avrebbero tra l’altro ispirato alcuni indirizzi della riforma sanitaria del 1978.
Negli anni successivi, con il venir meno del protagonismo operaio e l’indebolimento delle organizzazioni sindacali – conseguente ai processi di globalizzazione e all’affermarsi di politiche di stampo neo-liberista – l’attenzione mediatica alla fabbrica e ai problemi del lavoro è scemata, mentre le pressioni derivati dalle difficoltà dell’economia hanno relegato in secondo piano i temi della sicurezza e salute, nonostante le prescrizioni di legge e la diffusa condivisione dell’inaccettabilità delle morti sul lavoro. L’affermarsi dell’economia della conoscenza e il moltiplicarsi dei lavori da colletto bianco hanno accresciuto l’attenzione ai fattori da stress, mentre il lavoro manuale nei settori più a rischio è in misura crescente appannaggio dei nuovi immigrati, ai quali non si presta sufficiente considerazione. Ricordare allora che sul lavoro si può morire, soprattutto in alcuni tipi di lavoro, significa avere la consapevolezza anche di questi divari. (da il mulino)